Attentato a Berlino, la mia Berlino
di Letizia Chetta
Quando si hanno pensieri in testa si crede che esprimerli a voce sia più facile e immediato e che scrivere sia meno effettivo perchè più lento. Si ha l’impressione di perdere sempre qualcosa. Invece non è così: anche una volta esternati in suono, i pensieri si trasfomano in una catena lineare e la catena ti porta dove vuole. Più pensieri si hanno, più catene si creano e più lontano si va.
La mia testa è ora in subbuglio entropico, tanti fili, binari, catene, corde strapazzano le mie idee nelle direzioni più varie.
Ieri, 19 dicembre 2016, è successo di nuovo. In Europa era già capitato a Bruxelles, a Parigi, a Nizza. Ma questa volta è stato, per così dire, diverso.
Quando ho saputo del presunto attentato a Berlino, la città nella quale vivo da ormai qualche tempo e che amo di un amore complesso e un po’ stancante, mi trovavo in Italia, in cucina, a cenare con la mia famiglia. Una sera normalissima come tutte le altre, mia sorella che accende il telefono, dà un’occhiata veloce a Facebook e legge ad alta voce la notizia rimbalzata su tutte le bacheche come il boccino d’oro del Quidditch. Un bolide di caos.
“Un tir si è schiantato sulla folla del mercatino di Natale accanto al Ku’damm“.
Io non avevo parole, letteralmente. Ho finito di mangiare la mela che termina come sempre ogni mio pasto, fedele compagna di routine, e ho sentito un’amica. Poi, calata la notte, ho cercato di dormire, ma niente. Anche se, di fatto, mi sembrava di non provare davvero nulla, sapevo che uno strano sentimento a mezza via tra rimozione psicologica, noia e panico doveva essere alla base di quel mio improvviso mutismo, linguistico e cerebrale, di fronte all’ennesima strage.
Non ho mai pensato a Berlino.
O meglio, mi è successo un tas de fois di chiedermi: perché a Parigi e non qui? Perché non si è ancora sentito niente di simile? La polizia tedesca è forse più sveglia di quella francese? O forse la Germania è meno antipatica all’Isis?
Quante volte mi sono imposta di pensare ad altro, quando, alle 9.00 del lunedì mattina, mi sono trovata sulla U3, verso Krumme Lanke, nel vagone pieno zeppo di studenti diretti alla Freie Universität. In quei momenti ho seriamente creduto che una situazione simile sarebbe stata lo scenario perfetto per l’esplosione di una bomba. “Mezza università salterebbe in aria in un colpo solo”, pensavo. Poi però riabbassavo lo sguardo sul mio libro tutto nuovo di Chomsky, e non ci pensavo più. Bisogna pur vivere, no?
Ma Berlino, no. Non poteva essere nei piani di nessuno: è la capitale, questo è vero, ma rispetto ad altre città tedesche è un’isola multiculturale e internazionale, costituita da quartieri popolati da una forte comunità turca e musulmana, una città abituata alla diversità, all’”altro”, una città tollerante in continua transizione. Berlino sarà sempre così. Pensavo.
Eppure ieri qualcuno l’ha toccata.
Non che il terrorismo debba essere giustificato da qualcosa, per carità. Però a noi fa sempre piacere cercare i motivi più o meno reconditi di un’azione violenta. La Francia, per esempio, costituiva un bersaglio palese dopo le “provocazioni” di Charlie Hebdo (per non parlare di altre cause ben più profonde, che trovano le proprie radici nella storia dei rapporti conflittuali con le ex-colonie). Bruxelles, altrettanto chiaro: simbolo dell’Europa tanto odiata, quindi da colpire.
Ma Berlino, in tutto ciò?
Quel principio di razionalità che le mie tante speculazioni hanno sempre cercato di mantenere intatto, ieri è caduto.
Ieri, infatti, non riuscivo a prendere sul serio il fatto. Mi è scivolato accanto senza penetrarmi. Non so perché. E tuttora, forse, sto scrivendo anche per rendermi consapevole di cosa è successo, quasi per sforzarmi di sentire qualcosa, per provare che tutto questo non è “normale”. Ieri, di primo impatto, ho temuto il potere dell’assuefazione. Come un veleno che si insinua pian piano nelle nostre vene, fino a farci impermeabili. Siamo tutti dei gran Mitridate, ho pensato. Tutti a fare come il grande sovrano del Ponto, tutti a respirare il male per poter andare avanti.
E poi continuo a pensare alla potenza del mezzo con cui è stato perpetrato l’atto. A differenza di Parigi o Bruxelles, dove sono state usate prevalentemente armi da fuoco, in questo caso, come a Nizza, è stato un camion a mietere vittime, un tir da trasporti internazionali, nero, enorme.
Rivedo per un secondo la foto sulla Berliner Zeitung: un giovane poliziotto in primo piano, a tre quarti, mezzo voltato verso il veicolo alle sue spalle, dinosauro esausto di morte.
La prima immagine che si affaccia alla mia mente è quella di un film surreale e fantascientifico, dove alieni-robot atterrano tra i grattacieli e le case di una Los Angeles futura e iniziano a calpestare frotte di esseri umani come fossero formiche. Questo ho pensato. Che il terrorismo non solo sta diventando abituale e quindi imprevedibile, perché per essere vero il suo spettro dev’essere sempre e comunque presente, ma sta anche assumendo le tinte fosche e morbose di un horror del ventunesimo secolo. Per questo, chi non era lì, lo sente così distante, così algido. “Non è possibile, è un film”. Un viaggio nella follia, che sembra così impensabile a noi europei abituati a settant’anni di pace.
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Non si sa ancora chi siano i mandanti, ma di sicuro la tragedia continuerá ad alimentare polemiche sulla politica delle porte aperte portata avanti da Angela Merkel. Ormai il terrore agisce in modo trasversale, a prescindere dal luogo e dall’occasione. Questo significa che ci stiamo davvero inoltrando in un periodo di terrorismo quasi “anni ’70”, qualificato cioè da una violenza possibile e arbitraria.
La mia generazione ha giocato spesso e volentieri a ripercorrere le strade battute dai genitori e a sentirsi viva lottando per ideali come l’antifascismo e l’uguaglianza sociale. Erano parole belle, anche se un po’ stantie. Se ne sono dette tante. Ora saremo felici di vedere che, in fondo, avevamo ragione: che il fascismo esiste e che però non lo troviamo solo nei discorsi di Le Pen o AfD. Esiste dentro di noi e ha il volto placido dell’abitudine, del lassismo, del silenzio.
Spesso ci sembra abbastanza condividere una frase su Facebook, per sentirci partecipi del dramma. Ma è una menzogna, un autoinganno. Questo non basta.
Ogni volta che si verificano eventi simili facciamoci sentire, gettiamo un grido anche solo dentro di noi e ricordiamo che niente vale quanto rimanere saldi a quei principi di democrazia, fratellanza e solidarietà che hanno alimentato lo spirito originario dell’Europa. Un’Europa che non deve allontanarsi da quell’ideale di unitá che arriva da lontano e che può darci senso, aiutandoci a superare la paura e le sue peggiori degenerazioni. Adesso più che mai.