di Lucia Conti
Chantal Meloni è professoressa associata di diritto penale internazionale alle Statale di Milano e consulente dello European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR) dal 2015. Ha lavorato come assistente legale dei giudici della Corte penale internazionale dell’Aia e si occupa di crimini di guerra e violazione dei diritti umani. Interverrà nella conferenza “The Kill Cloud” del Disruption Network Lab il 26 marzo, nell’ambito del panel “Beyond Human Control: The impact of the Drone War on Civilians”.
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“The Kill Cloud”: si parla di guerra e droni nella conferenza del Disruption Network Lab
Chantal Meloni, sta per partecipare alla conferenza “The Kill Cloud” del Disruption Network Lab. Si parlerà di guerra dei droni e di deumanizzazione indotta dalle moderne tecniche belliche. Quale sarà il suo contributo specifico?
In particolare mi concentrerò sugli aspetti giuridici di questa guerra dei droni. La mia prospettiva è quella della giustizia penale internazionale e quindi il tentativo di portare gli omicidi extragiudiziali eseguiti dai droni davanti alle corti, in modo da avere giustizia per le vittime. Con Tatiana Bazzichelli già nel 2015 facemmo una prima conferenza su questo tema, tra l’altro si trattava della prima conferenza del Disruption Network Lab.
Abbiamo quindi avuto l’idea di riprendere in mano il discorso, a otto anni di distanza, per vedere quali siano state nel frattempo le novità, i cambiamenti, i successi e i fallimenti legati alle azioni intraprese in questi anni. Del resto, nel frattempo è cambiata anche la guerra e quindi è necessario capire su cosa ci stiamo concentrando noi, in quanto difensori dei diritti umani e giuristi.
Ecco, parliamo proprio del suo ruolo. Lei è una giurista esperta in diritti umani e responsabilità in caso di crimini di guerra. Un ambito estremamente specifico e difficile. Quali sono stati i momenti in cui si è sentita più abbattuta e quali quelli in cui ha pensato di poter fare la differenza?
Una domanda interessante e difficile al tempo stesso. Premetto che ho la fortuna di vivere in Europa, tra l’Italia e la Germania, e di occuparmi di temi che hanno a che fare con la guerra da una prospettiva privilegiata e sicura. Lo dico perché il mio tipo di sconforto e i miei eventuali fallimenti non hanno niente a che fare con quelli dei difensori dei diritti umani che si trovano in quei Paesi che sono invece nell’occhio del ciclone. Per me, il momento forse più importante per realizzare il tipo di lavoro che volevo fare è stato nel 2010, qando sono andata in Palestina a vivere per un periodo nella Striscia di Gaza, a Gaza City. Lì ho iniziato una collaborazione, come esperta internazionale, con il Palestinian Centre for Human Rights.
Sono andata lì immediatamente dopo l’operazione “Piombo fuso”, che aveva distrutto la Striscia di Gaza. Dopo quell’operazione, avvenuta nel 2009, ce ne sono state altre tre, altrettante distruttive, di cui l’ultima nel 2021. Quello è stato però anche un momento di grandissima presa di coscienza, a livello internazionale, rispetto a quello che stava avvenendo. Come giurista che si occupava già di diritto penale internazionale e quindi di crimini di guerra e di responsabilità penale internazionale, ho sentito di dovermi avvicinare per capire meglio cosa significasse rappresentare le vittime. E questo mi ha fatto aprire gli occhi. Anche perché mi sono resa conto che la maggior parte dell’informazione che ci arriva non è completa, è di parte.
Una dichiarazione impegnativa, la sua. Ritiene quindi che i media non rappresentino correttamente la realtà di quel conflitto?
Assolutamente sì, se parliamo di media mainstream occidentali. Ci sono delle situazioni, come quella che riguarda la Palestina, che vengono raccontate molto male. E l’ho capito andando lì e vedendo con i miei occhi determinate cose. È difficile farsi un’idea di ciò che davvero succede, da lontano. Del periodo che ho passato a Gaza mi porto sempre dietro una frase del direttore del Palestinian Centre for Human Rights, Raji Sourani. È un avvocato che da più di trent’anni difende le vittime dei crimini israeliani e dice “We don’t have the right to give up”, non abbiamo il diritto di arrenderci. E se loro ritengono di non avere il diritto di arrendersi, tantomeno ce l’abbiamo noi, come semplici consulenti internazionali.
Un’altra cosa che ho capito col tempo, lavorando a stretto contatto con avvocati palestinesi, ma anche con avvocati siriani che si occupano di situazioni drammatiche di fronte alle quali si potrebbe dire “il diritto internazionale non porta a nulla, tiriamo i remi in barca e andiamo a casa”, è che invece il nostro ruolo è importante. E consiste nel fare del nostro meglio per documentare questi crimini, portarli alla conoscenza degli organismi competenti e cercare di far sì che le vittime abbiano una voce e che le indagini facciano il loro corso, magari arrivando, prima o poi, a un processo. Anche se con i tempi purtroppo geologici della giustizia internazionale.
Noi abbiamo l’obbligo di fare la nostra parte al meglio delle nostre possibilità, ma non possiamo assumerci la responsabilità di tutto ciò che non funziona a livello internazionale. Quindi personalmente non mi sento mai così frustrata da pensare che non ne valga la pena. Ne vale la pena e tutto questo lavoro è una forma di resistenza. Utilizzare il diritto porterà i suoi frutti, alla lunga, anche se non li vediamo subito.
Il 2010 è stato un anno cruciale per lei. È andata a Gaza, scoprendo un nuovo modo di vivere la sua professione, e ha ricevuto una borsa di studio dall’Università Humboldt di Berlino per una ricerca intitolata “La protezione del diritto alla vita nei conflitti asimmetrici”. Quali sono i conflitti asimmetrici e che riflessione ha sviluppato?
Le due cose in realtà sono correlate. Il mio soggiorno a Gaza è stato parte del progetto di ricerca con cui ho vinto la borsa di studio e ho potuto trascorrere poi due anni, una volta tornata dalla mia “missione sul campo”, all’università Humboldt di Berlino.
Quando ho parlato di conflitti asimmetrici avevo in mente innanzitutto tutto quello che è rappresentato dalla cosiddetta “War on terror”, la Guerra al terrorismo che gli Stati Uniti stanno combattendo dall’11 settembre. È un conflitto amorfo, difficile da inquadrare nei parametri del diritto internazionale. Certamente non si tratta di un conflitto armato da un punto di vista giuridico e tuttavia viene utilizzata una retorica di guerra, quando si parla delle operazioni compiute dagli Stati Uniti e dai loro alleati, incluse Italia e Germania.
L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, un gravissimo atto di terrorismo internazionale che chiaramente non va minimizzato, ha però innescato una reazione, guidata dagli Stati Uniti e con il supporto dell’Europa, che a sua volta è in violazione del diritto internazionale. Su questa scia, ho iniziato a occuparmi della questione dei cosiddetti targeted killings, gli omicidi mirati di nemici percepiti come una minaccia. E questo mi ha avvicinato allo studio dei droni. Anche se non tutti gli omicidi mirati sono compiuti dai droni e i droni non compiono solo omicidi mirati, c’è però una stretta correlazione tra la proliferazione dei droni armati per fini militari e il ricorso alla tecnica dei targeted killings.
Come spiega questa correlazione? È più facile per uno Stato eliminare in modo extragiudiziale un potenziale nemico, con i droni?
I droni presentano sicuramente numerosi vantaggi militari, non ultimo il fatto che non ci sia più bisogno di essre fisicamente presenti con l’esercito sul territorio. Questo ha reso particolarmente “appetibile” la pratica dell’eliminazione fisica del nemico e ha fatto sì che vi fosse un incremento esponenziale delle eliminazioni attraverso i targeted killings.
La diminuzione del coinvolgimento fisico nella guerra è uno dei temi della conferenza a cui parteciperà. E nel caso dei droni questo aspetto emerge molto. Se sto governando un drone a migliaia di chilometri diventa tutto molto virtuale. Forse posso persino perdere la consapevolezza di uccidere qualcuno…
Sicuramente c’è una componente di questo genere. C’è un bellissimo libro scritto da un autore francese, Grégoire Chamayou, che si intitola “Teoria del Drone. Principi filosofici del diritto di uccidere”. Nel libro si riflette su com’è cambiata la guerra, sul fatto che non ci sia più prossimità fisica dei combattenti e su come questo abbia fatto sì che i soldati che comandano il drone si trovino, secondo alcuni, in una situazione da pseudovideogioco, dove l’uccisione del nemico diventa quasi virtuale.
In realtà altri studi hanno in parte sconfessato questa visione. Alla conferenza del Disruption Network Lab, per esempio, parteciperà anche Brandon Bryant, il primo whistleblower pilota di droni ad essersi autodenunciato e a denunciare l’illegalità di quello che stava avvenendo tramite questo programma. Ebbene, Bryant, ma anche altri, hanno sofferto pesantemente del disturbo da stress post-traumatico.
Prima ha fatto riferimento a un’Europa privilegiata, quando si parla di guerra. Al momento però anche noi abbiamo una guerra nel “cortile di casa”, reale per un Paese, potenziale per altri. Parliamo del conflitto ucraino ed è inevitabile farlo. Che opinione si è fatta, in relazione a quello che è il suo impegno specifico?
L’opinione che mi sono fatta è che mai il diritto internazionle, incluso quello penale, è stato così presente nel vivo di un conflitto armato delle dimensioni di quello in corso. Da subito l’Ucraina si è rivolta agli organismi di giustizia internazionale, si è rivolta alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu, si è rivolta alla Corte penale internazionale, ci sono miriadi di iniziative intraprese, da un capo all’altro del mondo, per reagire utilizzando il diritto. Questo per me è un segno del fatto che, contrariamente a quanto sostengono i suoi detrattori, il diritto internazionale non è affatto morto, né è irrilevante, a prescindere dai problemi che hanno a che fare con la sua difficile esecuzione.
Per intenderci, il fatto che il 16 marzo la Corte internazionale di giustizia abbia ordinato alla Russia di fermare immediatamente l’invasione dell’Ucraina, perché contraria alla Carta delle Nazioni Unite, non va ignorato solo perché la Russia ha già detto che non obbedirà a tale ordine. Va invece visto come il segno di un consenso quasi senza precedenti che si è creato, a livello internazionale, sull’illegalità di questa aggressione e sulla necesità di riaffermare l’ordine giuridico violato. Questo è fondamentale e purtroppo in altri casi non abbiamo visto un consenso altrettanto compatto.
Quando, ad esempio?
Nel 2003 non c’è stata una reazione simile contro l’aggressione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra e quello che vediamo oggi e che è benvenuto rispetto all’Ucraina non l’abbiamo certamente visto in rapporto a Yemen, Siria, Palestina e altri Paesi. Però questo non deve portarci a sminuire o inficiare il fatto che oggi questa reazione ci sia, perché è un risultato incredibilmente positivo. Poi possiamo e dobbiamo riflettere sui double standars nel diritto internazionale e sul fatto che dobbiamo ancora fare grossi passi in avanti, affinché questa giustizia sia davvero universale.
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