L’equivoco di Biancaneve: perché continuiamo a caderci

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Dobbiamo proprio parlare del live action di Biancaneve? Sì, dobbiamo parlarne. E non è facile scegliere da quale dei tanti angoli possibili accostarsi a questo dibattito, che è solo una delle mille facce di una malattia autoimmune che infuria per lo più indisturbata nel corpo intero della società – e in particolare di quella che, con un’imperdonabile generalizzazione – potremmo chiamare “la sinistra”. Una malattia che ha radici talmente profonde e ramificate che dubito di riuscire a esplorarle tutte in un solo articolo, a meno di non voler uscire a fascicoli come un’enciclopedia degli anni ’80.

Dal momento che non so da dove cominciare, cominciamo dai fatti. E anche quelli rischiano di essere difficili da scoprire, in un contesto in cui i tabloid si aggiudicano i primi posti sui motori di ricerca con titoli che gridano al parossismo della “woke culture” e a come questa generazione di delicatissimi fiocchi di neve non riesca più a sopportare neppure una innocente favola per bambini senza doverla stravolgere, per saziare la propria isterica necessità di contenuti che siano “sanificati” e dai quali sia stato espunto qualsiasi aspetto anche solo vagamente controverso. Perché è giusto dire che gli isterici fiocchi di neve sono quelli che vogliono andare a vedere un film al cinema, mica quelli che si fanno prendere da un travaso di bile e si rotolano sui cocci perché al cinema è uscito un film che forse non è pensato per loro e potrebbe non esser loro gradito.

I fatti, dicevamo. Nel 2024 uscirà l’ennesimo remake “live action”, ovvero la produzione con cast umano di un classico della Disney: Biancaneve. Il regista è Marc Webb, la sceneggiatura è di Greta Gerwig (che ha anche scritto e diretto il film di Barbie) ed Erin Cressida Wilson. E perché questo film sta facendo gridare alla “deriva del politicamente corretto” e al “signora mia, nemmeno le favole lasciano in pace”? Per più motivi, che andrò a elencare in ordine sparso perché, per quanto mi sforzi, non riesco a individuarne uno che abbia causato più polverone degli altri.

Non ci sono i sette nani

Quando si iniziò a parlare del film, nel 2022, l’attore Peter Dinklage, noto per il suo ruolo come Tyrion Lannister in Game of Thrones e per essersi sempre rifiutato di interpretare parti da “nano” tradizionali (fra i quali proprio i nani di Biancaneve), criticò la produzione perché, nonostante la scelta progressista di affidare a un’attrice latina il ruolo di Biancaneve, la storia prevedeva ancora la presenza dei nani che vivono insieme in una capanna o in una caverna. All’epoca, Dinklage definì “retrogrado” questo approccio, ottenendo il plauso di una parte della comunità delle persone con nanismo, in particolare da parte dei suoi colleghi, ma anche lo sdegno di un’altra parte della medesima comunità di attori, che lo accusavano di parlare solo a titolo personale e di rischiare di far perdere ad alcuni di loro i già pochi ruoli disponibili.

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Peter Dinklage.
Foto: Gage Skidmore from Peoria, AZ, United States of America, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons

A seguito di questa controversia, la produzione dichiarò di essersi consultata con alcuni esponenti della comunità in questione, e, dopo un primo tentativo di negare una “fuga” di foto dal set, confermò che i sette nani erano stati sostituiti da sette personaggi magici, interpretati da attori e attrici dalle fisicità ed etnie diverse (solo uno dei quali sarebbe di piccola statura). La decisione si ricollegherebbe anche al fatto che i nani del folklore tedesco e nordico non sarebbero da intendersi nell’accezione corrente del termine, ma come personaggi mitologici e soprannaturali.

BIANCAneve non è abbastanza bianca

L’attrice Rachel Zegler è di origine latina per parte di madre. E anche di origine polacca per parte di padre, ma, ai fini delle critiche al film, questa parte del suo dna non sembra particolarmente importante. E, nonostante i capelli scuri e le labbra rosse della Biancaneve “originale” non le manchino, si è deciso che ha decisamente troppa melanina per questo ruolo, e che i tratti colombiani di sua madre sono evidentemente troppo evidenti rispetto a quelli polacchi di suo padre. O meglio, sono tratti che vanno benissimo per West Side Story, ma certo non per Biancaneve. Vi sentite a disagio a vedere le cose in questi termini? Bene, anche io, mica mi vorrete lasciare da sola a macerare nell’imbarazzo.

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Rachel Zegler, che interpreterà Biancaneve, alla prima del film “Shazam! Fury of the Gods” a Leicester Square a Londra
Foto: EPA-EFE/ANDY RAIN

La principessa si salva da sola

Su questo dettaglio si sa poco, se non il fatto che il protagonista maschile principale, interpretato dall’attore teatrale Andrew Burnap, non sarà il principe, ma un personaggio nuovo, di nome Jonathan. Qualsiasi siano i guai nei quali la nuova Biancaneve si troverà, starà quindi a lei tirarsene fuori.

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Andrew Burnap
Foto: Ibweh, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Fenomenologia dello sdegno e del successo commerciale

Ora, se io volessi farmi fare chilometri di articoli di promozione gratuita dal Daily Mail, farei esattamente questo tipo di film. Perché è cosa nota che media e testate come il Daily Mail, Fox News, Das Bild e gli equivalenti italiani e nel resto del mondo siano pensati per tre categorie di utenti:
1) I boomer, ormai terrorizzati dal sentirsi irrilevanti in un mondo che hanno smesso di capire e che ritrovano un senso di appartenenza nel consumare contenuti che condannano tutto ciò che non esisteva quando loro erano nel fiore degli anni (ci finiremo quasi tutti così, è inutile che facciate i superiori solo perché siete ancora degli imberbi adolescenti di 47 anni).
2) Gli estremisti di destra poco scolarizzati, perché quelli molto scolarizzati non si farebbero mai vedere mentre leggono il Daily Mail (ma metteranno comunque like sotto i video di Piers Morgan, anche se sul comodino tengono un libro mai aperto di Ezra Pound)
3) Quelli che vogliono solo saperne di più sugli scandali sessuali delle celebrità.

Un film come questo, esattamente come è successo con il live action de La Sirenetta, grazie a questi media, può godere di un picco di sdegno che polarizza il pubblico e fa esplodere le menzioni sui social, in modo tale che TUTTI quelli che non si vogliono riconoscere in queste tre categorie si precipiteranno al cinema, solo per dar torto a quegli altri, a vedere un film che a questo punto non ha pure più bisogno di essere bello, perché il successo commerciale l’ha già ottenuto. Disney, dopo tutto, ha fatto il primo esperimento proprio con La Sirenetta, raccogliendo nel primo mese circa 414 milioni di Dollari al botteghino: niente male per un film che conta soprattutto su un pubblico di bambini, che quindi in molti cinema pagano il biglietto ridotto.

La Disney non è buona né cattiva, la Disney è efficiente

Questa considerazione la inserisco per fugare un dubbio: io non penso che la Disney abbia intrinsecamente a cuore l’idea di creare un mondo più inclusivo. Questo perché la Disney non è una persona e quindi non ha un “cuore”, ma è un colosso della propria industria e quindi ha un bilancio. La politica dei live action inclusivi ha funzionato e quindi le produzioni continueranno in tal senso. Se a funzionare fosse stata una ucronia che raccontava quanto i grandi dittatori della storia in realtà fossero anime belle e sensibili, ora la Disney starebbe facendo un film su Pol Pot che salva gattini abbandonati.

Stock foto di sirenetta. Perché nessuna intelligenza artificiale è riuscita a produrre un’immagine soddisfacente di Pol Pot che salva gattini abbandonati

La fedeltà agli “originali”

Questo editoriale non vuole essere una critica cinematografica, prima di tutto perché il film non è ancora uscito e quindi è impossibile giudicarne la qualità e poi perché non mi interessa minimamente commentare la qualità dei film della Disney, ma mi interessa la forma che la società nella quale vivo sta assumendo.

E, se fosse strettamente vero quanto ho detto sopra sui lettori dei media conservatori che gridano al “politicamente corretto”, la mia preoccupazione non dovrebbe essere particolarmente grave, dal momento che, nella mia “bolla”, fra le persone con le quali interagisco, nessuno legge quelle testate né i loro equivalenti. Eppure non è così. Fra i miei coetanei “affini”, fra quelli che sono cresciuti andando alle feste dell’unità e ai concerti di rock alternativo, fra quelli che a scuola erano gli “esclusi” dal gruppo dei “fighi”, che non andavano in chiesa, che non votavano a destra e che hanno festeggiato per la legge sulle unioni civili, si fa sentire tonante un non piccolo gruppo di critici che dicono “la misura è colma, così è troppo, adesso stanno esagerando”.

E io mi chiedo, quale misura? E troppo rispetto a cosa? E chi sono “loro”, che stanno esagerando? E qui casca l’asino, il gallo, il gatto e tutti i musicanti di Brema, visto che parliamo di favole tedesche. La motivazione che viene addotta più frequentemente a difesa di questa posizione è che la versione filmica non rispetta “l’originale”, laddove solitamente le persone intendono per originale non la fiaba, ma il primo film animato della Disney, che sia del 1937, come Biancaneve, o del 1989, come La Sirenetta.

E a questo punto, la prima ovvia obiezione è che né all’uscita dei film “originali” né dopo, si sono registrate critiche per la mancanza di fedeltà all’originale letterario. Per esempio, la Sirenetta, che si ritiene essere una metafora dell’allora inconcepibile amore omosessuale, alla fine della fiaba muore, trasformandosi in schiuma di mare. Di Biancaneve esistono diverse varianti: nella prima pubblicata dai Grimm, la regina viene obbligata a morire in modo orribile, indossando un paio di scarpe roventi e ballando fino a cadere morta. In un’altra, che curiosamente fu scelta come più adatta a un pubblico di bambini, quando negli anni ’80 furono pubblicati i Racconta Storie della De Agostini, il principe inizialmente, vedendo Biancaneve nella sua bara di cristallo non chiede ai nani di poterla baciare (che già è una richiesta bizzarra da fare al funerale di una sconosciuta, specie se appena adolescente). Chiede invece di poterla “portare con sé”, richiesta che perfino i nani trovano un po’ sopra le righe, rispondendo quindi che proprio portarsela via non si può, ma che se vuole una pomiciata rapida gliela possono concedere. Cosa ci volesse fare questo tizio con il cadavere di una quindicenne mai vista prima, non è dato sapere.

Nel caso aveste in mente di tentare questa obiezione, comunque, non scomodatevi: non serve a niente. Perché la risposta sarà, a grandi linee “per me l’originale è quello con cui sono cresciuto/a e non mi va che venga stravolto, perché non fanno un altro film, invece di cambiare questo?” Seguita da un “io non sono razzista, ma si sta esagerando con questo politicamente corretto. Biancaneve è bianca, c’è scritto anche nel nome” (dice l’italiano medio, di quattro toni più scuro di Rachel Zegler). Se ne fa, quindi, una questione di accuratezza non dico storico-scientifica (visto che parliamo di fiabe e voglio presumere che i componenti della mia bolla non siano inappellabilmente idioti), ma di fedeltà a una particolare versione del testo alla quale abbiamo scelto di attribuire un valore superiore a tutte le altre, perché è quella che abbiamo esperito per prima in un momento in cui eravamo suggestionabili e che quindi sentiamo più “nostra”. Specialmente se a cambiare sono tratti del personaggio con il quale ci siamo identificati.

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Un Amleto al femminile. Così, solo per dare fastidio.

Io, però, con questo fanatismo per l’ortodossia dei classici, che si tratti di capolavori letterari o di cartoni animati, ho sempre avuto un problema. In questo caso ne ho due.

Il primo è che i classici sono grandi, grossi e vaccinati e se ne fregano delle nostre interpretazioni. Ho visto produzioni di grandi classici dell’opera che erano una tale corsa al “famolo strano” che, a togliere il sonoro, sarebbe stato impossibile capire se si trattasse del Trovatore o di “2001, Odissea nello Spazio”, eppure sono abbastanza sicura che il corpus delle opere di Verdi non ne abbia sofferto. I classici esistono per quello, perché le storie che raccontiamo, come società umana, possano servirci come materiale da rimaneggiare, reinventare, integrare. Siamo, come si diceva un tempo in altri contesti, nani sulle spalle dei giganti e, se possiamo gioiosamente rimaneggiare Shakespeare (d’altra parte, West Side Story è un “remake” di Romeo e Giulietta, esattamente come Il Re Leone lo è dell’Amleto), a maggior ragione possiamo rimaneggiare il rimaneggiamento di un rimaneggiamento.

Sospetto che tutti siamo perfettamente consapevoli del fatto che nessuno ci impedirà mai di andare a recuperare i film con i quali siamo cresciuti e rivederli con piacere, cantando tutte le canzoni. E siamo anche consapevoli che non ci sia contraddizione fra l’apprezzare quel capolavoro dell’animazione che era Biancaneve del ’37 e l’essere consci che le bambine addormentate non dovrebbero trovarsi in gola la lingua di adulti sconosciuti e anche che le donne sono perfettamente in grado di badare a se stesse senza stare ad aspettare il principe.

Neil Gaiman
Neil Gaiman ha scritto una splendida versione MOLTO modificata di Biancaneve.
Foto: Kyle Cassidy, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

Il mio secondo problema è che non tutti i rimaneggiamenti sono uguali. Per esempio, nel 1994 Neil Gaiman scrisse una meravigliosa versione alternativa per adulti di Biancaneve, dal titolo “Snow, Glass, Apples”, nella quale la “buona” della storia è la regina, che cerca di difendere il re suo marito e il regno tutto dall’influsso nefasto di Biancaneve. La figlia del re, infatti, fin da piccolissima, si rivela essere un vampiro. La storia è scritta meravigliosamente ed è, come buona parte della produzione di Gaiman, estremamente cupa e prevede morte, tortura, abuso dei più deboli, incesto, pedofilia e il dominio di una creatura delle tenebre (Biancaneve) che instaura un regime di terrore. Diversi anni dopo, nel 2015, sempre Gaiman pubblicò la meravigliosa graphic novel “The Sleeper and the Spindle”, con le illustrazioni di Chris Riddell, che era una versione reimmaginata della Bella Addormentata nel Bosco. Nella versione di Gaiman, non solo a salvare la bella addormentata non era un principe, ma una regina-cavaliera che aveva scoperto di preferire la battaglia alla ricerca di un marito, ma la bella addormentata era in realtà una perfida strega, che aveva preso il corpo di una bellissima giovane e, immersa in un sonno magico, comandava dal mondo dei sogni un esercito mostruoso che tormentava il regno.

Entrambe le opere sono state adorate dai fan di Gaiman e ignorate da quelli a cui Gaiman non piace, come è normale che sia. Non si è sentito, tuttavia, gridare alla follia del politicamente corretto solo perché la Bella Addormentata viene salvata da una regina lesbica. Ma, si potrebbe obiettare, Gaiman è – o almeno era fino a pochi anni fa – un autore relativamente di culto e di nicchia, le cui opere non hanno mai raggiunto un pubblico “mainstream” quanto quello di un film della Disney. Però, a onor del vero, non mi risulta che qualcuno si sia strappato i capelli quando Tim Burton ha stravolto completamente Alice Nel Paese delle Meraviglie. Chi non ha amato il film, come me, si è limitato a notare che un regista dalla forte personalità, come Tim Burton, non può che filtrare le storie attraverso il suo modo di fare cinema e quindi produrre, inevitabilmente, la sua versione, che nulla toglie al libro di Carroll o al film Disney del 1951.


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Due pesi e un’infinità di misure

Che cosa hanno in comune le versioni di Gaiman e quella di Burton? Che Gaiman e Burton sono bianchi? Volendo sì, ma anche Marc Webb lo è, così come le due sceneggiatrici. Nel caso di Gaiman e Burton, sono bianchi e fisicamente conformi anche tutti i personaggi. E Biancaneve e la Sirenetta hanno attirato critiche anche o prima di tutto per l’etnia delle protagoniste e, nel caso di Biancaneve, per il rifiuto di riproporre la figura del nano come “aiutante” di un personaggio di statura media.

Biancaneve

Ed è qui che ci si incastra sul concetto di “non sono razzista ma”. Perché, se il problema è proprio che ad alcune persone non va giù il fatto che l’attrice che interpreta un ruolo abbia uno specifico colore di pelle e questo giudizio viene espresso prima ancora di decidere se l’attrice è brava o meno, è veramente difficile difendere la tesi del non-razzismo. Eppure, penso, considerando quanto so delle persone che si sono espresse in questo modo, la maggior parte di loro non mi si è mai palesata come razzista. Almeno credo. Essendo una persona bianca e dal corpo conforme, potrei tranquillamente essere stata cieca alle manifestazioni di razzismo o abilismo “di base”, quel razzismo e abilismo che sono talmente insiti nella società in cui cresciamo che, rispetto alla media, non li percepiamo mai nemmeno come tali. Faccio fatica a identificarli in me stessa, figuriamoci nel prossimo.

E siccome non posso parlare per chi subisce micro-aggressioni razziali o abiliste tutti i giorni della sua vita, quello che posso fare è cercare di capire come pensano tutti gli individui nella mia bolla, che con me hanno in comune il fatto di essere bianchi, millennial/generazione x, able-bodied e collocati più o meno a sinistra. Il problema, sostengono molti, è che “lo fanno apposta”. Ma lo fanno apposta chi? Gil attori a essere neri e a fare casting per personaggi non-fatti-apposta-per-essere-neri? I nani a non voler interpretare solo Pisolo e gli elfi di Babbo Natale? Le produzioni a fare film di questo genere, così che se ne parli tantissimo prima ancora dell’uscita? Le minoranze a essere contente se vengono rappresentate al cinema? Chiunque siano, loro “Lo fanno apposta”.

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In parte l’ho detto anche io: la Disney ha messo in produzione questo film perché la Sirenetta ha funzionato. Se fosse stato un flop, non lo avrebbe fatto. Il punto, però, è che la rappresentazione conta. Un mondo in cui ogni bambino o bambina, fin dall’infanzia, sa che un personaggio delle fiabe può somigliare a lui o a lei conta. Un mondo in cui tutti i bambini si possono identificare con tutti i personaggi conta.

Io sono cresciuta vedendo e leggendo favole in cui le donne stavano ferme, con l’unico dovere di essere belle, ad aspettare di essere tirate fuori dai casini da un maschio. I maschi facevano tutte le cose divertenti: lottavano coi draghi, andavano a cavallo, scalavano le torri. Le femmine, al massimo, si pettinavano. Io mi sono sempre identificata solo coi maschi, in questi contesti, e nessuno mi ha mai detto di non farlo, perché sono stata molto fortunata. E anche perché le bambine che ambivano a fare “cose da maschio”, a meno di non essere cresciute da famiglie molto molto conservatrici, erano bollate bonariamente come “maschiacci”, ma sotto sotto considerate intraprendenti. Per i bambini che si identificavano con le principesse, la situazione era più complicata.

Allo stesso modo, si è sempre detto che i personaggi sono universali e che, quindi, se un personaggio è interpretato da un attore bianco è perché quell’attore si è aggiudicato il ruolo essendo il più bravo fra i contendenti, ma certo questo non impedisce a persone di qualsiasi etnia di identificarsi con quel personaggio. I guai cominciano quando si chiede a un pubblico bianco di identificarsi con personaggi interpretati da attori non bianchi. O a un pubblico di persone etero e cis di identificarsi con un personaggio queer. O a un pubblico able-bodied di identificarsi con un personaggio disabile. In quel caso, la tesi secondo cui il ruolo deve andare all’attore che si dimostra più bravo non la prendiamo nemmeno in considerazione. No, i personaggi non sono universali, i personaggi ci raccontano dove siamo e dove abbiamo diritto di stare, nella scala della società.

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I social, i media e il contesto

Negli anni ’70, i membri di una famiglia in cui si leggeva Il Manifesto non avrebbero mai ripetuto le opinioni espresse da un giornalista de L’Avvenire o del Secolo d’Italia e viceversa. Questo perché si sapeva l’origine dell’opinione che si aveva davanti e si considerava la scelta di stare da una parte o dall’altra di una certa ideologia. I media online e i social hanno sfumato questi confini, per cui ci si trova sempre più spesso davanti a opinioni o versioni editate dei fatti, senza però sapere da quale gruppo tali opinioni siano partite e quali interessi rappresentino.

Bene, dirà qualcuno: abbiamo raggiunto la fine del pregiudizio! E invece no, abbiamo raggiunto l’apice della propaganda. Questo perché basta saper infiocchettare un minimo un’argomentazione, parlando senza remore alla pancia invece che al cervello di chi ascolta, magari convenientemente omettendo qualche fatto, per riuscire a diffondere concetti che possono perpeturare sistemi oppressivi e violenti, superando la barriera dell’ideologia.

Questo perché, se io permetto al mio interlocutore di sapere da che parte sto, gli sto implicitamente riconoscendo il diritto di schierarsi da un’altra parte. Se però presento le mie affermazioni, decontestualizzate (e magari rapide da leggere, non come questo mattone di editoriale) come “buon senso”, lanciando l’allarme per una qualche “follia” che si dirige a grandi passi verso il mio lettore per scombinargli l’esistenza, allora nego la possibilità del dissenso. Se io sono il buon senso, l’opposto a me è l’irragionevolezza. Se io sono l’equilibrio, l’altro è il caos. Se io sono imparziale, l’altro è partigiano.

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Attenzione: segue simulazione delle profonde paure di quelli che credevano di essere liberali e invece erano solo poveri. Leggere responsabilmente.

Ed è per questo che funziona. Perché, in questo modo, le idee più retrive, razziste, discriminatorie che non si sarebbe mai riusciti a far ingurgitare a un pubblico di sinistra negli anni ’90, oggi fanno breccia in quello stesso pubblico, su siti che non si chiamano “Bollettino delle notizie degli estremisti di destra”, ma “genericositodinotizie.com”, perché ci arrivano travestite da paura. E la paura, si sa, funziona.

E quando le minoranze parlano di rappresentazione in termini di privilegio, facendo notare che “se per una volta su diecimila qualcuno che mi somiglia fa il protagonista di un classico forse non muore nessuno” dalla mia bolla rispondono, “ma quale privilegio? A me nessuno ha mai regalato niente!” o magari “non ho un lavoro e non prendo il sussidio” oppure “mi sfruttano e non ho una lira”. E lì ci si accorge che un sacco dei nostri amici pensavano di essere liberali e invece erano solo poveri.

Il problema non era considerare sbagliato il sistema dell’oppressione in quanto tale, il problema era che, accidenti, io volevo nascere dalla parte “più giusta” di questo sistema e non è stato così. Io non volevo nascere solo dalla parte di quelli che non vengono trattati da criminali per il colore della pelle, non volevo nascere solo dalla parte di quelli che si sono sempre potuti accoppiare con la persona che amavano, non volevo nascere solo dalla parte di quelli senza disabilità e senza problemi con il genere assegnato alla nascita, io volevo nascere ANCHE dalla parte di quelli con i soldi.

Il problema è che, siccome non ho tutti i privilegi, allora non ne ho nessuno. E chi ne ha ancora meno di me non deve farmelo notare, perché se non posso aggrapparmi alla categoria narrativa del ribelle e dell’underdog rischio di trovarmi senza identità, mica come voi che, alla fine, potete sempre costruirvene una sul fatto di essere neri/queer/disabili.

E quel poco che avevo, quella gioia dei ricordi d’infanzia, quando i film venivano fatti per me, specificamente per me, perché io, proprio io mi ci potessi identificare, ora volete portarmela via. Ora i film non li fanno più solo per me, come un tempo. Li fanno per quelli che hanno un colore diverso dal mio, un orientamento, un’identità diversa dalla mia. Accidenti a voi, ma non potevate continuare a identificarvi con le cose che facevano sentire bene prima me? Mo pure le produzioni di Hollywood le devono fare per voi? Prima, almeno per il cinema, io mi sentivo il centro del mondo. E adesso non lo sono più. E quindi, forse, non conto più niente, senza essere arrivato mai a contare qualcosa.
Aiuto.

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