di Emy Serabile
Ciao Povery! Ok, no, non è un gran che come inizio della rubrica, ma mi stavo montando la testa e avevo pensato di trovare un incipit “riconoscibile”. E, ovviamente, ho scelto un meme di 10 anni fa, tanto per denunciare la mia età. Veniamo a noi, oggi, per il nostro manuale di sopravvivenza su come essere poveri a Berlino e vivere bene lo stesso, parliamo di abbigliamento. Non senza premesse. Non penserete mica di scappare dalle premesse, vero? Le premesse e le divagazioni sono il sale della vita e, soprattutto, sono gratis!
Disclaimer! Se vuoi scoprire perché non mi limito a comprare capi a bassissimo costo su internet, continua a leggere. Se vuoi solo sapere dove trovare abbigliamento a poco prezzo o gratis a Berlino, vai al paragrafo 3!
Di recente, durante una delle mie sessioni di doom-scrolling controllato su Instagram, mi è capitato di vedere un tutorial di falegnameria (l’algoritmo mi conosce), accompagnato da una voce fuori campo, che in realtà si trova anche su altri video simili, che dice “il tuo problema non è che sei povero, il tuo problema è che fai schifo a essere povero”. E, dal momento che siamo in tema di meme, mi si è accesa nella testa la gif di Gerry Scotti che dice “Ma parla di me!” e ho pensato che dovevo assolutamente condividere con voi altri morti di fame questa grande verità. Perché è vero: quelli che stanno veramente inguaiati non sono i poveri tout court, sono quelli che non sono capaci di essere poveri bene, magari perché prima erano benestanti o semplicemente perché non hanno acquisito certe abilità. E attenzione, non sto dando ragione all’FDP che dice che dovremmo tutti mangiare brioches se non abbiamo pane, sto semplicemente dicendo che, se abbiamo avuto la sfiga di nascere nella spirale decadente del capitalismo (o del finto-capitalismo, secondo Noam Chomsky e anche secondo me), allora tanto vale imparare a campare decentemente e darsi un po’ di gioia nella vita, anche perché, senza gioia, come la fai la rivoluzione? Ragazzi, il citazionismo oggi mi distrugge.
Leggi anche:
Essere poveri a Berlino – manuale di sopravvivenza. #2: in cucina
Veniamo a noi: oggi si parla di abbigliamento, dicevamo. E questa è la volta che divento controversa e “problematica”.
Perché? Ve lo spiego subito.
1. Il non-problema dell’abbigliamento
Per moltissime persone, il problema dell’abbigliamento per noi poveri è un non-problema. Esistono almeno due o tre principali piattaforme che permettono di comprare capi e scarpe online a prezzi ridicoli. RI-DI-CO-LI. Pochi euro per un paio di pantaloni, un euro per una t-shirt, centesimi per gli accessori. E allora, perché dovremmo preoccuparci di andare alla ricerca di altre opzioni, che tanto non saranno mai in grado di competere? Perché dovremmo perdere tempo a imparare a rammendare, se possiamo ricomprare per due Euro? Perché io mi rifiuto di usarle, quelle piattaforme. E non ti giudico negativamente se tu lo fai, però ti prego, prenditi dieci minuti per considerare le alternative. E poi perché con due Euro di lenticchie ci mangi due settimane! Non ti ho insegnato niente fino a ora?
2. Perché non compro abbigliamento sulle piattaforme di Fast Fashion (anche se costa poco)
E no, questo non vuol dire che non abbia mai comprato un capo in uno di quei grandi franchise che si trovano in Alexanderplatz (anche se non mi capita da almeno cinque anni), ma non ho mai acquistato nulla da quelle piattaforme dove un paio di pantaloni costa come un caffè alla macchinetta nella stazione della U-Bahn. Perché non me lo merito io e non se lo merita nemmeno il resto del mondo.
Un po’ lo faccio per gli altri…
La parte “sociale” si può riassumere nel monologo di Secco in “Questo mondo non mi renderà cattivo” di Zerocalcare, ovvero, posso anche avere poco, ma quel poco non lo tolgo a chi sta peggio di me. Non vivo bene sapendo (perché lo sappiamo, non è una mera speculazione) che la mia t-shirt con un disegno simpatico è stata messa insieme da un essere umano pagato all’ora molto meno del costo di quella stessa maglietta, che non ha il diritto di scioperare, che non ha accesso ai servizi fondamentali per una sopravvivenza dignitosa e il cui sfruttamento arricchisce imprese che sono fra le principali responsabili di emissioni di CO2 a livello globale.
E non è solo lo sfruttamento della persona che ha cucito la maglia e ha avviato la stampa a entrare in gioco, ma anche quello di chi ha raccolto il cotone, lavorato i materiali plastici e gli inchiostri tossici. Il tutto per un capo d’abbigliamento fatto per durare meno di niente, che si sbriciolerà fino a essere inutilizzabile in pochissimo tempo e finirà a rimpolpare le montagne di rifiuti che la moda usa-e-getta occidentale scarica in Ghana e in Cile, fra gli altri. Se vuoi rovinarti la giornata, googola i nomi di questi Paesi abbinati alle parole “fast” e “fashion”.
Io non voglio che niente di mio finisca in quelle montagne. E posso dire con certezza che, negli ultimi 10 anni, non è successo. Attenzione: questo non mi rende migliore di chi ha comprato una maglietta a 5 Euro perché non aveva altre opzioni in quel momento o non sapeva di averne. Il problema vero non sei tu che compri abbigliamento a basso costo, sono i regolamenti nazionali e internazionali che non vietano in blocco questo tipo di produzione, che non impongono un salario minimo vivibile e diritti per i lavoratori. La verità è che un capo d’abbigliamento non può costare 5 Euro e nemmeno 10, se per produrlo non è stato sfruttato qualcuno e se la sua produzione è sostenibile e rispettosa di tutti i requisiti di sicurezza. Se si produce un capo senza sfruttare nessuno, senza pratiche dannose per il pianeta e senza materiali tossici per il cliente, il prezzo sale. È matematica. Il fast fashion, per me, è come lo zio fascista che blatera al pranzo di Natale: non posso cancellarlo dalla faccia della terra, ma sarò libera di non volerci avere a che fare?
… e un po’ lo faccio per me
E poi c’è una parte egoistica. Anche qui, non farò nomi di brand, perché dalla redazione mi fanno sapere che non possiamo permetterci gli avvocati necessari, ma vi invito a googolare i nomi più noti delle piattaforme di fast fashion abbinati a chiavi di ricerca come “toxic chemicals”. Molti di questi capi, infatti, vengono prodotti in Paesi nei quali ci sono molti meno controlli sui materiali che si impiegano e, nonostante questi spesso non rispettino i regolamenti europei, i controlli necessari non vengono effettuati neppure in fase di importazione e gli ordini arrivano comunque a destinazione. Questo vuol dire che, se indossiamo quei capi di abbigliamento, mettiamo a contatto con la nostra pelle sostanze che sono riconosciute come tossiche e addirittura cancerogene, in quantità centinaia di volte superiori a quelle che l’Unione Europea considera compatibili con la tutela della salute. In pratica, ci avveleniamo, perché siamo poveri. Perché chi si compra gli abiti di sartoria mica deve temere di farsi le spugnature col mercurio. No, questo è un problema che hai tu, che sei povero.
La seconda ragione egoistica ha a che fare con la privacy. Hai mai sentito quel vecchio adagio del marketing secondo cui “se il prodotto è gratis, il prodotto sei tu”? Ecco, vale anche se il prodotto è “quasi” gratis. Lo scandalo di un annetto fa lo dovremmo ricordare tutti: dopo un acquisto su una di queste piattaforme, ci si ritrova con molti meno soldi del previsto sul conto e si scopre che i propri dati sono stati rubati, contrabbandati, venduti. Questo perché un’azienda, che non si occupa della sicurezza dal punto di vista della salute dei clienti, difficilmente se ne preoccuperà dal punto di vista della tutela della privacy e della sicurezza informatica. Se il problema sia un abuso diretto dall’interno dell’azienda o ripetute fughe di dati perché la protezione è scadente non lo so, ma quel poco che mi guadagno gradirei decidere io come spenderlo e non vederlo utilizzato per pagare il delivery di un hacker in Malesia.
Santa miseria, 1200 parole per dirvi quello che “non faccio”. Io sono NATA per le rubriche di consigli, raga. NATA.
Parliamo di quello che faccio. Forse vi metto pure un menu all’inizio così potete skippare il pistolotto eco-sociale, perché diciamolo, ne avete il sacrosanto diritto.
3. Dove trovare capi di abbigliamento gratis a Berlino
Prima regola del povero che si vuole abbigliare a Berlino: sapere dove trovare abbigliamento gratis. E non sto parlando delle donazioni per i bisognosi (che sono comunque un’opzione e ne abbiamo parlato qui), gestite dalle diverse associazioni che si occupano soprattutto di senzatetto. Sto parlando di semplicissimo buon vicinato, che è una delle cose che io amo di più di Berlino.
In quasi tutti i quartieri, infatti, ci sono uno o più punti di “esposizione” dove si pratica la sublime arte del “Zum Verschenken”, ovvero del “regalare”, applicata all’abbigliamento. Sono punti specifici, perché i capi vengono solitamente esposti in contesti nei quali possano essere fuori dalla portata dei cani di passaggio e mantenersi relativamente puliti.
In alcuni casi ci sono delle vere e proprie “cabine”, spesso artigianali oppure ricavate da vecchie cabine telefoniche, munite di mensole dove i vestiti vengono disposti ordinatamente, piegati o appesi. In altri casi, gli abiti vengono appesi, con o senza grucce, alla cancellata o alla recinzione di un parco o di un’aiuola, se abbastanza alta. Io ho preso un paio di cose in questi contesti, negli ultimi anni, e le ho sempre trovate di ottima qualità e pulite. Se sei in una situazione disperata e non puoi permetterti davvero di spendere neppure un euro, questa è un’ottima opzione.
4. L’app che devi assolutamente avere
Un’altra risorsa importantissima, della quale ti parlerò ancora, nelle prossime puntate, è l’app del vicinato. Si chiama Nebenan e funziona in base all’indirizzo. Quando ti registri (e devi farlo con i tuoi veri dati, per la sicurezza di tutti gli utenti), in base al cap nel quale risiedi, verrai inserito in un gruppo.
Sull’app, gli abitanti del quartiere pubblicano continuamente annunci per qualsiasi cosa: eventi, ricerca di nuove amicizie per coltivare hobby, aperture di locali e negozi, ricerca di partner per tandem linguistici o sportivi, ma anche e soprattutto scambi, regali o piccole vendite.
Un po’ come sui gruppi Facebook come “Free Your Stuff Berlin” (altra risorsa utilissima, ma talmente conosciuta da non avere certo bisogno di promozione da parte mia), qui troverai gente che regala qualsiasi cosa o al massimo la vende per pochi Euro. Abbigliamento per adulti e bambini e scarpe sono in cima alla lista, almeno nel mio quartiere, ma si trova un po’ di tutto. Il vantaggio, rispetto ai gruppi Facebook, è che si tratterà sempre di persone che abitano nel tuo stesso quartiere e che, di solito, puoi raggiungere a piedi. Perché diciamolo, neanche una morta di fame come me ha voglia di farsi 15 chilometri per una maglietta. Nebenan ti conviene scaricarla subito, perché ti servirà per tutto. (e anche loro non mi pagano per dirlo… capito perché sono povera, sì?)
Sull’app si parla quasi solo tedesco, ma se abiti in un quartiere relativamente “multiculti” te la puoi cavare anche con l’inglese. Oppure cogliere l’occasione e fare un po’ di pratica, che fa sempre bene!
5. Acquistare abbigliamento a poco prezzo e in modo etico, dal vivo e online
Due nomi: Humana e Vinted. Humana è per i poveri veri (ma dipende dal quartiere), Vinted è per quelli che, tutto sommato, vogliono risparmiare ma hanno un minimo di senso dello stile, cioè non per me.
Il concetto di “seconda mano” è semplice, non te lo devo spiegare. Su Vinted si trovano capi che variano tantissimo in termini di prezzo e qualità e può essere una buona opzione se cerchi brand o stili particolari. Non spenderai due Euro, ma potresti trovare qualcosa di carino.
Humana non è l’unica opzione, quando si parla di negozi di seconda mano a Berlino: tutt’altro, ce ne sono a bizzeffe. Molto spesso, però, sono negozi “vintage”, il che vuol dire “di seconda mano, però arredati bene e cari”. Lo stesso vale per i mercatini: molto spesso sono “vintage”, quindi cari, o semplicemente fast fashion di massa, in una cornice più carina. Relativamente rare le vere occasioni (ovvero, abbigliamento di seconda mano autenticamente conveniente), ma non impossibili da trovare. Vale comunque sempre la pena di farci un giro, se ne hai uno vicino casa.
Humana è una catena internazionale e tende ad avere prezzi più bassi, ma non uniformi in tutta la città. I negozi del centro, sono spesso più cari, ma basta spostarsi appena fuori da Mitte, per esempio a Friedrichshain, per trovare prezzi più che accessibili. Il grandissimo pregio di questi stabilimenti è che sono molto ben organizzati per categorie. Per meglio dire, è un pregio per me, che non ho senso dello stile e cerco cose come “una felpa col cappuccio qualsiasi” o “una maglietta nera qualsiasi” e non mi interessa vedere un intero outfit berlinese über-cool sul manichino, ché tanto, se mi azzardo a metterlo io, sembro una che si è coperta di vinavil e poi si è tuffata in un armadio al buio. No. Io voglio uno scaffale dove sia facile leggere la taglia e il prezzo, stop. Ci sono anche altre catene di negozi di seconda mano, che applicano criteri diversi.
Pick’n’Weight, per esempio, vende “a peso”, che detto così sembra un’ideona, ma secondo me non lo è. Perché, se a peso ci compri le mutande è un conto, se ci compri un cappotto invernale o un paio di scarpe è un altro. E le categorie di peso, ovviamente, sono gestite in modo da rendere pressoché impossibile fare l’affarone della vita. Il che è giusto, per carità: è un modello di business e deve generare introiti, è solo che a me della moda non importa abbastanza per contribuire a questi introiti.
E poi, diciamolo, c’è pure la questione delle taglie. Io ho un corpo mid-size, ovvero quel tipo di corpo che ha fatto sì che, entrando in passato nei negozi di abbigliamento normali e chiedendo di vedere il tale o il tal altro capo, mi ritrovassi davanti la commessa che chiede “ma è per leeeeei?” con la “e” allungata e lo sguardo di una che si chiede “ma questa a casa c’ha gli specchi di legno?”. Il tutto per essere poi diretta verso il settore caftani, anche detto “per carità, copriti che non ti si può guardare”. E allora, siccome prenderla a sberle a due a due fino a quando non diventano dispari è illegale, preferisco andare nei negozi di seconda mano, dove ci sono capi dismessi dalle persone normali, che spesso hanno corpi come il mio, e nessuno si sogna di fare “il di più” solo perché è nato col metabolismo veloce.
6. Impara a riparare e a riutilizzare
Ultimo, fondamentale consiglio: impara a riparare quello che si rompe. Sempre in base al principio per cui, se sei povero, invece di spendere soldi devi spendere tempo, così come ti tocca imparare a cucinare, ti tocca anche imparare a cucire. Ora, nella scorsa puntata ho fatto la splendida, perché io cucino davvero bene e, quindi, uno che non sa tenere in mano una padella avrebbe potuto tranquillamente dirmi che la facevo facile. Quando si tratta di cucire, invece, sono una schiappa. Un disastro. Una pippa al sugo. Impedita come un T-Rex che fa le flessioni.
Ed è per questo, cari fratelli e sorelle, che il buon dio di internet ha creato I TUTORIAL (inserire musica di campane angeliche). Perché, proprio come per la cucina, non devi saper fare le cose complicate, ti basta imparare ad arrangiarti per l’indispensabile. E l’indispensabile, in questo caso, è non buttare quello che si può riparare. Perfino io, che ho la manualità di un gibbone, sono in grado di riattaccare bottoni caduti e rammendare un buco in un calzino.
Non ho mai investito in una macchina da cucire perché (leggi sopra) SONO POVERA e anche perché sarebbe sprecata per me, ma magari tu hai la mano felice, con ago e filo, e puoi sfogare la tua creatività trasformando gli abiti rovinati in qualcosa di bello. Io, dopo infiniti tutorial, sono in grado di risistemare le cuciture che puntualmente mi si disfano sotto le braccia delle felpe e delle magliette, di mettere una toppa rinforzata nell’interno coscia dei jeans (saluti a tutte le mie sorelle che hanno le cosce troppo potenti per questi smidollati pantaloni moderni, hashtag #powerthighs), di rifare un orlo in maniera quasi decente, di ricucire una tasca del cappotto sfondata e, se mi impegno moltissimo, perfino di cambiare una fodera (mi ci vogliono ore e moltissimi documentari di true-crime su Youtube, ma ce la faccio).
E se qualcosa non può più essere riparato, non lo butto lo stesso, ma lo divido nelle seguenti tre categorie:
- Future toppe rinforzate: se a essere ormai inutilizzabile è un tessuto spesso, tipo jeans o felpa, tengo da parte il capo per ritagliare futuri rinforzi da inserire nell’interno coscia dei jeans o sui gomiti di felpe e maglioni. Il risultato non è proprio immacolato, ma nero su nero si nota poco e funziona.
- Future fodere: tessuti più leggeri, ma ampi, tipo le lenzuola che si sono strappate irrimediabilmente dopo un decennio di lavaggi, sono ottime come future fodere, per esempio, per cappotti da mezza stagione o giacche. Potrebbe essere necessario lavarle una volta con il colorante, ma, se anche voi come me utilizzate lenzuola nere, questo passaggio si può saltare.
- Futuri stracci per la polvere o per hobby “che sporcano”. Sai cosa usavano le nostre trisavole per spolverare (e parlo al femminile perché i nostri trisavoli col piffero che pulivano casa)? Gli stracci. E sai cos’erano, spesso, gli stracci? Vestiti vecchi. Meno efficienti della microfibra? Neanche tanto. Sicuramente meno carichi di microplastiche che si disperdono nell’ambiente. Io spolvero così, come le nostre nonne: utilizzo scampoli di vecchie lenzuola o magliette, sui mobili e, perfino, al posto dei panni per la polvere, legandoli alla scopa di plastica dove andrebbe inserito il panno usa e getta. Funzionano ESATTAMENTE come i panni per la polvere. Dopo di che li prendi, li sbatti fuori dalla finestra sentendoti una massaia degli anni ’50, sfoderi il tuo migliori sorriso da Doris Day alla vicina che ti guarda basita, e li rimetti a posto o in lavatrice, se sono proprio sporchi. Io li tiro fuori anche quando faccio giardinaggio. Amo le piante, nonostante loro non amino me, e, ogni volta che rinvaso, lo faccio su un lenzuolo vecchio, per contenere il dilagare della terra. Oppure puoi usarli per pulire i tuoi attrezzi anche se hai hobby che implicano l’uso di lubrificanti (ma cosa hai capito, intendevo quelli dei motori e delle biciclette!), di vernici, di colla o altri materiali che danneggiano o macchiano irreparabilmente i tessuti.
E anche per oggi, siamo arrivati alla fine! Come al solito, fammi sapere se hai consigli da aggiungere a questa lista. Nella prossima puntata, parleremo di casa. Non come affittarla: qui non facciamo miracoli. Piuttosto, come tenerla pulita, fornita di tutto quello che ti serve e funzionale, anche con un budget inferiore a quello che il tuo vicino Beamter spende ogni settimana per la merenda dei suoi figli.
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