Potrebbe piovere: Sole, cuore, Arbeitsamt

sole cuore arbeitsamt potrebbe piovere
di Riccardo Coradeschi

L’edificio è molto diverso da come me l’ero figurato nelle mie fantasie tragico-apocalittiche. L’architettura è lontana dal cemento armato ed il pallido beige che associo alla burocrazia della DDR, o dagli austeri ed opprimenti edifici finto-gotici che ancora si nascondono in alcune aree periferiche. Nemmeno il clima si adatta alla situazione: un raro sole estivo accieca gli edifici pallidi ed aumenta la mia già notevole traspirazione. Nessuna notte buia e tempestosa, nessuna nube nera a preannunciare i miei amati temporali estivi, nessuna zona d’ombra in cui strisciare a nascondermi. L’atrio dell’Arbeitsamt offre refrigerio, ma poco altro. Marmo chiaro riveste l’intera hall, un angolo è occupato dagli ascensori, di fianco ad uno stand pieno di opuscoli con foto di ragazzi e ragazze multietnici e sorridenti. Mi osservano mentre premo il bottone di chiamata, giudicandomi silenziosamente perché non prendo le scale. Sostengo il loro sguardo e penso che probabilmente sono più vecchio di loro. Ho quasi 26 anni, una laurea specialistica in sospeso, una moglie da cui mi sto allontanando ogni giorno di più ed un TFR con la data di due giorni fa.

Ho ancora poche ore per presentarmi a questa via di mezzo tra ufficio di collocamento ed agenzia del lavoro, la finestra per la richiesta di assistenza si chiude pochi giorni dopo il licenziamento. Tutti i documenti sono racchiusi in una logora cartellina verde, che uso invariabilmente per qualsiasi foglio di carta abbia una qualche dignità ufficiale. Dentro ci sono referti medici, paper presentati all’università, il contratto di assunzione, un certificato di matrimonio multilingua, una settimana enigmistica e la registrazione ufficiale come residente a Berlino. Non si sa mai.

La porta dell’ascensore si apre qualche piano più su e l’ambiente è decisamente più animato. Una lunga fila si snoda davanti a tre sportelli. Una serie di vetrate trasforma l’ufficio dell’Arbeitsamt in una serra, la pacchiana moquette blu è appiccicosa, quasi liquefatta. Un uomo monta la guardia vicino alle finestre, teutonicamente accaldato. Gli chiedo speranzoso se non sia possibile aprire uno degli infissi, lui scuote il capo ed indica un cartello che vieta di saltare dalle finestre. Suppongo che i suicidi vengano multati. Vista la scarsità dei miei fondi, decido di astenermi.


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La burocrazia non fa per me. In Italia mi irrita, ma in Germania mi terrorizza. Sembra che per legge gli impiegati pubblici tedeschi siano tenuti a parlare in tedesco, mentre io mi trovo a parlare in grammelot come Dario Fo al quinto Negroni. Mi hanno assegnato un ufficio di riferimento, ora attendo seduto in un corridoio talmente stretto da dovermi alzare in piedi ogni volta che passa qualcuno.
La porta si apre ed una donna di mezz’età mi invita ad accomodarmi. Con tono perentorio. In tedesco.
Le presento le mie scuse balbettanti mentre le presento i documenti richiesti. Non li guarda nemmeno, li soppesa nella mano e mi fissa:
“Ne manca uno.”
Con il mio miglior sorriso di circostanza provo a ribattere.
“Ma veramente…”
Con una rapidità insospettabile scorre tra i fogli e ripete:
“Ne manca uno. Il trattamento di fine rapporto è incompleto.”
Mi sembra di notare l’ombra di un ghigno sotto gli occhiali anni ’60.
“La prego di tornare con la documentazione completa.”
“Va bene, poi posso tornare direttamente…”
Il suo sguardo mi ferma prima ancora che possa finire la frase. Casella 58 del gioco dell’oca: si riparte dal via.

Mia moglie arriva di corsa con il foglio mancante, dopo operazioni di ricerca guidate telefonicamente dall’atrio dell’Arbeitsamt. Altro giro nella serra d’attesa. Stavolta mentre guardo le finestre nella mia mente va il loop un singolo dei Van Halen.
Altro corridoio, altra porta davanti a cui aspettare. Il mio piano ora è semplice: prendo il toro per le corna, faccio un bel respiro e lascio parlare mia moglie.
La porta si apre ed un giovane dall’aspetto accomodante ci apre. Finalmente la fortuna mi sorride. Sento che questo è l’uomo che fa per me. Lo vedo portarmi il reddito di disoccupazione direttamente a casa, con un bel fiocco ed un cestino di muffin preparati con le sue manine sante.
Non facciamo nemmeno in tempo a sederci.
“Ah, mi spiace, ci deve essere un errore. Vi hanno mandato nell’ufficio sbagliato, io non mi occupo di queste cose.”
Svanito il sogno di soffici muffin alle gocce di cioccolato.
Terzo giro all’ufficio di smistamento. La mia espressione è ormai quella di una vacca condotta al macello, la fila avanza passo dopo passo, il sole inizia a calare. Arrivati al bancone mia moglie spiega la svista precedente, io fisso in silenzio il caleidoscopio della macchie di sudore sulla polo viola dell’impiegato.
Veniamo mandati in un posto ancora diverso, una grande stanza divisa da bassi tramezzi, con una decina di cubicoli. L’ennesima signora di mezz’età ci chiama e ci fa accomodare. Potrei giurare che è la stessa di prima, con una parrucca diversa.
Le allungo il passaporto perché possa copiare nome e cognome. Ci riesce al terzo tentativo.
“Ecco, abbiamo inoltrato la sua domanda per l’assegno di disoccupazione. Non le sarà più possibile lasciare Berlino senza comunicarcelo. Se lo farà sarà passibile di multa. Non potrà lasciare la Germania, se lo farà sarà passibile di multa. Ci comunichi immediatamente se trova un altro impiego, in caso contrario…”
“Sarò passibile di multa.”
Alza lievemente lo sguardo ma non fa cenno di avermi degnato di attenzione. Mia moglie interviene:
“Aveva in programma un workshop a Londra fra pochi giorni, sarebbe possibile…”
La burocrate inizia a martellare selvaggiamente sulla tastiera.
“Come vi è venuto in mente di prenotare una cosa del genere senza un lavoro?”
“Ma veramente è una cosa prenotata tempo fa, il licenziamento…”
“Non è possibile.”
“Ma è già tutto pagato…”
Uno sbuffo di impazienza.
“Va bene. Ditemi i giorni, i dati del volo e dell’albergo.”
Le pareti si stringono sempre di più. La Germania non vuole lasciarmi andare. Lo Stato deve tenermi stretto, controllato, dipendente. Josef K., c’est moi. Il calore aumenta, il viso paonazzo avverte il nodo scorsoio dell’assistenzialismo tedesco che si serra ad ogni tasto premuto su quella tastiera. Voglio andarmene, possibilmente passando dalla finestra, a sfregio di quel ridicolo divieto. Mia moglie ringrazia cortesemente, usciamo. Quasi di corsa raggiungo la strada, esausto, tremante. Un pianto non meglio identificato a poco a poco trabocca dagli occhi. L’umiliazione, l’esaurimento delle ultime settimane mi travolgono. Ho perso il lavoro, ma non è solo questo. Qualcosa di più profondo, una crisi più intima mi erode giorno dopo giorno, silenziosa.

Tre giorni dopo riesco a disdire la richiesta dell’assegno.
Un mese dopo sono nello studio di una psichiatra, a farmi diagnosticare una depressione clinica.

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