Ci sono cose delle quali le donne, soprattutto una certa categoria di donne, parlano fra loro, ma raramente in pubblico. Se state pensando che “le cose” in questione siano problemi squisitamente legati alla biologia e che la “categoria” in questione sia legata allo status familiare o all’età, siete fuori strada. Le donne in questione sono le professioniste, soprattutto le imprenditrici. Le “cose” sono un elenco di ragioni che rendono estenuante la cosiddetta imprenditoria femminile. Le donne ne parlano fra loro, ne parlano tantissimo, ma non ne parlano in pubblico, specialmente nei contesti legati all’imprenditoria in generale o al proprio ambito professionale, perché nessuna vuole essere etichettata come “una di quelle che si lamentano”. Come una di quelle che “e allora vai a fare l’impiegata, chi ti obbliga ad avere un’azienda? Chi ti obbliga a metterti in proprio?”.
Quello che le donne si dicono, ma che non si può dire
Le cose delle quali si parla solo con poche amiche di fiducia, ma non in pubblico, sono elencate in un codice non scritto, che però tutte conosciamo benissimo. Di solito, i racconti iniziano con un aneddoto frustrante, al quale le altre rispondono come un coro greco, facendo eco con reminiscenze paragonabili e commenti sulla reiterazione di certi comportamenti. E c’è sempre una casistica ampia, enorme, catalogata per anni, per decenni, per ambiti professionali, per Paesi e per lingue. Una Wikipedia della frustrazione femminile alla quale però è concesso reagire soltanto con superiorità, facendo finta di non aver notato nulla. Ma oggi mi sento in vena di mettere a disagio un sacco di gente, quindi violo il segreto di Stato delle imprenditrici e delle freelancer di tutto il mondo, comunicando che sì, ce ne accorgiamo, ce ne siamo sempre accorte, lo commentiamo fra di noi, ne ridiamo e sogniamo di poter rispondere, almeno una volta nella vita, in modo sincero.
Ecco dunque un elenco delle situazioni nelle quali tante di noi hanno alzato gli occhi al cielo e preso un altro appunto mentale. No, non ci saranno nomi, sì, sono tutti episodi reali e, se vi ci riconoscete, probabilmente si parla di voi. O di qualcuno che vi somiglia parecchio.
L’alleato confuso
“Siete tutte donne, ma siete davvero intelligenti”. Questa frase l’ha detta un imprenditore italiano, dopo una riunione con un gruppo di lavoro che lui stesso aveva selezionato. Se glielo chiedeste, probabilmente l’imprenditore in questione si identificherebbe come femminista. Non solo perché vota a sinistra ed è, in generale, una persona pacifica, liberale e bonacciona, ma anche e soprattutto perché, appunto, era stato proprio lui a scegliersi un gruppo di collaboratrici freelancer. Tutte donne, ma, ciononostante, davvero intelligenti. Mica per finta. Lo diceva sorpreso, al termine di due ore di discussione e messa a punto di progetti ai quali non aveva contribuito, ma che aveva evidentemente “valutato”. Il suo giudizio calava dall’alto, benevolo, il suo stupore era talmente genuino e onesto che nessuna di noi ha avuto il cuore di chiedergli se si ascoltasse quando parlava o se avesse scelto di ottimizzare i processi di comunicazione dando in outsourcing a due diversi team il management delle orecchie e della bocca. Che poi sarebbe stato l’equivalente, nel linguaggio del marketer medio, del chiedere “ma sei scemo davvero o fai solo finta?”.
Il paternalista
Il paternalismo, nella vita di una professionista, si presenta in tantissime forme, tutte sottili, il cui scopo principale è spingerti a mettere in dubbio il tuo diritto a occupare la posizione che occupi. Attenzione, questo non vuol dire che chi si comporta in modo paternalista stia attivamente o consapevolmente cercando di erodere la fiducia della sua interlocutrice in sé stessa, piuttosto vuol dire che il linguaggio e i codici di comportamento approvati in un certo contesto sono stati sviluppati a monte per mantenere uno status quo nel quale la prevalenza maschile è la regola e la presenza femminile l’eccezione.
A noi è stato chiesto per esempio come mai il nostro team fosse composto esclusivamente da donne, se si trattasse di una scelta precisa, quasi che dovesse esserci una ragione politica dietro una situazione così insolita. Sappiamo per certo che la stessa domanda non viene rivolta a team anche molto più vasti composti da soli uomini, poiché in quei casi si dà per scontato che, semplicemente, sia andata così. Sono cose che capitano. Si sarebbe potuta inserire anche una donna, ma non è capitato. Però poteva capitare. Però non è capitato. Se mancano gli uomini, invece, non è una cosa che può capitare: è una forma di esclusione.
Ma attenzione, non tutte le forme di paternalismo sono aggressive o “complottare”: ci sono anche quelle carine e coccolose come i pinguini di Madagascar (cioè per finta). Per esempio, c’è l’abitudine di riferirsi a un gruppo di lavoro composto da sole donne come “rosa” o “al femminile”. E che problema c’è? Dice a questo punto il paternalista (o la paternalista, perché almeno in questo campo la parità non è lontana), non stiamo mica dicendo che ci sia qualcosa di male (ma grazie), stiamo solo notando un dato di fatto. Il problema dei paternalisti e delle paternaliste, però, è che non hanno mai studiato la teoria dell’agenda setting: quello che scegli di menzionare è già un riflesso del tuo giudizio di valore.
Leggendo qualsiasi articolo di qualsiasi testata professionale, dal mondo delle startup a quello dell’architettura d’interni, dalla giurisprudenza alla filatelia, dalla fisica all’apicoltura, le aziende e i gruppi di lavoro interamente maschili saranno categorizzati in base alle competenze specifiche dei loro membri. Se si tratta di programmatori, si menzionerà in quali linguaggi sono più esperti, se si tratta di startupper, si parlerà dei loro percorsi professionali precedenti. Mai del loro genere. Degli uomini, si vorrà sempre sapere cosa sanno fare meglio. Delle donne, si vorrà sempre sapere se è proprio sicuro che possano stare lì.
La mamma
“C’è una cosa che devi sapere delle donne italiane: sono le migliori del mondo, perché sono prima di tutto mamme, ti faranno sempre un po’ da mamme, sono mamme dentro”. Lo dice il giornalista italiano, che a distanza di anni ricordo con lo stesso disprezzo del primo giorno, al tecnico tedesco che mi sta sistemando il microfono per l’intervista. Dal momento che sono ospite, invitata da un’altra delle donne presenti e impegnate nell’intervista, non indulgo alla mia prima pulsione, che è quella di dargli del troglodita, di staccarmi il microfono dalla giacca e di scrivere alla redazione per cui lavora una letteraccia, volta a spiegare che Tina Lagostena Bassi non è morta per i nostri peccati perché i giornalisti del XXI secolo si esprimessero come dei vitelloni da secondo dopoguerra. Le altre donne presenti e io ci scambiamo i soliti sguardi eloquenti, presagi dei messaggi che ci invieremo nei prossimi giorni, per raccontarci quanto insopportabile, arrogante, spaccone e viscido sia questo signore che ci sta armeggiando intorno come se dovessimo essergli grate dell’attenzione che ci rivolge.
Restiamo lì, facciamo le interviste come previsto. Io parlo per un quarto d’ora di economia, di mercato del lavoro, di partite iva, di diritto del lavoro e delle relative differenze fra Italia e Germania dal punto di vista dei freelancer del mio settore. Il mio interlocutore continua a fissare, per usare un delicato eufemismo, la stampa sulla mia maglietta. A intervista finita, mi chiede l’origine della maglietta medesima, rispondo. Non assisto alle altre interviste, ma so che anche le altre intervistande parleranno dei loro ambiti professionali specifici. Una di loro, fra le altre cose, è incinta.
Quando va in onda il programma, il mio intero intervento è stato tagliato, con l’unica eccezione delle inquadrature che mettono in risalto la maglietta e il mio commento su ciò che indosso. L’altra professionista presente pare abbia parlato solo di gravidanza e maternità. La chiamo, per chiedere se anche lei abbia sviluppato improvvisamente i sintomi di un’ulcera gastrica precedentemente ignorata. Lei mi conferma che, anche nel suo caso, quasi tutti i passaggi sul suo lavoro sono stati tagliati. Perché la donna italiana è prima di tutto mamma e, anche quando non lo è, ha l’equipaggiamento necessario per diventarlo.
Il nostro ruolo professionale, che era stato presentato come l’elemento di interesse per il quale ci si richiedeva un’intervista, è stato completamente cancellato, per fare di noi elementi di colore, utili a rafforzare una narrativa che non controlliamo, ma di cui siamo oggetto e dovremmo sentirci anche lusingate.
Le ragazze
Le donne sono sempre ragazze. Sempre. Anche se hanno più di 40 anni. Anche se non siamo in confidenza. Anche se hanno un titolo professionale. Gli uomini dei quali non si sa se abbiano una laurea o meno, in Italia, sono “Dottori” a prescindere, per sicurezza. Le donne si chiamano per nome. Neanche per cognome, per nome. Per fortuna, sono sempre meno e sempre più anziani quelli che chiedono “Signora o signorina?”, ma guai a far sapere che la risposta è “Dottoressa” o “Professoressa” o “Avvocata”.
Le donne che sottolineano il titolo, si fanno prontamente la fama di inavvicinabili, difficili, intrattabili. “Occhio, che quella lì ci tiene a essere chiamata Dottoressa. Se te lo dimentichi te lo fa notare. Diventa una bestia”. Spoiler: in realtà no, non diventa “una bestia”, però sì, te lo fa notare (per molti, è la stessa cosa). Perché, in un mondo di uomini che sono “Dottori” nelle comunicazioni professionali semplicemente perché hanno la M sul documento d’identità, lei non si è sobbarcata anni di studi, emergendo nel suo settore, solo perché il Dott. Giancoso De Qualsiasi, fuori corso all’Università della Vita, si prenda la confidenza di chiamarla “ragazza” a 54 anni.
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E il problema è che non è solo una questione di titolo. È una questione di braccio di ferro, in ambito professionale. Perché, se la tua interlocutrice coltiva il sottile dubbio di non avere il diritto di occupare il posto che occupa, ti potrai permettere cose che altrimenti non ti permetteresti. Per esempio, ti permetterai di transigere sull’urbanità dei toni di tanto in tanto. Di negoziare più duramente sui compensi. Di parlare addosso all’altra persona, di cercare di arrogarti un merito che non ti pertiene. Di aggiungere alla mail una richiesta che sai benissimo di non avere il diritto di accampare e magari di farlo in grassetto. Sottolineato.
Quello che manca
Che cosa manca a questo elenco? Manca quello che non merita spazio in questo dibattito, perché ne merita un altro più approfondito, più serio, più grave. Mancano tutti quelli che ritengono che un consesso professionale sia il luogo adatto per avere un parere sull’aspetto fisico delle donne presenti. Mancano quelli che ritengono di avere il diritto a un’opinione sulle scelte altrui in materia di vita familiare, riproduzione, accudimento della prole, assenza della prole, quantità e origine della prole. Quelli che ritengono che un consesso professionale sia il luogo adatto per mettersi a parlare della prole. Mancano quelli che, quando non hanno ottenuto quello che volevano in ambito professionale, perché una donna si è messa di traverso, ci tengono a far sapere al mondo che loro una così non se la porterebbero mai a letto (probabilmente dando per scontato che lei sia devastata da questa tragica consapevolezza). Mancano quelli che cercano di utilizzare il potere in ambito professionale per intimidire, estorcere e abusare. Ma questo è un articolo leggero, non siamo qui per parlare di mostri veri. Solo di mostriciattoli.
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