Passaporti vaccinali: colpo di genio o utopia?

Passaporti vaccinali
Photo by Hakan Nural

Passaporti vaccinali, un contributo della giovanissima Francesca Zaglia, studentessa del 5° anno del liceo Antonio Rosmini, di Rovereto.

Sembra ormai di vedere l’epilogo di questa tragica odissea che ha fermato le vite di tutti per quasi un anno e, giustamente, si sta diffondendo il desiderio di riprendere con la propria vita, di viaggiare, conoscere, incontrare. Ma tutto ciò è davvero realizzabile nel clima di incertezza in cui ci troviamo?

La soluzione più logica per far riprendere gli spostamenti e i traffici sarebbe assicurarsi che i viaggiatori non siano veicoli del virus, quindi si potrebbe (e perché no?) introdurre un sistema di passaporti sanitari che dichiarino lo stato di immunità del possessore, o per avvenuta infezione, o per ottenimento del vaccino. Si tratta di una soluzione messa sul tavolo dei governi già agli albori della pandemia, quando in primavera Cile, Germania, Italia, USA e Regno Unito ne hanno avanzato l’ipotesi, che però è finita nel dimenticatoio. Fino ad adesso.


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Si tratterebbe di riprendere un provvedimento dalla natura eccezionale sì, ma pienamente legittimato dal Regolamento Sanitario internazionale (IHR) del 2005, per cui gli Stati hanno il diritto di chiedere ai viaggiatori di fornire certificati di vaccinazione, benché adesso la lista sia limitata solamente alla febbre gialla con la cosiddetta Carte Jaune.

Tutto questo in un disegno di misure sanitarie che “ottengono un livello di protezione della salute uguale o superiore a quanto raccomandato dall’OMS”. È implicito tuttavia che tali misure non debbano configurarsi come discriminatorie e che rispettino i diritti di base dei viaggiatori.

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Ed è proprio su questo nodo cruciale di efficacia pratica che si è sviluppata la polemica intorno a questo provvedimento, pur essendo in sé e per sé perfettamente logico.
Prima di ogni altra cosa è necessario stabilire se l’ipotetico passaporto certificherebbe l’immunità o la vaccinazione: se il secondo si propone come opportunità per aumentare la base di vaccinati e avvicinarsi l’immunità di gregge, riguardo al primo ci sono serie preoccupazioni che incentiverebbe i contagi.

Stabilita questa distinzione, il primo punto da considerare è che non esistono ancora certezze in merito alla durata dell’immunità, ma si può solo presumere guardando alle trascorse esperienze con i Coronavirus: SARS-CoV-1 (Sindrome respiratoria acuta grave, 2003) e MERS-CoV (Sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus, 2012), offrono un confronto con SARS-CoV-2 e si è dimostrata la presenza di anticorpi rispettivamente fino a due anni e 34 mesi.


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Detto questo, la maggior parte dei test sierologici (essenziali per il rilevamento degli anticorpi) viene gestita soprattutto in strutture private, aumentando quindi il rischio di ingerenze esterne e in generale di discriminazione nelle liste d’attesa per il test, peraltro soggetto ad un margine di errore. La situazione verrebbe a peggiorare a partire dal fatto che una discriminazione di questo tipo è difficilmente impugnabile su un piano legale, essendo il rapporto immunità-libertà un concetto relativamente nuovo in ambito giuridico.

Benché il desiderio di ripartire in sicurezza sia grande, i governi non hanno ancora dato nuove direttive in merito alle modalità di ingresso negli Stati. Per adesso è obbligatorio sottoporsi a test prima della partenza e stare in quarantena fino al ricevimento di un risultato negativo per entrare in Germania, Italia e la maggior parte delle nazioni europee. Ma qualora queste precauzioni non dovessero rivelarsi sufficienti quando i confini riapriranno totalmente?


Mufid Majnun
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È necessario ideare nuove soluzioni per far fronte al flusso di persone che comincerà a circolare di qui a pochi mesi. Alcuni governi però, come quello francese, considerano il dibattito ancora prematuro, in ragione dell’esiguo tasso di vaccinazioni somministrate. Il Segretario di Stato francese ha dichiarato: “Si tratta di un dibattito molto prematuro. Avere oggi un passaporto che garantisca più diritti ad alcuni che ad altri, sarebbe scioccante, non è il nostro concetto di protezione e di accesso al vaccino.”

Si tratterebbe infatti di discriminare automaticamente tutta quella fascia della popolazione esclusa dalla vaccinazione per altre patologie o per scelta, e che uno Stato ovviamente non può ignorare. L’obiettivo che dovrebbero quindi porsi i diversi governi in vista delle riaperture è di “evitare un mondo a due corsie, in cui i ricchi vaccinati (ma non solo) possono viaggiare a piacimento, mentre gli altri restano esclusi” per riprendere un’immagine del Financial Times.

In ogni caso, finché non arriveranno certezze dal mondo scientifico in merito all’effettiva durata dell’immunità, da cui dipendono le decisioni dei singoli governi sull’introduzione dei passaporti, proseguire con le attuali direttive (tampone e quarantena) è l’unico modo per prepararsi alla ripresa. In una seconda fase poi, l’insorgenza di nuove varianti o la cessazione dell’immunità ci costringerà a rivedere tutto, e in quel momento forse un sistema di certificazioni sarà veramente un’opzione praticabile.

Fonti

  1. Journal of Travel Medicine, 2020, vol. 27,5 “COVID-19 Immunity Passport to Ease Travel
    Restrictions?” di Lin H. Chen, MD, David O. Freedman, MD, e Leo G. Visser, MD, PhD, 28/05/2020
  2. The Lancet, vol. 395, pag. 1595-1598, “COVID-19 immunity passports and vaccination certificates: scientific, equitable, and legal challenges” di Alexandra L. Phelan, 23/05/2020