Kamala Harris non è mulatta. E dovremmo smettere di usare questo termine

Photo by Gage Skidmore

Kamala Harris non è mulatta. E dovremmo smettere di usare quel termine

di Miriam Franchina

Kamala Harris non è mulatta. E non mi interessa arrampicarmi sul suo albero genealogico. Preferisco soffermarmi sulle arrampicate di specchi patetiche di chi, imperterrito, fa spallucce perché i “veri problemi sono altri”, perché non si può certo star qui a dibattere su infelici scelte di parole quando l’intero Paese abbassa le serrande e intasa gli ospedali.
Forse.

Ma mi permetto di dissentire. Tocca subito metter le mani avanti e giustificare no, non sono fra coloro cui il Covid-19 sta togliendo il sonno di notte. Ho anche lasciato il Belpaese da ormai quasi una decade, per cui sicuramente mi perdo i pezzi di quel che succede Oltralpe, oltre alle parole che spesso scivolano via dalla memoria.

Eppure, pensa te, ho ancora il diritto di voto nel Paese dove sono nata, al pari di argentini e venezuelani il cui trisavolo mangiava polenta ogni domenica. E a differenza di ex compagni di scuola “di seconda generazione”, che apprezzano pizza, pasta e scudetto ma per molti dovrebbero tornarsene “a casa loro”. Eppure mi permetto il lusso e, direi, anche un po’ il dovere di indignarmi. Ad altri indignarsi per altre cause, lungi da me stilare una classifica.

Questo il corpo del reato:

Non ho fatto in tempo a leggere l’articolo, rimosso in fretta dalla rete. Ma Facebook, Twitter e contatti vari mi han prontamente girato lo screenshot, perché si sa che chi di clikbait ferisce…

“Mulatta”, no. No.

Soprattutto su un organo che si presume di informazione, al netto del brivido da dodicenne (chiedo venia ai dodicenni) ogni volta che uno della redazione usa una parolaccia, per cui magari ci sarà un individuo offeso o, colpo ghiotto, una intera categoria cui si potrà dare dei buonisti, membri della casta, gretini, fautori del politically correct.

In italiano ancora non abbiamo riflettuto (mi pare) e chiesto ai diretti interessati se preferiscano chiamarsi black, neri, afroitaliani, o magari non essere descritti in blocco come se l’Africa non fosse un continente enorme, con Paesi profondamente diversi tra loro.

La N-word degli americani ce l’abbiamo anche noi. “Eh, ma è il colore nero in spagnolo”. Per essere precisi, era una delle denominazioni della scala delle razze nell’impero spagnolo di età moderna, dove ad ogni incrocio corrispondeva un grado di melanina e relativo degrado psico-fisico.

Dovremmo sapere tutti che nero e bianco sono colori neutri solo quando si tratta di pantaloni. Affibbiati agli esseri umani, sono giudizi di valore sulla mappa della presunta civilizzazione. E noi Italiani un secolo fa o giù di lì, attraversando l’Atlantico ci riscoprivamo qualche sfumatura più scuri. Ma anche nel secolo precedente, bastava che un britannico o un tedesco passeggiassero sotto al Vesuvio per farci dubitare della nostra “bianchitudine”.

Un esempio di “pintura de casta”, XVIII secolo (Islas, De Español y Negra; nace Mulata”)

Mulatto viene da mulo, l’animale ibrido nato da un asino e una giumenta.
A chi sbandiera l’ignoranza come indizio di innocenza del Liberista di turno, rimando agli eruditi tomi di Wikipedia. La mulatta era pure peggio, perché da adulta, agghindata in abiti provocanti e consapevole del suo irresistibile fascino così esotico, ammaliava probi e cristianissimi coloni dalla Virginia al Brasile, dai Caraibi alla Colombia (1, 2,3, 4).

Quelle più scaltre si facevano passare per bianche, tanto da doverne alle volte regolamentare il vestiario per legge per esser sicuri di riconoscerle a primo colpo. E quando ci scappava il figlio (e ci scappava spesso, con le francesi, inglesi, olandesi, spagnole, portoghesi rimaste in patria), toccava magari pure riconoscerlo, alle volte (poche) persino sposare con tutti i crismi l’ammaliatrice di turno.

Era meno complicato con le donne nere, quelle per capirci che si chiamavano “negre”. Solitamente erano schiave di piantagione (caffè, te, cotone, zucchero, indaco), alcune impiegate in ambito domestico (ma qui si preferivano le più “presentabili” mulatte).
Il piantatore Thistlewood, in Giamaica, teneva assiduamente il conto di quante ne stuprava, ma il verbo ancora non era in auge, e del resto le schiave, come gli schiavi, erano beni mobili elencati giusto prima di cavalli e buoi.

Insomma, la madre della mulatta, la schiava nera, girava nuda, altro che gonna troppo corta. Sua figlia, invece, usava ad arte abiti e belletto per sedurre, e ai suoi figli si sarebbe riconosciuta una percentuale maggiore di sangue bianco (“morisco”, in spagnolo, “pardo”, in portoghese, “quadroon” e relative traduzioni in inglese, francese e olandese).

Inventario dei beni del curato di Port-Margot, colonia di Saint-Domingue, 1773 (Archives Nationales d’Outremer, F5 A 23). Dopo gli utensili della cucina e prima dei cavalli, il suo “negro” domestico.

Per carità, gli italiani non furono mai schiavisti, salvo tornarsene indietro a tempi molto antichi, quelli dei romani. Facile puntare il dito contro i vicini di casa con la coscienza sporca e ricordar loro che noi eravamo un coacervo di stati e staterelli dove si facevan guerre per procura.

Fra storici si vocifera, tuttavia, di intraprendenti armatori livornesi nelle acque dell’Atlantico, di compagnie di credito e mercanti veneti e lombardi con le mani in pasta a Nantes e Amsterdam. Pare anche che un genovese col pallino della scoperta abbia imbarcato qualche centinaio di Taíno dalle “Indie Occidentali”. Da sempre, invece, si sa della schiavitù cosiddetta mediterranea, frutto della guerra di corsa che produceva schiavi (non per piantagioni) su entrambe le rive del relativo mare.

Per dover di cronaca, neanche la Germania, che come noi non era ancora “Germania”, riesce ad uscirne assolta. Gli storici tedeschi stan rivedendo la schiavitù di africani in patria, ricostruendo il ruolo di Amburgo nella tratta negriera, e provando a studiare il tentativo prussiano (aleatorio ma documentabile) di un porto negriero sulle coste africane e di un piede nei Caraibi.

In epoca contemporanea si arrestano perentorie le mie peregrinazioni accademiche. Non so se sia seguito un dibattito dopo il lancio della vernice rossa sulla statua di Montanelli, intronato gran giornalista ma, che vuoi farci, pur sempre baldo giovine dagli appetiti “etnici”, si è detto. Considerazione a latere: non ho mai ben digerito l’uso dell’aggettivo “etnico” e il modo in cui è usato. Per esempio, perché il curry è etnico ma crauti e salsiccia no?

Monumento “Porta del non ritorno” nel porto negriero di  Ouidah, Benin. La porta è stata eretta in memoria delle migliaia di schiavi che proprio in quel punto vennero imbarcati per essere condotti nelle piantagioni brasiliane, in cui sarebbero stati costretti a lavorare senza sosta. Il sito è stato riconosciuto patrimonio dell’UNESCO.

E qui già sento il coro antoniano dell'”Ecco, siamo sempre noi i cattivi”, dove “noi” è intercambiabile con “occidentali, bianchi, italiani, europei”. No, chiaro. I cattivi come i buoni stanno in qualunque squadra, e le squadre sono abbastanza fluide. I mercanti di schiavi erano anche africani, e il colorismo è una piaga ad ogni latitudine.

Però, tronfi delle nostre democrazie e della libertà di parola, quelle che “gli altri” calpestano e bistrattano, forse un pochino di analisi lessicale possiamo imporcela, no?

“Mulatta” non descrive il colore della pelle di una persona. Al confronto, il “presidente abbronzato” di berlusconiana memoria quasi sbianca (ahem).
Mulatto è un termine profondamente discriminatorio, coniato in ambito coloniale e usato in manuali che istruivano su come non cadere nelle trappole di queste donne svergognate, inclini alla lussuria (alcuni link: 1, 2, 3). Ritroviamo “mulatto” e termini analoghi anche in trattati sulle origini delle “razze”, che talvolta si rifacevano ai pionieristici studi di Malpighi che, lui quasi per caso, azzardò un’ipotesi sulla fantomatica causa della “negrititudine”.

Alcune delle 128 possibili combinazioni razziali secondo Médéric Louis Élie Moreau de Saint-Méry, XVIII secolo.

Alle mulatte non bastava il battesimo e che masticassero francese o portoghese. La loro pelle tradiva un’ascendenza inequivocabile: un tempo erano state schiave. La loro mera esistenza era la prova tangibile che il sistema di piantagione aveva falle, e che la mercanzia umana importata dal continente africano lottava con ogni mezzo per combattere una situazione che di umano aveva davvero poco.

Un mulatto o una mulatta venivano al mondo o per stupro, o per una unione più o meno consensuale. Nel secondo caso, lei poteva anche essere innamorata della sua dolce metà europea, ma era pur sempre una donna, e una schiava o discendente di schiavi. Mica come la ragazzina di Montanelli, forte della “sua cultura” e assolutamente libera di rifiutare le focose ma pur sempre cavalleresche avances di un militare che veniva a portar la civiltà a casa sua.

Ad una qualunque persona “abbronzata” sul continente americano toccava prima o poi contare le generazioni che la speravano dalla nave negriera e darne conto alle autorità, ovviamente con tanto di scartoffie. Se li si beccava in giro a piede libero, scattava in automatico il sospetto che fossero fuggiti dalle piantagioni ed era diritto ed anzi dovere di ogni probo cittadino ricatturarli. Ogni analogia con la situazione odierna negli USA è puramente casuale. Le unioni con uomini europei erano uno dei modi che avevano le donne nelle Americhe per resistere alla schiavitù, come ci ricorda la storia di Solitude.

Donna mulatta in gabbia, scultura in basalto di Marco AH-KIEM. © Grégory AH-KIEM.

Probabilmente dovrei sapere che “allora erano altri tempi“, tanto è vero che ogni giorno ci crollano miti di grandi (maschi, europei, studiati nel curriculum universitario di ognuno di noi) perché si scopre che con una mano reggevano la fiaccola della Ragione illuministica, e con l’altra sottoscrivevano (chi pilatescamente, chi proprio con vigore) le colonie e il traffico di schiavi (1, 2). Ma dopo secoli di plauso e incenso, immagino sappiano cavarsela anche se rivolgiamo la fiaccola di cui sopra per far luce sulle loro zone d’ombra. Erano altri tempi anche quelli di Montanelli, del resto.

Ma oggi i tempi son altri, no? Magari sarebbe ora di lasciar far la polvere al mito degli “italiani brava gente” e provare a far un po’ di ordine mentale.

Fra storici, il dibattito “venne prima il razzismo o venne prima la schiavitù?” è un po’ come quello fra l’uovo e la gallina. Quello che invece è fuori di dubbio, è che “mulatto” non si deve usare.

mulatto photo
La dicitura che accompagna la foto è “Ex schiava mulatta nella sua casa vicino Greensboro, Alabama, Maggio 1941. Foto di Jack Delano. Photo by New York Public Library

Censura della libertà di parola! Dittatura del politicamente corretto! Ma dire “mulatta” non è come dire “vicepresidente con gli occhi neri”. Perché di quello, giustamente, poco ci importa. Non ha alcun impatto sulla capacità della persona in questione (anche se non dovremmo dirlo troppo forte…).  Siamo ahimè ben lontani dal poter affermare che “non vediamo i colori”. Li vediamo, eccome, anche quelli come me, che si arrampicano su altri specchi rispetto a quelli di Libero, cercando altri modi per esprimere questi colori e per imporsi il daltonismo.

Ma le parole, diamine. Io che mi impappino con l’italiano a furia di usarlo solo al telefono con amici e parenti, non sono sicura di come si dovrebbe definire Kamala Harris. Glielo chiederei, potendo. Non sarebbe per nulla inedito se un termine discriminatorio venisse preso per i capelli, rigirato e appropriato da chi ne ha subito gli effetti discriminatori. Per esempio, in Kreyòl, “nèg” (derivato dal francese “nègre”) significa semplicemente “persona”. Kamala, se ci sei batti un colpo, noi intanto promettiamo di non chiamarti più “mulatta”.

Photo by Johnny Silvercloud

Negli USA mi suggerivano di sostituire a “black politician” un “politician who is black”, dove il colore diventava un attributo meno essenziale della persona in oggetto. È lo stesso meccanismo sotteso alla preferenza tedesca per “Geflüchteter” (anziché “Flüchtling”) e  “versklavte” o “unfreie” anziché “Sklaven“. Facile per una tigre da tastiera della mutua quale sono io oggi, meno per chi deve buttar fuori prime pagine e titoli concisi e informativi. Su “Verklavte” o “Unfreie”, per esempio, nutro seri dubbi. Bisogna, tuttavia, dar atto a Libero di ricchezza di linguaggio, perché dallo screenshot si evince che l’articolo apre con “donna di colore”. Meglio?

Per quel che ne so, il termine è un calco di “colored“, usato ai tempi della segregazione negli USA e sostituito ora da “of color“, e non solo in abito accademico (dove i “mulatti” sono “free people of color” o “of mixed Afroeuropean descent”). Forse va bene? Anche in Germania si usano “people of color” o PoC o BiPoC per chiunque non sia del tutto bianco, e non so se sono d’accordo.

Ma se lo usano i diretti interessati, già la parola ha un punto a suo favore, dal mio punto di vista. Nel caso specifico del titolo di Libero, non si capisce bene che funzione abbiano “mulatta” e “di colore”, ma chissà, forse una lettura di tutto il testo potrebbe rivelarmelo.

La sostituzione del cartello della vecchia Mohrenstraße, oggi Anton-W-Amo-Straße © Saliva Glance 

In Germania, i dolcetti che un tempo erano “teste di moro” ora sono “baci di cioccolato”, la fermata della metropolitana di Berlino “Mohrenstraße” è stata da poco rinominata in onore del primo studente e professore universitario di origine africana in Europa (dai tempi dei romani), Anton Wilhelm Amo. Non c’era venuto in Erasmus, era stato catturato in Ghana e poi donato ad un nobile da bambino.
Amo
, che studiò nella Wittenberg di luterana memoria, è ricordato con una statua molto realistica posta davanti all’università di Halle, dove divenne professore. Non esistono ritratti ufficiali, ma probabilmente indossava la solita parrucchina dell’epoca.

(Qui altre discussioni tedesche che ho trovato interessanti, più o meno pertinenti: 1, 2, 3, 4)

La statua di Anton Wilhelm Amo di fronte all’università di Halle

Ma adesso essere bianco è un crimine?“. Non lo è mai stato. Perfino la prima nazione a sconfiggere in un colpo solo schiavitù e colonialismo (Haiti) non mise fuori legge i bianchi, anche se decise che tutti i suoi cittadini sarebbe stati “neri” per definizione.

Essere “bianchi” oggi, voglio sperare, significa anche esser critici e riflettere sul significato storico di quest’etichetta, senza archiviare un’altra boutade di Libero o altri come una “scivolata” fatta con buone intenzioni ma in modo un po’ grezzo. Quella al massimo posso esser io che, come direbbero in Germania, “inciampo nella ciotola del grasso” (ins Fettnäpfchen treten = far una figura di melma).

Un’ultima chiosa, perché fra amici e parenti c’è sempre qualcuno che mi ricorda che nessuno, qui, crede che ci siano razze inferiori. O razze punto e basta, aggiungerei io.

Ma non misurare crani e narici e archiviare “mulatto” così, come fosse una virgola rimasta nella tastiera, non ci assolve.

Costituzione di Haiti, 1805 (fonte).

“[…]gli haitiani saranno d’ora in Avanti conosciuti solo con la denominazione generica di neri