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Il “lato oscuro” di un Primo Levi inedito nel saggio di Elisa Occhipinti

Elisa Occhipinti, nata a Torino nel 1988, vive in Germania da quasi dieci anni. È laureata in Comparatistica e Italianistica e lavora presso la cattedra di Letteratura italiana della Ruhr-Universität Bochum. Si occupa di libri sul sito Il Club del Libro e ne ha scritti due: il romanzo E lucevan le stelle (Miraggi, 2018) e il saggio Primo Levi e la coscienza poetica (divergenze, 2021). È stata tra le protagoniste del libro “Un Urlo ci salverà – 10 storie da urlo di italiane in Germania” e in questa veste è intervenuta anche nella live di presentazione condotta da Lucia Conti (che potete recuperare qui).

L’abbiamo intervistata proprio a proposito del suo saggio su Primo Levi, che intende fornire un’immagine dell’autore, inedita e a tutto tondo, attraverso la sua produzione poetica, purtroppo sconosciuta ai più e a lungo trascurata dalla critica. Occhipinti indaga in il legame tra prosa e poesia e in particolare in che modo, da un lato, la poesia introduce, anticipa e integra i contenuti della Trilogia della Shoah, mentre dall’altro, se ne discosta. Prosa e poesia sono in ogni caso “complementari e indivisibili, se si vuole comprendere appieno l’esperienza concentrazionaria leviana”. Primo Levi e la coscienza poetica contiene anche un saggio di Demetrio Paolin a titolo “Il canto di Ulisse: una lettura da vicino”.

Elisa Occhipinti, autrice del saggio “Primo Levi e la coscienza poetica”

Secondo Pepe, la poesia di Primo Levi dà voce al suo lato oscuro e anche tu, nel tuo saggio, ne parli. Ci spieghi meglio di cosa parliamo? Che caratteristiche ha questa oscurità?

Levi, appena rientrato a Torino da Auschwitz, non iniziò subito la stesura di “Se questo è un uomo”, ma scrisse alcune poesie “concise e sanguinose”, come lui stesso le definì, per provare a elaborare “a caldo”, in qualche modo, la sua esperienza.

Alla poesia Levi ha affidato la sua “zona d’ombra”: la poesia era per lui una spinta umana e irrazionale, nella quale non si riconosceva del tutto, nonostante scrivesse anche poesie, e che proprio per questo gli permetteva di dismettere i panni del chimico razionale, del prosatore pacato ed essenziale, per nulla incline all’odio e alla vendetta. L’attitudine di Levi è, nelle poesie su Auschwitz, molto diversa, delle volte opposta. Credo che questo sia proprio il punto fondamentale, che dovrebbe farci leggere la poesia di Levi al di là delle sue qualità estetiche e di ciò che ha ancora da dire: la poesia precede e integra la prosa e, al contempo, se ne discosta talmente tanto che leggere l’una o l’altra non ci restituisce un’immagine fedele, a tutto tondo, di questo grandissimo autore, e grandissimo uomo, con tutte le sue umanissime contraddizioni.

“La nostra guerra non è mai finita” dice Levi, duro e definitivo. Parla come poeta o partigiano?

Come dicevo poc’anzi, Levi non parla mai come poeta perché non si riconosce come tale: la poesia per lui non è che una spinta, un mezzo per comunicare in maniera più immediata ciò che gli brucia dentro. I destini dei partigiani sono stati molto diversi: c’è chi è morto, c’è chi è vivo e racconta le proprie presunte prodezze ai nipoti, altri ancora “rosicchiano la pensione dell’INPS”. L’invito di Levi nella poesia Partigia è: “Ritroviamoci”, poiché di partigiani c’è ancora e più che mai bisogno. Chi è stato partigiano, lo resterà sempre – e chi ha vissuto il dramma della Seconda guerra mondiale non potrà mai considerarla come una esperienza conclusa e relegata nel passato.

primo levi

Quando Levi parla dell’”esercito dei morti invano” a chi si riferisce?

L’esercito dei morti invano accoglie le vittime della mostruosità dell’uomo. Accanto a quelle dalla Seconda guerra mondiale, si schierano quelle dei decenni successivi, in un’immaginaria linea temporale e ampliando sempre più la prospettiva al mondo intero. Viene citato il lager di Treblinka ma anche la strage di Montecassino, i desaparecidos argentini, le vittime della Cambogia di Pol Pot e quelle della strage di Bologna. Tutti morti invano, perché l’uomo non intende imparare dalla storia.

La struggente “25 febbraio 1944” è dedicata a Vanda Maestro, donna amata da Levi e morta a Birkenau, nell’autunno del 1944. Puoi raccontarci questa interazione e questo amore?

Levi si laurea nel 1941, nonostante le leggi razziali, e trova un impiego a Milano. Qui conosce e frequenta un gruppo di giovani ebrei torinesi, tra cui Vanda Maestro, con il quale trascorre il tempo libero e insieme al quale prende contatto con gruppi antifascisti.

Dopo l’armistizio il gruppo si unisce a una banda partigiana in Val d’Aosta, che dopo due mesi verrà catturata e i suoi membri deportati. Levi, forse per il suo pudore tutto sabaudo, forse per questo ennesimo dolore indicibile, non scrisse né parlo molto di lei: vi è un accenno, senza chiamarla per nome, in Se questo è un uomo poiché è insieme e accanto a lei che Levi compie il viaggio di oltre tre giorni verso Auschwitz. In La tregua, racconta di essere venuto a conoscenza della sua morte. Che Primo la avesse molto amata, lo ha confermato anche Luciana Nissim, amica di Vanda prima e durante il lager. La poesia che Levi ha dedicato a Vanda ha come titolo la data del loro ingresso ad Auschwitz, la data quindi del loro addio, perché uomini e donne furono separati, ed esprime, in pochi versi, tutto il lacerante rimpianto di non aver potuto “ancora una volta insieme/Camminare liberi sotto il sole”.

Primo Levi, Monozigote, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Nella fase finale della sua produzione, le liriche di Levi riflettono una crescente stanchezza, che molti vedono come una dimostrazione delle tesi che lo vorrebbero morto suicida. Al di là della verità, che non sapremo mai, come commenteresti l’espressione “Siamo invincibili perché siamo i vinti. Invulnerabili perché già spenti”? Le vittime di Auschwitz sono forse anche quelle che sono rimaste in vita?

Il senso di colpa per essere sopravvissuto è il tema centrale nell’ultima produzione poetica di Levi: perché lui sì e milioni di altri no? Levi ha sostenuto a più riprese, non solo in poesia, che sono stati i peggiori ad essere sopravvissuti. Proprio per questo i “salvati” sembrano vivi ma la loro anima è morta. Sono “spenti” perché solamente loro sanno che cosa hanno visto e vissuto, che cosa sono stati disposti a fare pur di garantire la propria sopravvivenza. Sono “vinti” perché sopraffatti dalla vita che sono riusciti a non perdere. In questo senso le vittime di Auschwitz sono senz’altro anche quelle rimaste in vita, tanto che moltissime non sono mai riuscite a superare il trauma di un’esperienza simile, compreso Primo Levi.

Nel tuo saggio parli della Risiera di San Sabba, un campo di concentramento tutto italiano di cui pochissimi parlano. E rifletti anche sul famoso mito degli “italiani brava gente”. Che riflessioni puoi fare su entrambi gli argomenti? Cosa siamo stati, durante la Seconda guerra mondiale?

Siamo stati in grandissima parte fascisti, che fosse per reale convinzione o per comodo, e no, Mussolini non ha fatto “anche cose buone”. Tendiamo a minimizzare affibbiando molte responsabilità ai nazisti nostri alleati, o a enfatizzare la solidarietà della popolazione italiana nei confronti degli ebrei. Viaggiamo sul “treno della memoria” fino in Polonia, ma poi non abbiamo nemmeno idea che nei pressi di Trieste c’era un campo di concentramento e sterminio gestito da SS e milizie fasciste.

È vero che gli ebrei, fino all’8 settembre 1943, furono perseguitati solamente a livello dei diritti ed è vero che, dopo questa data, furono deportati solamente il 16% degli ebrei italiani. Ma questi “solamente” sono, in realtà, fatti comunque enormi e con cui la storiografia italiana del dopoguerra avrebbe dovuto fare i conti in maniera onesta, con cui gli italiani si sarebbero dovuti confrontare in maniera più seria. Oggi, invece, l’Osservatorio Antisemitismo rileva, tra l’altro, la normalizzazione dell’antisemitismo ed echi della propaganda nazifascista nel messaggio politico attuale: basta fare un salto al presente, insomma, per capire quanto il fascismo sia ancora radicato, pericoloso in ogni sua più becera manifestazione e lungi dall’essere estirpato.

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