Il bidello, la palpata di dieci secondi e le rane: riflessione contro la speranza

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In questi giorni, perfino la stampa tedesca ha ripreso la notizia dell’assoluzione del bidello di Roma per la “palpata” di dieci secondi. Inutile dire che non ci facciamo una bella figura come nazione, ma non è per questo motivo che mi sono decisa a scrivere questo editoriale. Ci ho pensato per diversi giorni, combattendo con la nausea e quella stanchezza atavica, devastante, primordiale che tutte le donne conoscono: quella di dover spiegare l’ovvio per l’ennesima volta. Considerando che, in 42 anni di vita, ne ho passati almeno 30 a familiarizzare con un concetto semplice: i corpi femminili sono beni di consumo e questo fatto, se si ha la sventura di abitare un corpo femminile, ti avvelena la vita.

Ma andiamo con ordine. Le sentenze, prima di essere commentate, vanno lette. E io l’ho letta, la sentenza (potete farlo anche voi, qui. Sono quattro paginette comprensibili a chiunque abbia la capacità di googolare un paio di articoli del codice penale). E, nell’apprestarmi a leggerla, ho sperato, giuro, che la ragazza stesse esagerando, che fosse la classica tempesta in un bicchiere d’acqua, per permettere ai media di monetizzare con un bel titolaccio acchiappa-click, cavalcando l’onda inesauribile del me too. E invece, mannaggia la miseria, no. L’ho letta la sentenza, ma stavo meglio quando ancora non l’avevo letta. Perché tutto il milieu che da quella sentenza emerge è enormemente familiare e riviverlo è come rimettersi sulle spalle lo zaino della scuola, pieno di mattoni.

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La sentenza: perché il bidello è stato assolto?

Partiamo dai fatti. Per quanto divertenti ed efficaci siano i video di satira che molti hanno fatto, con le migliori intenzioni, mimando la palpata di dieci secondi per sottolineare quanto tale lasso di tempo possa apparire lungo, tali rappresentazioni sono fuorvianti. Il bidello non è accusato di aver dato la classica manata sul sedere alla studentessa. La ragazza riferisce quanto segue: “mentre si stava tirando su i pantaloni che le erano scesi dalla vita, sentiva da dietro delle mani entrarle nei pantaloni, sotto gli slip, che dapprima le toccavano i glutei e poi la afferravano per le mutandine e la tiravano su sollevandola di circa 2 centimetri; il tutto durava circa cinque/dieci secondi .”

A quel punto la ragazza si volta, pensando allo scherzo di un’amica, vede invece l’uomo adulto che sta dietro di lei e corre in classe senza dire nulla. Evidentemente colto dal sospetto che lei possa non aver gradito, quest’uomo adulto la segue in classe dicendole, sempre secondo quanto riportato dalla sentenza, “amo lo sai che io scherzavo”. Amo. Alla ragazza, però, questo non deve essere sembrato uno scherzo, dal momento che si è rivolta a un insegnante e poi, su impulso di quest’ultimo, alla vicepreside. Il bidello, intanto, deve aver subodorato che per il suo gesto potrebbero esserci delle conseguenze, dal momento che cerca di nuovo di rivolgersi alla ragazza durante la ricreazione, al bar. Quando capisce che lei non ha intenzione di perdonarlo reagisce compostamente: prende a testate il bancone del bar e la accusa di “rovinargli la vita” dopo che lui “non le ha fatto niente”.

La sentenza riporta anche altre testimonianze relative ai comportamenti abituali del bidello, che è uso chiamare “amore” una ragazza minorenne, colpirla “scherzosamente” con racchettate sul sedere durante una partita di ping-pong e dirle “se avessi la tua età mi risarei sposato”. Questo tipo di confidenza, pare, per il bidello in questione era cosa di ogni giorno, che si concedeva con diverse ragazze.

Il tribunale ha ritenuto che il gesto di tirare su i pantaloni (che il bidello conferma di aver compiuto, negando però di essere arrivato con le mani fino a sotto gli indumenti intimi della studentessa) possa rientrare in una manovra maldestra e scherzosa, alla quale manca l’elemento della soggettività, ovvero la volontà di molestare. Dalla testimonianza dell’imputato, peraltro, emerge anche il momento nel quale l’uomo ha iniziato a sentire che qualcosa non andava, nello specifico perché altri studenti lo apostrofavano con frasi come “vergognati, con te non ci parlo” e “vai via cammina, tu tocchi il culo alle ragazze”.

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Sei una rana

Fin qui i fatti. Ora un messaggio personale per P.A., la ragazza in questione, e per tutte le altre adolescenti e preadolescenti, che vivono come ho vissuto io, in un corpo femminile. Cara P.A., mi dispiace dover essere io a dirtelo, mi dispiace che sia così, ma qualcuno ti deve pur informare: tu sei una rana.

Sei una rana in un pentolone e l’acqua è ancora tiepida. Io alla tua età non avevo ancora letto Chomsky, autore di questa metafora dell’abitudine all’oppressione, ma magari tu sei più avanti di me con le letture e conosci già la storiella. Te la riassumo, non si sa mai. Se si butta una rana in un pentolone di acqua bollente, quella salterà immediatamente fuori. Se invece la si immerge in un pentolone di acqua fredda e si alza gradualmente la temperatura, la rana si abituerà progressivamente alla nuova condizione e finirà bollita. Allo stesso modo, l’essere umano si abitua all’oppressione, se questa gli viene somministrata a piccole dosi.

Tu sei una rana, immersa in un ecosistema che ti abitua, piano piano, ad accettare una verità: il tuo corpo non è roba tua. Il tuo corpo è un bene di consumo, esiste per il piacere, il divertimento, l’intrattenimento degli uomini. Il solo fatto di portartelo in giro e di non essere invisibile fa sì che la tua esistenza fisica diventi affar loro. Io me lo ricordo perché ho passato un sacco di tempo nello stesso pentolone.

Le regole del pentolone

Un pentolone fatto di uomini adulti che commentano con desiderio il corpo di ragazzine minorenni, di ragazzi altrettanto minorenni che prendono appunti sui privilegi (ma anche i doveri di virilità) che li attendono, di professionisti e padri di famiglia che commentano nelle chat dell’ufficio quello che farebbero alle colleghe, mettendo loro il voto in base, per dirlo con un termine tanto eufemistico quanto inadatto, alla “desiderabilità”. Un pentolone che ti insegna che il tuo corpo è la tua maledizione e la tua arma, che te ne devi compiacere, perché puoi “usarlo per ottenere quello che vuoi”, che però hai il dovere di farlo apparire in un certo modo, perché, come diceva un noto psicologo televisivo, “se quando esci di casa non ti dicono che sei bona” hai fallito come essere umano.

Un corpo che, se lo esponi troppo, è perché vuoi attenzioni e allora poi non ti devi lamentare, un corpo che causa reazioni animalesche nei portatori sani di organo genitale estroflesso e loro, poverini, non possono farci niente, sei tu che ci devi stare attenta, è colpa tua se li provochi, loro sono bestie, mica esseri pensanti come te. Tu sei più matura, li devi capire, devi essere migliore di loro e non aspettarti mai che essi siano migliori di sé stessi. Perché poi, stando così le cose, una debba desiderare di accompagnarsi a dei gibboni non è chiaro, ma, si mormora nel pentolone, il tuo primo dovere nonché massima aspirazione è renderti attraente ai loro occhi e portartene a casa uno. Che tu abbia sei anni o sessantasei, è colpa tua. È responsabilità tua.

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“Signora mia, non si può più scherzare…”

Un pentolone in cui è tuo dovere essere interessata al sesso, altrimenti sei una neo-puritana, ma non troppo, altrimenti sei una puttana. Un pentolone in cui il sesso è dovuto agli uomini, perché altrimenti soffrono, si frustrano e ti aggrediscono verbalmente o fisicamente, ma comunque hanno da dire se ti concedi al sesso con troppa facilità o ad altri prima che a loro. Un pentolone in cui il percepito è “signora mia, non si può dire più niente, non si può più scherzare, ché le femministe si arrabbiano. Non si può più rimorchiare, non si può più dire a una ragazza che è bella, ché ti denunciano, non si può più nemmeno legittimamente sbattersi una che si è ubriacata con il chiaro intento di farsi sbattere, perché poi quella si pente e va dai carabinieri”.

Un pentolone in cui gli uomini sono vittime della gravissima ingiustizia del tuo voler chiedere loro conto delle loro azioni. Un pentolone in cui, se lui si ubriaca e ti stupra non è colpa sua, perché era ubriaco, ma se tu ti ubriachi e lui ti stupra è colpa tua, perché tu eri ubriaca. Un pentolone in cui, nei processi per stupro, quelli veri, si parla meno delle dinamiche del reato e più del numero di partner sessuali che la vittima ha accumulato negli anni precedenti al reato stesso (googolate “Fortezza da Basso + stupro”, perché, se mi metto a parlare anche di questo, facciamo notte). Dopo un certo numero di partner sessuali raccolti nel corso di una vita, sei praticamente stuprabile “gratis”. Un pentolone in cui Brock Turner se la cava con un buffetto sulla guancia, perché il giudice non vuole “rovinargli la vita”, ma della vita della ragazza che ha ripetutamente penetrato mentre era priva di sensi, fuori da una festa, e della devastazione psicologica perpetua che questo episodio comporterà a lei e alla sua famiglia la corte si può tranquillamente non occupare.

Le rane-portinaie

Un pentolone popolato di altre rane-femmine che hanno scelto il ruolo di “portinaie del patriarcato” per dirla nelle parole dell’incomparabile Michela Murgia, le “gatekeeper”, quelle che sperano di ingraziarsi i poteri con la mano sul fornello, dicendo che “pure le donne, certe volte, se la cercano” e che “a me certe cose non sono mai successe, chissà perché”. La risposta, cara rana-portinaia, è “per caso”. Il giorno che un uomo deciderà che il tuo corpo esiste per il suo diletto, ti scotterai pure tu. E poi dirai che non ti sei scottata, che l’acqua non era tanto calda, che in realtà stavi facendo la sauna, perché tu no, non ti puoi e non ti vuoi vedere come una vittima. Perché a te sta bene vestirti come dice il patriarcato e seguire regole che non hai scritto ma che rispetti con entusiasmo, sanzionando le rane che fanno altrimenti. Perché, se fai tutte le mosse giuste, a te non capiteranno le cose peggiori, tu non finirai sul piatto di uno chef francese, come noi.

Perché tu hai capito che, prima che di sesso, si tratta di potere. E quindi cercherai di “comprarti” la sicurezza acquisendo il potere oppure compiacendolo. Può essere perfino che ti vada bene per tutta la vita. D’altra parte, quando ci si trova a vivere in un sistema di oppressione, si sceglie sempre da che parte stare e tu hai scelto quella potenzialmente più sicura. Non è che me la senta di darti torto.

Un altro bidello, in un’altra città

Inizialmente avevo riempito questo articolo di “me too” dettagliati dei miei anni di scuola, ma poi ho pensato che non siano, strettamente parlando, fatti di chi legge. Però un episodio ve lo voglio raccontare.

Qualche tempo fa ho tenuto una lezione, nel contesto di un progetto extracurriculare, in una scuola media italiana. Una scuola MEDIA. Io non sono brava coi ragazzini e sapevo che farmi rispettare sarebbe stato difficile. Dopo dieci minuti, due ragazzine di terza chiedono di andare in bagno, insieme. Io, che spero di passare per “la prof simpatica”, ce le mando. Dopo altri dieci minuti, stessa richiesta da altre due ragazzine. Acconsento, nella mia immensa magnanimità. I maschi, nel frattempo, vanno in bagno da soli. Alla terza richiesta di uscita di coppia da parte di due bambine reagisco con una battuta “ma ve lo hanno spiegato che si può andare in bagno anche da sole?” “Veramente no” mi risponde una delle due bambine, seria. “In che senso?” chiedo io. “I professori ci hanno detto che dobbiamo andare in bagno sempre in due, perché c’è un bidello che, se andiamo sole, entra nel bagno delle ragazze e ci spia”.

E io, che ho la presenza di spirito di un coniglio paralizzato davanti ai fari di un camion, le ho mandate in bagno in due e ho aspettato di essere a casa per vomitare.

Questo, cara la mia P.A., è il pentolone nel quale siamo cresciute. Un pentolone nel quale gli uomini possono servirsi apertamente dei corpi femminili, anche di quelli di bambine di 12-13 anni, per il loro piacere. Un piacere che va dal commento all’atto sessuale, con tutte le sfumature intermedie. E la soluzione non è dire “caro lei, se la vista di ragazze minorenni o addirittura bambine le causa un’erezione incontenibile, la riteniamo inadatto al lavoro come assistente scolastico e, per buona misura, facciamo anche due chiacchiere con le forze dell’ordine”. Neanche per idea. E cosa vogliamo, far perdere il lavoro a un onest’uomo, forse? La soluzione è dire alle bambine “provvedete a creare per voi stesse un ambiente sicuro, nel quale una bambina di 12 anni difende un’altra bambina di 12 anni dall’intrusione di un uomo adulto che vuole vederla con le mutandine abbassate”. Un pentolone nel quale gli uomini, questi esseri razionali che ti deridono se alzi la voce, chiedendoti se “hai le tue cose”, proprio quegli stessi uomini, se appena ci si azzarda a ventilare l’ipotesi che i loro comportamenti di abuso possano avere delle conseguenze anche blande, perdono il controllo, strepitano, si attaccano alle tende come dive del muto e prendono a craniate il bancone del bar, in uno sfoggio di maschio sangue freddo, per poi dire che “si scherzava”. E i tribunali rispondono “allora tutto apposto, fratello, vai tranquillo”.

Il coperchio

Ora ci dovrebbe essere il finale ottimista. Per esempio, potrei raccontarti, cara P.A., che la storiella della rana è scientificamente infondata e che le rane non si comportano affatto così. Che il Professor Doug Melton, del Dipartimento di Biologia dell’Università di Harvard, ci fa sapere che, se butti una rana in un pentolone d’acqua bollente, quella muore all’istante, mentre, se la temperatura dell’acqua si alza progressivamente, la rana, se ne ha la possibilità, salterà fuori quando non sarà più a suo agio. Perché la rana non è scema. E questo fatto, scientificamente vero, potrebbe essere lo spunto per dire che le donne, come le rane, sono perfettamente capaci di saltare via da questo pentolone sempre più caldo, che oltretutto non è neppure pieno d’acqua.

Il problema è che non lo penso. Non penso che la società abbia voglia di smettere di normalizzare l’abuso. Non penso che, nonostante le battute brillanti di chi dice che non si può più fare un complimento a una bella ragazza e che ormai si demonizzano i maschi in quanto tali, siamo vicini a un periodo storico in cui un adulto che trova normale toccare o commentare il corpo di un’adolescente sia ritenuto inadatto a lavorare in una scuola. E che, per quanto il frignare a gran voce sia diventato una specialità di una consistente percentuale degli uomini che popolano tanto i media italiani quanto i social media, di conseguenze vere, tangibili, ce ne siano assai poche. Il corpo delle donne è e rimane una terra di nessuno in cui vale tutto. E l’unica persona che cercherà di difenderti da un abuso sei tu. Al massimo i tuoi familiari, se sono brave persone. Nessun altro. Sei da sola, agisci di conseguenza. Non stare tranquilla, non ti rilassare, non prenderla a ridere. Incazzati come un tasso del miele.

Non penso che siamo vicini al momento in cui gli uomini che NON fanno commenti sessisti sulle colleghe di lavoro denunceranno pubblicamente o anche solo contrasteranno privatamente quelli che invece li fanno. Non penso che siamo vicini al momento in cui denunciare uno stupro, una violenza, una molestia serva a qualcosa. Perché questo deve essere evidente: non serve a nulla, smettiamola di prenderci in giro.

Denunciare serve a rovinarsi la vita, a spendere un sacco di soldi per un processo nel quale decine di persone faranno un’analisi approfondita con il solo scopo di determinare in che misura, esattamente, ti sei meritata quello che ti è successo. Io vorrei, cara P.A., dirti che hai fatto bene a denunciare, che qualcosa sta cambiando. Ma non lo penso, o meglio: lo penso al 50%. Penso che tu abbia fatto bene a denunciare, perché hai fatto ciò che è giusto. E penso che ciò che è giusto sia giusto anche quando non è utile. E lo dico essendo una persona che non ha mai denunciato, mai. Io non ho mai fatto quello che era giusto. Tu sì. Sei stata eroica, P.A. Però penso anche che quello che hai fatto sia giusto, ma completamente, definitivamente, inappellabilmente inutile. Penso che non stia cambiando niente. Penso che, fra gatekeeper e uomini con la mano sul fornello, il problema non è quanto rapidamente stia aumentando la temperatura dell’acqua. Il problema è che sulla pentola c’è il coperchio.

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