Il fenomeno del negazionismo tra vecchi retaggi e nuove formule

di Maria Mazzocchia

Nei precedenti interventi abbiamo osservato insieme diverse tematiche, tra cui la questione spinosa della violazione dei diritti umani, perpetrata ai giorni nostri e ricordata mediante la celebrazione del giorno della memoria per non dimenticare la Shoah, evento simbolo dei crimini contro l’umanità. In quell’occasione parlammo anche di memoria individuale e storica osservata, quest’ultima, in contrapposizione con la necessità di tenere taciuti alcuni fatti scomodi, definiti da Noam Chomsky come non storia. Ebbene, c’è un fenomeno, niente affatto nuovo ma molto attuale, che a ben osservare accomuna e sintetizza questi argomenti e voglio guardarlo meglio da vicino con voi. Dallo scoppio della pandemia e dalla conseguente formazione e diffusione di capannelli di sedicenti revisionisti/anticonformisti, le cui teorie col tempo si espandono e rafforzano, si parla molto di negazionismo. Intanto bisogna riconoscere che non si tratta di un fenomeno nuovo, bensì di una tendenza radicata nella società e associata a fatti storici tristemente popolari di cui si tenta di negare l’esistenza, nonostante di essa si abbiano prove storiche e scientifiche.


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Come nasce il negazionismo

Tra i negazionisti più “famosi” e determinati ci sono appunto quelli dell’olocausto, del nazifascismo e dei campi di concentramento. Personalmente trovo che indagare su questo parallelismo, partendo dalla definizione generale del fenomeno negazionista, sia sociologicamente interessante e pragmaticamente utile a capire come funziona e perché accade.

Visto che è solo osservandolo scientificamente che possiamo sconfiggere gli effetti negativi che ha sulla società, il primo strumento di cui fornirsi per evitare di diventare negazionisti del negazionismo è sicuramente la conoscenza: vediamola come uno zaino bello pieno di armi di distruzione dell’ignoranza, del pregiudizio, della banalizzazione, nelle quali rischia di cadere non soltanto il negazionista medio osservando un fenomeno X, ma anche e soprattutto noi, osservando il fenomeno negazionista.

La psicologia, offrendone un’osservazione tipica di una scienza umana orientata all’indagine del singolo individuo e della sua sfera psichica, fornisce alcune teorie fondate sul concetto di “diniego psicologico”, cioè una sorta di meccanismo di difesa legato alla paura o alla vergogna, alla inaccettabilità di un fatto, dal quale si fugge negandone l’esistenza.
Una tesi leggermente più orientata a una visione d’insieme, ma comunque di natura psicoanalitica è quella del rifiuto del cambiamento, secondo cui la negazione si fonderebbe sull’incapacità di concepire dei mutamenti troppo repentini e/o dalle conseguenze troppo invasive sulla vita del singolo e della comunità (negazionisti del Covid e dei cambiamenti climatici, per esempio).


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Venendo a una visione più sociologica, direi di ricorrere all’analisi del noto filosofo polacco Zygmunt Bauman, che definisce l’auto-assoluzione della memoria storica tentata dai negazionisti della Shoah un segno di cecità pericolosa, che si sviluppa attraverso il processo di sterilizzazione dell’immagine dell’Olocausto sedimentata nella coscienza popolare, secondo cui la commemorazione, pur essendo di estrema importanza per mantenere l’attenzione e sensibilizzare sull’argomento, da sola non offre alcuna analisi scientifica dell’evento, a cui si aggiunge il processo di ramificazione: “mentre la quantità, lo spessore e la qualità scientifica dei lavori specialistici sulla storia dell’Olocausto crescono a un livello impressionante, lo spazio e l’attenzione a essa dedicati nelle opere di storia generale non fanno altrettanto” (Z. Bauman. Modernità e Olocausto).

Negazionisti e fake news

Tutte considerazioni sicuramente interessanti per tentare di comprendere il fenomeno contemporaneo che nega l’esistenza della pandemia, a cui possiamo aggiungere delle altre considerazioni. Per esempio, è osservabile come una caratteristica della maggioranza dei negazionisti è la certezza di essere in possesso di verità assolute e inespugnabili che confuterebbero teorie scientificamente provate ma che a loro parere sono solo macchinazioni dei poteri forti. Va detto che un ruolo fondamentale nella diffusione del negazionismo del Covid-19 viene svolto sicuramente dai social media, che favoriscono una “democratica” diffusione di informazioni colposamente inesatte o dolosamente false (nel famoso calderone delle fake news si ritrovano teorie complottistiche palesemente improbabili e volutamente inventate, ma anche una valanga di “secondo me” ben più pericolosi di quanto non fossero un tempo i loro lontani cugini pronunciati fra conoscenti al bar).

Ma non si può ignorare che, social dilemma a parte, a foraggiare teorie negazioniste della pandemia sono state in moltissimi casi la disperazione, la crisi economica, la sensazione di abbandono e conseguente totale sfiducia nelle istituzioni, la carenza, insomma, di strumenti conoscitivi per formare una propria visione oggettiva della situazione e fronteggiarla. Questi dati non giustificano i comportamenti pericolosi e spesso aggressivi di una parte della compagine negazionista – io stessa sono stata verbalmente e gratuitamente aggredita in chat da un conoscente che strenuamente cercava di convincermi dell’inesistenza del Covid e di sordide macchinazioni dietro alle restrizioni della libertà di movimento – ma allo stesso tempo non possono essere ignorati se del fenomeno si vuole avere una visione oggettiva, proprio quella visione della realtà sociale e della pandemia che il negazionista medio non trova o non vuole vedere.

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