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“Perché non te ne torni al tuo Paese?” tutorial per rispondere alla domanda del secolo

Perché non te ne torni al tuo Paese? Editoriale semiserio di fine estate.

“Perché non te ne torni al tuo Paese?” è una frase che nessun tedesco mi ha mai rivolto, in dieci anni di permanenza in Germania. Sono perfettamente consapevole che la mia situazione, al confronto con quella della media degli immigrati di qualsiasi genere, in qualsiasi luogo, sia un quadro di enorme privilegio. Sono europea, vivo in Europa, non ho dovuto chiedere permessi per spostarmi, il mio livello di melanina è abbastanza basso da non rischiare di attirare le ire della maggior parte delle persone. Questo non vuol dire, però, che nessuno mi abbia mai chiesto, con maggiore o minore vis polemica, “Perché non te ne torni al tuo Paese?”. Il punto è che a dirmelo sono quasi sempre gli italiani. In Italia.

È complicata questa faccenda dell’immigrazione, quando la si spiega all’interno di un Paese di emigrati che si percepisce come un Paese pieno di immigrati. Mi spiego meglio.

In Italia, intorno all’italiano che se ne va, si costruisce sempre una narrazione. Non la narrazione dei fatti, ovviamente, non sia mai, ma una narrazione mitologica che comprende una manciata di figure e ruoli possibili, una specie di teatro dei pupi con la valigia di cartone, stratificato in anni di telegiornali approssimativi e racconti di cugini, nipoti e cognati. Uno schemino di Propp pensato per semplificare la complessità e quindi amatissimo da chi lo usa e fastidiosissimo per le persone a cui viene appioppato proditoriamente.

Cervello in fuga o tossico? Fenomenologia dell’italiano emigrato

L’italiano che se ne va può essere, nell’ordine:
1) Cervello in fuga
2) Bassissima manovalanza stile “Pane e Cioccolata”
3) Quello (ma più spesso Quella) Che Se Ne Va Per Ammmore
4) Genio dell’imprenditoria che ha trovato l’eldorado
5) Drogato (categoria bonus che vale soprattutto per Berlino)


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Se, come me, non rientri in queste categorie, è complicatissimo spiegare perché vivi in un luogo anziché in un altro. Tutto inizia di solito al bar, magari sul lungomare, con la frase di apertura “E quindi stai in Germania”, detta da una persona che sa benissimo dove stai, perché ti conosce da tutta la vita e ti fa la stessa domanda tutti gli anni. La domanda è seguita dall’imbeccata “Si sta meglio lì, eh?”

Tutorial con passi di danza

Scambiare quest’ultima per una domanda è un errore da pivelli. Non è una domanda. È l’avvio di una danza. Avete presente i balli di gruppo con le figure complicate che si vedono nei film ispirati ai romanzi di Jane Austen? Qualcosa del genere. Se vi viene rivolta questa domanda, significa che il domandante intende iniziare con voi una di due danze ben codificate e sta a voi capire quale.

Potrebbe trattarsi della quadriglia “In Italia Fa Tutto Schifo” o del valzer “Nessun Posto È Bello Come Casa Mia”, detto anche “Dorothy in Kansas”. Sta all’interrogato capire cosa l’interrogante preferisca in quel momento. Se sarete furbi, miei compagni di emigrazione, darete all’altro tutto quello che vuole per farlo felice: in un caso vi esibirete in un assolo di “in Germania tutto funziona alla perfezione e i treni arrivano in orario”, nell’altro vi lancerete nel freestyle di “come si mangia da noi non si mangia da nessuna parte e poi vuoi mettere il clima e comunque i tedeschi sono freddi”.

Se invece, come me, avete un quinto del DNA di Leopold Von Sacher Masoch, cercherete di rispondere sul serio alla domanda. Stolti.

“E insomma, com’è la Germania?”
“In che senso?”
“Eh com’è. Si sta meglio?”
“Ma da quale punto di vista?”
“Meglio! Meglio di qua!”
“Ma qua al bar, dici?”
“Ma qua in Italia! Insomma, me lo vuoi dire com’è questa Germania? È meglio o peggio dell’Italia?”
“Beh… è un Paese. Pure piuttosto grande. Per di più è uno Stato federale, ci sono grandi differenze fra un Land e l’altro, alcune cose funzionano meglio e altre funzionano peggio…”
“Peggio che in Italia non è possibile! Sicuramente sarà tutto più moderno, tutto più automatico!”
“Mah, veramente la lentezza della digitalizzazione è una cosa talmente nota che ci raccontano le barzellette…”
“Ma sicuramente la sanità non è disastrata come qui…”
“Veramente tutti gli europei non tedeschi scappano a farsi curare nei Paesi d’origine e l’aspettativa di vita in Germania è più bassa che in Italia…”
“Ma sicuramente l’inflazione da voi non è così alta!”
“I prezzi sono cresciuti anche in Germania…”
“Ma se ti devi lamentare tanto Perché Non Te Ne Torni al tuo Paese?”

La verità ci renderà liberi (più o meno)

Ora, la risposta onesta a questo punto sarebbe “perché qua ci sei tu”, ma sarebbe già un errore rispondere, perché la domanda non tiene conto di una cosa fondamentale. Lamentarsi è un sacrosanto diritto. Così come lo è gioire delle cose belle. E siccome nessuna società è perfetta, ma ogni società è perfettibile, bisognerebbe anche smettere di considerare “lamentela” il mero fatto di indicare ciò che potrebbe essere migliorato.

Perché al di là dei nostri piccoli campanilismi, il bello dell’essere europei è proprio questo: noi arriviamo in un altro Paese e siamo già parte del tessuto della società, non dobbiamo dimostrare niente, non dobbiamo fare niente per diventarlo. E, quando si è parte del tessuto di una società, dovrebbe venire naturale prendersene cura, osservarla, comprenderla, capire ciò che può essere corretto e magari partecipare attivamente per arricchirla a partire dalle proprie esperienze.

perche non te ne torni al tuo paese

C’è qualcosa di vagamente tossico e malaticcio in questa retorica per cui, quando vai a vivere in un altro Paese, se il bilancio della tua vita non è la perfezione assoluta, allora è un assoluto fallimento. Una vita è una vita, fatta di successi e insuccessi, entusiasmo e noia, iva al 19% e lettere sibilline del padrone di casa che ti giustifica l’aumento dell’affitto con una supercazzola in antico sumero, che termina con un “Mit freundlichen Grüßen”, che di amichevole non ha nulla. E un Paese è un Paese, fatto di welfare che a volte funziona e a volte no, di tram che arrivano in perfetto orario e di scioperi nazionali dei treni, di diritti civili riconosciuti e di fanatici che manifestano per farli abolire. Perché dovremmo stabilire “dove si sta meglio”? Qual è lo scopo? Dobbiamo trovare il posto dove si sta meglio al mondo e andare tutti lì, altrimenti stiamo sbagliando qualcosa? Le uniche scelte ammissibili sono “vai in un posto perfetto a condurre una vita perfetta” o “tornatene al tuo Paese”?

Secondo il World Happiness Report, la Finlandia, da sei anni a questa parte, è il luogo dove le persone sono in assoluto più felici. Dobbiamo andare tutti in Finlandia, così da assicurarsi che anche lì si possa campare malissimo e non si riesca più a trovare un appartamento né un posto all’asilo? Dobbiamo ridurre Helsinki come Gallipoli a ferragosto?

Affondo finale (cose che capitano “al tuo Paese”)

Ma non lo dico, non dico niente di tutto questo, perché so con chi sto parlando e so anche come far finire la conversazione. Nell’ottica del tutorial, vi consiglio di prendere appunti. Quello che dico è invece:
“Beh, ci sono anche tante cose che funzionano meglio…”
“Eh lo sapevo! La Germania è un grande Paese! Per esempio?”
“Per esempio il welfare…”
“Perché aiutano le famiglie? I lavoratori?”
“Certo! Durante la pandemia hanno dato un sacco di fondi anche alle partite iva”
“Che grande Paese!”
“E poi l’iva è più bassa!”
“Che grande Paese!”
“E ci sono molti aiuti per i neogenitori”
“Che grande Paese!”
“E hanno appena aumentato il reddito di cittadinanza del 12%…”
“Che gra-… eh?”
“Il reddito di cittadinanza. Lo hanno aumentato del 12%”
“Ma come, qua lo tolgono e là lo aumentano?”
“Eh sì. È un grande Paese. E il salario minimo al momento è di 12 Euro l’ora.”
“Ma come 12 Euro l’ora? Ma chi si può permettere di pagare 12 Euro l’ora?”
“Non è che si può, si deve. È un grande Paese.”
“Io alla mia donna delle pulizie ne do 8 perché me li ha chiesti lei…”
“Con che contratto?”
“Senza contratto”
“E mi sa che tu non sei un grande Paese…”.

Sipario.

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