Tutti hanno diritto alla verità. Intervista a Serena Tinari di Re-Check

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Serena Tinari - Foto di Karin Scheidegger

Serena Tinari è una giornalista investigativa, nonché una delle due fondatrici di Re-Check, un’organizzazione no-profit specializzata nell’approfondire i temi legati alla salute e alla medicina. Nei prossimi giorni parteciperà a uno dei panel in programma e terrà un workshop nel corso dell’evento online “Behind the Mask – Whistleblowing during the pandemic“, organizzato da Disruption Network Lab. Il panel, che si terrà il 19 marzo dalle 15:00 alle 16:30, si intitola “DIGGING DEEPER INTO HEALTHCARE: The Vaccine Rollout, Pandemic Journalism & Corruption“. Il workshop, invece, è previsto per il 20 marzo, dalle 15:00 alle 17:00 e si intitola “Get Your Numbers Straight: Making Sense of Health Data” ed è pensato per offrire strumenti pratici ai giornalisti che vogliano confrontarsi con questi temi. Abbiamo intervistato Serena Tinari, per parlare di giornalismo investigativo, delle luci e ombre dei sistemi sanitari dai quali dipende la nostra salute e, naturalmente, del lavoro di Re-Check.


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Come sei approdata al giornalismo investigativo di ambito medico e scientifico?

Come spesso succede nella vita e in particolare nel mondo del giornalismo di inchiesta, è avvenuto un po’ per caso. Quasi vent’anni fa, quando lavoravo per un programma di inchieste e documentari della tv pubblica Svizzera, mi è stato chiesto di fare un’intervista per conto di un altro collega, che si stava occupando del caso Vioxx. Il Vioxx è un farmaco che è stato ritirato dal mercato perché collegato a circa 140.000 infarti. Io mi sono sempre occupata di diritti umani e temi controversi, ma non avevo un focus specifico su questi argomenti né ho una preparazione scientifica, quindi dovetti prepararmi e studiare. L’intervista era con Swissmedic, l’autorità di regolamentazione dei farmaci svizzera. In quell’occasione il sesto senso che ogni giornalista investigativo ha mi fece notare che c’era qualcosa che non andava: c’era grande tensione ed erano presenti numerosi addetti stampa. Nel corso dell’intervista emersero molti fatti che mi incuriosirono e, tornata in redazione, dissi al caporedattore che avremmo dovuto occuparci di più di quel tipo di temi. Lui fu molto generoso e mi disse di prendermi del tempo durante il quale sarei stata pagata ma non avrei dovuto registrare interviste, ma solo studiare e prepararmi. Io parlai molto con la famiglia di mio marito qui in Svizzera: si chiamano Baumgartner e mia suocera, suo padre, nonno e nonna sono stati medici di famiglia. Una tradizione medica che si fonda sulle prove e sull’evidenza, ma anche sul non intervenire in modo esagerato. Mi hanno aperto gli occhi su molte cose.

Per esempio?

Il fatto che nella nostra società c’è stata negli ultimi cinquant’anni un’evoluzione verso l’eccesso di medicalizzazione, quando a volte anche non intervenire affatto dovrebbe essere un’opzione. Non è un discorso antiscientifico, anzi: è abbondantemente provato che esista una tendenza a eccedere con esami e farmaci.

Da cosa dipende secondo te questa tendenza alla ipermedicalizzazione?

Da un lato la medicina ha effettivamente fatto passi da gigante, ci sono state vere e proprie rivoluzioni, basti pensare ai progressi della chirurgia, agli antidolorifici, agli antibiotici. Dall’altro però c’è anche molta “hype”. Dobbiamo ricordarci che le case farmaceutiche fanno il loro lavoro, che è quello di fare profitto. In questo senso sono come i produttori di automobili. Da chi produce auto non ci si aspetta che lo faccia gratis, ma si esige che rispetti delle regole per garantire la sicurezza. La narrativa intorno alle case farmaceutiche però è diversa: si tende a presentare questi colossi come benefattori, ma non è così, è più complicato. Loro sono responsabili di fronte agli azionisti e questo crea una linea sottile fra l’interesse pubblico e quello privato, che spesso sono in conflitto. A questo servono le autorità di regolazione e per questo è importante che siano indipendenti e che abbiano sufficienti risorse per fare il proprio lavoro. L’ipermedicalizzazione è uno degli effetti di questa evoluzione. Ci viene raccontato che ogni anno ci sono scoperte sensazionali e rivoluzionarie, ma non è così. La maggior parte dei farmaci nuovi messi in commercio ogni anno sono prodotti che replicano le funzioni di altri già esistenti e non è detto che i nuovi siano migliori dei vecchi. Per contro, ci sono paesi del mondo in cui ancora non arriva neppure l’indispensabile, come gli antibiotici o i vaccini per malattie che noi abbiamo debellato da decenni.

Come è nato e come funziona Re-Check?

Quando ho iniziato a interessarmi di questi temi sono finita in un vero e proprio tunnel, in cui una storia mi portava alla successiva. Ho anche avuto la grande fortuna di incontrare medici, accademici e scienziati che mi hanno generosamente insegnato moltissimo e consigliato letture. Ho studiato moltissimo per vent’anni. Poi, dieci anni fa, ho incontrato Catherine Riva e abbiamo scoperto di avere la stessa visione e un percorso simile alle spalle. Nel 2015 ho lasciato il mio lavoro alla tv Svizzera e da allora lavoriamo insieme con Re-Check, che è un progetto senza scopo di lucro. Non abbiamo fondi strutturali e, ovviamente, non accettiamo finanziamenti dall’industria. Facciamo tutto da sole, le nostre ricerche vanno molto in profondità e ci prendiamo la responsabilità di ciò che ne emerge. Negli anni abbiamo sviluppato una rete di contatti, quindi lavoriamo con molti scienziati e accademici, prendendo parte a grandi progetti internazionali di giornalismo investigativo in ambito medico. Abbiamo anche iniziato a tenere corsi e workshop per condividere i nostri metodi.


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Come fa un giornalista a indagare sulle irregolarità che riguardano colossi e istituzioni della medicina, esponendo le pratiche pericolose per la salute pubblica, senza porgere il fianco al complottismo e senza farsi strumentalizzare dai movimenti antiscientifici che non aspettano altro che di poter utilizzare una fonte autorevole contro “Big Pharma”?

Il nostro giornalismo di inchiesta è portato avanti nell’interesse pubblico. Io credo che l’informazione sia potere e che tutti abbiano il diritto di sapere la verità, anche quando è scomoda. Credo anche che, se si fa questo lavoro con metodologie solide, in modo rigoroso, senza conflitti di interessi ed evitando le trappole dei propri stessi convincimenti, insomma, se si fa un lavoro solido, le strumentalizzazioni non attecchiscono. Certo, ci contattano persone con teorie strampalate che non condividiamo: in quel caso noi rispondiamo gentilmente senza lasciarci coinvolgere. Credo anche che certe manifestazioni siano colpa di un fenomeno che esisteva già prima, ma che in quest’ultimo anno è cresciuto, perché il giornalismo pandemico ha dato il suo peggio.

Foto: National Cancer Institute

In che senso?

Spesso non si danno alle persone informazioni comprovate e le si tratta come se fossero stupide. Inoltre adesso va molto di moda etichettare immediatamente come “antiscientifico”, “negazionista” o “antivaccinista” chiunque esprima dubbi o domande e questo è pericoloso. Per capirci: nessuno direbbe mai di essere contro gli antibiotici, ma chi conosce questo ambito converrà che ci sono antibiotici con profili di efficacia e di costi-benefici migliori di altri, per questo ogni singolo prodotto che arriva sul mercato deve superare un processo di approvazione e omologazione. Lo stesso succede coi vaccini. Per esempio, per i vaccini contro il Covid esistono cinque diverse tecnologie che sono alla base dei prodotti sviluppati. Alcune le conosciamo e le usiamo da decenni, mentre altre sono meno sperimentate. Sui vaccini mRNA ci sono trent’anni di ricerca molto promettente, ma finora non si era riusciti a portare nessun farmaco o vaccino sul mercato, che è poi il motivo per cui questi prodotti adesso hanno ricevuto solo la cosiddetta autorizzazione di emergenza, che non è un’omologazione. Le autorità di regolazione ora continuano a raccogliere dati e tutti speriamo che ne emergerà un rapporto costi-benefici favorevole, ma non è sbagliato dire che di questi prodotti non sappiamo moltissimo. La gente ha diritto di avere informazioni e prendere decisioni sulla propria salute ed è normale che sia spaventata. Dare dell’antivax a chiunque esprima un’incertezza non aiuta e anzi, spinge sempre più persone a rifiutare questi vaccini. Inoltre è anche sbagliato tecnicamente. È come negare il motivo per cui esistono le autorità di regolazione e il processo scientifico che seguono.

Ti riferisci ad AstraZeneca?

Mi riferisco a tutti, ma è vero che gli studi di AstraZeneca non hanno incluso certi gruppi demografici, come gli anziani. Sarebbe scorretto negarlo. Del resto anche negli studi di BioNTech-Pfizer non ci sono persone malate, anziani, bambini, donne incinte: queste per noi sono tutte “red flags”. Perché c’è differenza fra un bambino e un novantenne o fra una donna incinta e una che non lo è. E millantare certezze che non si hanno è sbagliato. Ognuno deve fare il suo lavoro, ma bisogna ricordarsi che il lavoro delle autorità sanitarie e quello di comunicazione dei rischi sono compiti molto delicati.

Foto: National Cancer Institute

Come fa un cittadino normale, non cospirazionista ma neppure provvisto di un background scientifico, a capire a chi credere?

Questo è esattamente il contenuto del workshop che terrò a Behind the Mask: cercherò di passare informazioni e strumenti alla portata di tutti per orientarsi e smettere di avere paura, perché la paura fa perdere lucidità. Una cosa importante è sapere quali esperti siano davvero competenti in un certo settore. In questo momento, per esempio, vanno di moda i “virologi star”, mentre le figure di riferimento in questo caso dovrebbero essere gli epidemiologi delle malattie infettive. Certo, c’è una base comune, ma davanti a un problema così complesso la specializzazione fa la differenza. Inoltre c’è bisogno di capire il contesto di qualsiasi fatto in ambito medico. Per esempio, come faccio a sapere che le terapie intensive sono occupate in modo “anormale” se non so quale sia il livello “normale” di impegno di questi reparti? Di questo si parla poco. Le terapie intensive sono costose e sono progettate per essere quasi sempre piene, al punto che in molti ospedali basta un grosso incendio o una brutta stagione di influenza per mandarle in crisi. Un cittadino informato di questi fatti, per esempio, potrebbe richiedere ai propri politici più risorse per le terapie intensive e la garanzia che ve ne sia sempre un 30% libero, mentre al momento non è così.

Re-Check ha scritto la Guida GIJN “Fare inchiesta su salute e medicina”. Di cosa si tratta?

È un manuale per il giornalismo investigativo che abbiamo scritto su incarico di GIJN, il network mondiale del giornalismo investigativo. Tra poco uscirà la versione italiana, tradotta da Il Pensiero Scientifico Editore – una eccellente casa editrice che pubblica molti titoli divulgativi. La guida è pensata prima di tutto per i giornalisti di inchiesta, ma ci siamo sforzate di scriverla in un linguaggio comprensibile a tutti. La si può leggere di seguito o approfondire i singoli temi in ogni capitolo. Sarà pubblicata in italiano, francese, spagnolo e tedesco, gratuitamente e con licenza Creative Commons, il che vuol dire che può essere ricondivisa liberamente: ci interessa che abbia la massima visibilità possibile.

Parliamo di conflitti di interesse fra case farmaceutiche e salute pubblica: secondo te in quali forme lo Stato può tutelare la salute dei cittadini rispetto agli interessi privati?

La questione dei conflitti di interesse è fondamentale. Una figura chiave da conoscere è quella del KOL (Key Opinion Leader). I KOL sono scienziati e medici di altissimo profilo e grande fama, che tipicamente lavorano sia per le istituzioni pubbliche, per esempio nei comitati consultivi, che per le istituzioni accademiche, poi hanno la loro pratica privata e infine lavorano per l’industria farmaceutica. Questo è uno dei problemi chiave di questo settore. Inoltre c’è una enorme disparità di risorse fra pubblico e privato. Le autorità di regolamentazione come la FDA negli USA, l’EMA in Europa e Swissmedic in Svizzera hanno molte meno risorse delle case farmaceutiche. Ospedali, cliniche e università dipendono dai fondi dei privati, i ricercatori devono trovare sponsor, quindi finanziatori privati, per fare il loro lavoro. Chi pubblica uno studio non viene pagato, ma le riviste mediche lucrano sul suo lavoro vendendo alle aziende farmaceutiche stampate che saranno distribuite ai congressi e inviate ai medici. Si tratta di un modello di business che ha molte zone d’ombra e in cui lo Stato non riesce a competere.

Foto: National Cancer Institute

Lo stesso avviene anche per l’erogazione dei servizi…

Assolutamente. La crisi attuale ha fatto emergere molti problemi già esistenti: ospedali che cadono a pezzi, poco personale e anche mal pagato, tagli permanenti al budget per la salute pubblica. Il cittadino che paga le tasse o l’assicurazione si aspetterebbe di ricevere in cambio un servizio che invece non riceve, mentre chi può permettersi servizi privati non ha problemi. C’è poi il problema della politica: i politici di professione non sono competenti in queste materie, non capiscono l’ambito della medicina né i conflitti di interesse che lo pervadono. E poi c’è il ruolo dei media, che è importantissimo e mal gestito. Si tende al clickbaiting, a dare dati sensazionalistici senza alcun contesto, il che è profondamente antietico. Per esempio si terrorizza la gente parlando dei lunghi strascichi del Covid come se fossero una novità e non si spiega che tutte le malattie di origine virale possono avere conseguenze di lungo periodo. Anche la spettacolarizzazione che è stata fatta della morte e della sofferenza, le foto delle terapie intensive diffuse senza pudore. Le terapie intensive ci sono sempre state, ma tre anni fa il giornalismo non le spettacolarizzava. Inoltre non si dice che un sistema sanitario dovrebbe funzionare a livello nazionale, anche se, come in Italia, la sanità è gestita dalle regioni. Se nella mia regione le terapie intensive sono piene, dovrei sapere che ci sono spazi in quella vicina, il che permette di gestire le emergenze. L’informazione del paziente e del cittadino in questo senso è fondamentale. Perché il paziente non informato sarà sempre in balia della qualità etica e professionale del medico che ha di fronte. Per questo lavoriamo per l’alfabetizzazione medica e scientifica.

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