Ha senso sentirsi fieri oppure vergognarsi di essere italiani?

essere italiani

di Riccardo Coradeschi

C’era una volta il bunga bunga.

Fino a non molti anni fa, da italiano all’estero, era una realtà a cui era impossibile sottrarsi. Le grasse (e meritate) risate riguardo la situazione politica italiana erano spesso un modo di rompere il ghiaccio al primo incontro con persone di nazionalità diversa.

In Germania il termine è entrato nella cultura popolare per quanto riguarda gli stereotipi italiani, scalzando il ben più vetusto “mandolino”. Dopo quasi un decennio dallo scandalo che portò l’espressione “bunga bunga” agli onori della cronaca, l’impressione lasciata sul tedesco medio è ancora profonda. Giusto pochi giorni fa il cassiere del supermercato, vedendomi stanco ed assonnato, disse ridendo: “Wie Berlusconi, zu viel Bunga bunga!”.

Silvio Berlusconi. Niccolò Caranti, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

È un riferimento ormai slegato dalla sua origine contingente e antiquato quanto il “mandolino”. La situazione politica italiana e la sua percezione all’estero sono cambiate talmente tanto negli ultimi dieci anni, che è quasi impossibile riconciliare i riferimenti pop-politici di allora con quelli di oggi.

Ad occhi stranieri la nostra scena politica, per quanto criminale, poteva essere vista come una riproposizione della commedia classica, della commedia dell’arte, e della loro più diretta discendente, la commedia all’italiana. Il vecchio libidinoso, il politico corrotto, il sicofante sono figure universalmente riconducibili ad un’esperienza comune, e aiutano a ridere della miseria umana, oltre che a fornire uno specchio in cui trovare, deformati ed esagerati, i propri vizi.


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La vergogna e derisione verso una classe politica era quindi un modo per riconoscere ed esorcizzare quello che del loro comportamento si poteva riconoscere in sé stessi. Ora molti dei miei connazionali, in Italia ma soprattutto all’estero, dichiarano di vergognarsi di essere italiani.
Questa vergogna non è dovuta a un riconoscimento e una catarsi di sorta. Nasce come reazione ad un atteggiamento che oggi, sempre di più, sembra diventare un tratto nazionale italiano. Si arriva ad una vergogna per conto terzi, per coloro che non si dimostrano capaci di provarla.

Naturalmente è un sentimento irrazionale, tanto quanto l’orgoglio di essere italiani. Sono sentimenti fondati su meriti e colpe altrui, su una ricerca di identità che sfugge alla triste realtà dei fatti: anche la nazionalità, l’appartenenza a un continente piuttosto che un altro, sono incidenti casuali, senza alcuna accezione morale o di valore. Sentirsi fieri o imbarazzati di essere italiani è come sentirsi fieri o imbarazzati di avere un naso.

È chi non è in grado di trovare un proprio valore personale che si aggrappa al sogno di una superiorità nazionale, arrancando sulle spalle di traguardi raggiunti da altri.

L’amore per l’Italia, per i secoli di cultura e storia, per le tradizioni nazionali e personali, non può essere ridotto a orgoglio o vergogna. L’amore per l’Italia può e deve comportare una profonda inquietudine per la situazione attuale, e un impeto d’azione per cambiare.

In molti casi, qui fra gli espatriati, che hanno una posizione di osservatori privilegiati, l’amore per l’Italia prende la forma di un desiderio di ritorno, che si fa più intenso e più remoto ad ogni prima pagina di giornale, ogni commento su Facebook, ogni gesto di disumanità.

Se a dieci anni di distanza il bunga bunga continua a imperversare, non posso che chiedermi quale sarà all’estero lo stereotipo italiano tra un decennio

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