John Kiriakou: dalla CIA al carcere per aver denunciato le torture americane. La nostra intervista.
John Kiriakou è uno di quegli uomini che cambiano il mondo. Ognuno di noi può anche non esserne consapevole, mentre attraversa la sua giornata, ma il mondo in cui viviamo, la consapevolezza storica che lo caratterizza, è stato modificato in modo indelebile da questo ex agente della CIA, che per le sue scelte è stato punito dal governo statunitense con quasi tre anni di carcere. Se oggi viviamo in un mondo in cui è nozione comune che gli Stati Uniti torturino i prigionieri, specificamente i prigionieri catturati nel corso di operazioni internazionali che rientrino nell’ambito della lotta al terrorismo.
Nel 2007, John Kiriakou ha rilasciato un’intervista all’emittente americana ABC nella quale dichiarava che al sospettato affiliato di Al Qaeda Abu Zubaydah era stato praticato il waterboarding in un’occasione mentre era prigioniero delle forze americane. In seguito è emerso che la tortura era stata ripetuta non meno di 83 volte. Nel 2012, dopo un’odissea processuale che lo ha portato sull’orlo del collasso economico, Kiriakou è stato condannato e ha scontato la sua pena in un carcere della Pennsylvania. Oggi è un autore, giornalista e attivista, impegnato, fra le altre cose, nella campagna per la riforma del sistema carcerario americano. Il 26 novembre 2021, John Kiriakou è stato a Berlino, per prendere parte alla conferenza Whistleblowing for Change, organizzta dal Disruption Network Lab.
Obama sosteneva di voler chiudere Guantanamo e tuttavia, lei ha definito la sua “un’ossessione nixoniana per le fughe di notizie sulla sicurezza nazionale”, che lo ha portato a usare la legge sullo spionaggio del 1917 per reprimere i whistleblower. Donald Trump sembra aver commesso atti che rientrerebbero a pieno nella definizione di spionaggio. Ha anche dichiarato in un comizio che sarebbe stato felice di sottoporre i terroristi a cose “peggiori del waterboarding”. Finora, qual è la Sua impressione dell’amministrazione Biden a questo proposito?
Penso che l’amministrazione Biden sia più o meno la stessa cosa. All’inizio di ogni presidenza, provo a essere ottimista, ma qui non ci sono proprio le basi. Abbiamo imparato una lezione con Obama. È vero, ha detto che voleva chiudere Guantanamo e penso che all’inizio ci credesse, ma il Congresso gli ha impedito di farlo e lui si ha ceduto. Donald Trump è stato un disastro sotto tutti i punti di vista. E quando ha sostenuto il waterboarding e “anche cose molto peggiori” sono sicuro che fosse sincero. Non ci sono stati molti casi di spionaggio sotto l’amministrazione Biden finora e i pochi che ci sono stati sono casi di vero spionaggio internazionale. Ma Joe Biden è una creazione di Barack Obama. È un presidente della vecchia scuola e aspettarsi qualsiasi cambiamento radicale un democratico che sostiene le stesse posizioni che il suo partito aveva negli anni ’80 o ’90 è chiedere troppo.
Alla base del problema c’è il precedente che ho creato io. Nel mio caso, il giudice ha detto che avrebbe ignorato un precedente stabilito nel caso Tom Drake (Thomas A. Drake, whistleblower dell’NSA, confrontato insieme a John Kiriakou nel documentario “Silenced“, di James Spione N.d.R.), in cui il giudice aveva detto che Tom doveva avere un’intento criminale per essere accusato come whistleblower secondo la legge sullo spionaggio, ed è per questo che tutte le accuse sono state ritirate. Nel mio caso il giudice ha definito lo spionaggio molto semplicemente come il passaggio informazioni sulla difesa nazionale a qualsiasi persona non autorizzata a riceverle.
John Kiriakou, all’evento del Disruption Network Lab “Prisoners of Dissent”
Nella legge statuinetense non c’è una definizione di “informazioni sulla difesa nazionale” e quindi può significare qualsiasi cosa il governo voglia. Così è stato nel mio caso che si è codificato l’uso della legge sullo spionaggio come arma contro i whistleblower. Una delle cose che mi preoccupa di più è che il Dipartimento di Giustizia ha lavorato duramente, dopo la mia sentenza, per rendere ogni sentenza successiva più lunga di quella precedente. Così, io ho avuto 30 mesi, Jeffrey Sterling (whistleblower della CIA N.d.R) ha avuto 42 mesi, Terry Albury (whistleblower dell’FBI N.d.R) ha avuto 45 mesi, Reality Winner (whistleblower arrestata in relazione alla fuga di notizie sulle interferenze di hacker russi nelle elezioni americane del 2016 N.d.R) ha avuto 65 mesi e per Daniel Hale (whistleblower dell’NSA N.d.R) hanno chiesto 14 anni per uno solo dei sei capi d’accusa. Tutto questo va avanti dall’era Obama, passando per quella di Trump, fino all’amministrazione Biden. Un modo lungo per dire che vorrei essere ottimista, ma non lo sono.
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Presumo sia per questo che ha consigliato a Snowden di non tornare…
Sì, ho parlato con Edward Snowden diverse volte. Lui è disposto a tornare, me lo ha detto, è anche disposto ad andare in prigione, a patto di poter spiegare in tribunale e, per estensione, al pubblico, perché ha fatto quello che ha fatto. Gli hanno risposto che non può. E così è ancora bloccato.
Nella Sua intervista originale con Brian Ross, che alla fine Le è costata la libertà, Lei aveva un approccio molto più morbido rispetto a quelle che venivano ancora chiamate eufemisticamente “tecniche di interrogatorio potenziate”. Le riteneva utili, in un certo senso necessarie, credeva che avessero portato all’estrazione di informazioni utili da Abu Zubaydah e tuttavia pensava comunque che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto servirsene, in quanto moralmente inaccettabili. Ora sembra che la Sua opposizione a queste tecniche sia molto più decisa. Cosa Le ha fatto cambiare idea?
A farmi cambiare idea è stato il rapporto dell’ispettore generale della CIA, scritto nel 2005 e pubblicato nel 2009, che ha dimostrato che per tutto il tempo, internamente alla CIA, gli psicologi esterni Mitchell e Jessen stavano mentendo sull’efficacia di quelle tecniche. Ora lo sappiamo perché l’intero rapporto dell’ispettore generale è stato desecretato. Il primo agosto 2002, la CIA ha preso in consegna l’interrogatorio di Abu Zubaydah nella prigione segreta. Da quando lo avevamo consegnato ai carcerieri a fine marzo-inizio aprile 2002, fino ad agosto, era stato interrogato da Ali Soufan dell’FBI. Normalmente, in un’operazione all’estero, la CIA ha la precedenza. Poiché l’11 settembre era un’indagine penale ancora aperta, in quel caso l’FBI aveva la precedenza anche se Abu Zubaydah si trovava all’estero. Questo ha fatto arrabbiare la CIA. La CIA e l’FBI si odiano a vicenda al punto da boicottarsi. E così George Tenet, che era il direttore della CIA all’epoca, andò dal presidente Bush e chiese e ottenne per la CIA la precedenza su Abu Zubaydah.
Nel frattempo, la CIA aveva ottenuto il permesso di attuare il programma di tortura. Così il primo agosto 2002 tutti gli agenti dell’FBI che si trovavano in quel paese (dove era la prigione segreta N.d.R) se ne andarono, per non essere in alcun modo associati al programma di tortura. E la CIA poche ore dopo iniziò a torturare Abu Zubaydah. Fino ad allora, Ali Soufan l’aveva interrogato con successo, aveva stabilito con lui un rapporto, aveva ottenuto che Abu Zubaydah gli desse informazioni reali, utilizzabili, che hanno salvato vite americane, ma poiché la CIA e l’FBI si odiavano così disperatamente, anche i loro sistemi informatici non erano compatibili. Così Ali Soufan stava riportando tutte le informazioni che raccoglieva attraverso i canali dell’FBI.
La CIA iniziò a torturare Abu Zubaydah e lui si chiuse a riccio e smise di parlare. Allora Mitchell e Jessen presero il rapporto di Soufan, lo riscrissero e lo inserirono nei canali della CIA, dicendo al quartier generale che tutte quelle informazioni erano state ottenute con una sola seduta di waterboarding. Questa bugia è durata internamente fino al 2005 ed esternamente fino al 2009. Per una cosa del genere, un ufficiale della CIA sarebbe stato arrestato. Invece Mitchell e Jessen sono stati pagati 108 milioni di dollari per ideare e poi implementare questo programma di tortura e poi, quando è andato male, lo hanno falsificato, rubando informazioni all’FBI.
E non sono stati perseguiti in alcun modo per aver mentito? (Al momento, John Kiriakou è l’unica persona a essere stata formalmente perseguita in relazione a questo caso. N.d.R.)
Assolutamente no. Hanno scritto le loro memorie e sono celebrati come eroi contro l’estremismo islamico.
Lei ha anche menzionato che, in base a ciò che poi è emerso, non si può essere sicuri che Abu Zubaydah fosse un’affiliato di Al Quaeda. Come siete arrivati a questa conclusione?
Joseph Hickman ed io abbiamo scritto un libro su questo nel 2015, chiamato The Convenient Terrorist. Si è scoperto che Abu Zubaydah aveva un cugino di primo grado omonimo, un uomo pericoloso, che si trovava negli USA. L’NSA raccoglieva frammenti di informazioni su di lui. Un momento era negli Stati Uniti e stava pianificando un attacco, poi era in Pakistan e stava creando un rifugio, poi andava in North Carolina, poi era ad Amman, pensavamo che questo Abu Zubaydah fosse una specie di superman del terrorismo, non avevamo idea che ce ne fossero due. L’FBI ha trovato quello nello stato americano del Montana, che immediatamente è scomparso per riapparire ad Amman nel 2005 e poi nessuno lo ha più visto.
Le informazioni che avevamo sull’altro, quello che abbiamo effettivamente catturato, erano che aveva fondato la casa dei martiri, il rifugio di Al Qaeda a Peshawar, in Pakistan, che aveva organizzato i due campi di addestramento nella provincia di Kandahar nell’Afghanistan meridionale e che era un esperto di logistica. Credevamo che, a causa di questa vicinanza con Al Qaeda, lui fosse effettivamente il numero tre, ma si è scoperto che non si era mai neanche unito ad Al Qaeda, non perché non volesse, ma perché gli avevano detto di no, perché era più utile come collaboratore esterno, e quindi non aveva alcuna informazione sui loro piani o sulla posizione di Osama Bin Laden.
Il trailer del documentario “Silenced”, nel quale compaiono John Kiriakou e Tom Drake
Ma ha comunque fornito informazioni utili ad Ali Soufan?
Certo, era molto utile, perché all’epoca, fra il 2001 e il 2002, noi non sapevamo nulla di Al Quaeda, di come erano organizzati. Ali Soufan poteva chiedergli, per esempio “a chi affideresti un’operazione a Dusseldorf?” e lui indicava i collaboratori presenti in città, le loro specialità, come logistica o conoscenza degli esplosivi, i loro indirizzi e le relazioni fra loro. E noi potevamo chiamare i colleghi tedeschi perché loro potessero organizzare un raid negli appartamenti di queste persone. Abu Zubaydah ci ha fornito informazioni sulle cellule di tutto il mondo e soprattutto, ci ha fatto per la prima volta il nome di Khalid Sheikh Mohammed. Noi sapevamo che c’era un pezzo grosso del terrorismo che si faceva chiamare Mukhtar, ma non sapevamo quale fosse il suo vero nome. Era stato lui a progettare l’operazione Bojinka, credo nel 1996 (1995 N.d.R.), dove una mezza dozzina di 747 sarebbero stati dirottati a Manila e fatti schiantare contro edifici della costa occidentale degli Stati Uniti. Abu Zubaydah ci ha aperto una porta su AQ che non avevamo mai avuto prima e siamo stati in grado di catturare Khalid Sheikh Mohammed.
Tutto questo prima che Abu Zubaydah fosse sottoposto al waterboarding
Sì. Abbiamo catturato Khalid Sheikh Mohammed meno di tre settimane dopo che Abu Zubaydah era stato sottoposto al waterboarding, quindi tutte queste informazioni sono state raccolte da Ali Soufan, semplicemente parlando, seduto a un tavolo con una tazza di tè e una coppa di datteri.
Lei ha detto in un’intervista, dopo che le Sue rivelazioni avevano contribuito all’approvazione dell’emendamento McCain-Feinstein contro la tortura, che la cosa peggiore sarebbe stata che il popolo americano non rinsavisse e non si opponesse a queste pratiche. Un sondaggio Reuter/Ipsos del 2016 ha mostrato che circa due terzi degli americani sono a favore della tortura in quella che viene percepita come la guerra contro il terrorismo. Mentre Lei recentemente ha detto che preferirebbe rischiare un altro attacco piuttosto che condonare la negazione dei diritti umani e delle libertà civili. Secondo Lei, questo è un problema specificamente americano?
Credo di sì. Penso che gran parte del resto del mondo sia molto più avanti di noi in materia di diritti umani, diritti civili e libertà civili. Il mio è un problema filosofico. Non mi interessa cosa sostiene il popolo americano, il popolo americano ha bisogno di essere guidato, non di leader che governano in base a quello che dicono i sondaggi. Prima dell’undici settembre, la maggioranza degli americani si opponeva alla tortura dei prigionieri stranieri, catturati in operazioni terroristiche, ma era a favore della loro uccisione. Il che è pazzesco.
Ora la gente è favorevole alla tortura, all’omicidio, agli attacchi coi droni, a Guantanamo. E al tempo stesso ci presentiamo come paladini dei diritti umani e facciamo pressione su tutti gli altri Paesi e li critichiamo nel nostro rapporto annuale sui diritti umani. Per tre anni sono stato l’addetto ai diritti umani per il Dipartimento di Stato in Bahrain e andavo nell’ufficio del ministro degli interni a rimproverarlo e a minacciare di scrivere nel mio rapporto se venivano uccisi dei ragazzi che protestavano per la democrazia. Immaginate il capo della CIA che entra nella stanza subito dopo e dice: “Non date ascolto a quel tizio: noi vogliamo che apriate una prigione segreta, dove potrete torturare i prigionieri per nostro conto e noi non lo diremo a nessuno”. A cosa serve questa immagine degli USA come leader nei diritti umani? Non siamo leader, siamo degli ipocriti.
Direbbe che l’approvazione dell’emendamento McCain-Feinstein ha effettivamente messo fine alla tortura nelle prigioni speciali americane?
Mi duole dirlo, ma è un risultato temporaneo, poiché l’emendamento McCain-Feinstein stabilisce semplicemente che il divieto di tortura deve essere inserito nel manuale dell’esercito e che il governo deve attenersi ai principi del manuale. Il problema è che il manuale dell’esercito è un documento esecutivo, non è una legge. È un documento scritto dal dipartimento dell’esercito statunitense, che naturalmente fa parte del dipartimento della difesa degli Stati Uniti. E così, se si vuole reintrodurre la tortura, basta riscrivere il manuale dell’esercito. Non serve un atto del Congresso.
Ma una parte della Sua tesi iniziale era che la tortura è un crimine e che non si può legalmente rendere un crimine segreto di Stato. È però permesso sancirlo all’interno del manuale dell’esercito?
E proprio questo è il danno che John Yoo e Jay Bybee hanno fatto nel 2002. È vero che esistono la legge federale sulla tortura del 1946 e la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, ma nel 2002 John Yoo e Jay Bybee , due avvocati dell’Ufficio del Consiglio Legale del Dipartimento di Giustizia, hanno reso vane queste disposizioni stabilendo che la pratica della tortura da parte della CIA era legale, anche secondo le disposizioni di cui sopra, perché non creava danni fisici duraturi ai prigionieri. Di fatto, in poche righe hanno legalizzato la tortura.
Che quindi è ammessa purché nessuno resti fisicamente mutilato?
Esattamente. E i danni psicologici non contano. Per questo ci sono tanti prigionieri a Guantanamo che non sono neppure in grado di prendere parte alla propria difesa, perché hanno disturbi mentali a causa degli anni di torture subite.
È a causa di quanto stabilito da Yoo e Bybee che nessuno è stato condannato per il waterboarding, nonostante si presume che ci siano le prove e i registri di tutte le procedure?
Sì. Io credo che John Yoo e Jay Bybee siano i due veri “cattivi” in tutta questa storia. Certo, si può puntare il dito – e io l’ho fatto – contro Jose Rodriguez, George Tenet e John McLaughlin della CIA, contro i torturatori, ma i veri colpevoli sono quelli che hanno sdoganato la tortura giustificandola legalmente. E dopo hanno avuto carriere stellari: Jay Bybee è diventato professore di legge all’università della California a Berkley, e John Yoo è diventato un giudice della corte d’appello federale, nominato dal presidente Bush.
Pensa che il fatto che i whistleblower siano puniti in modo esemplare – come è capitato a lei, Chelsea Manning ed Edward Snowden – impedisca effettivamente alle persone di farsi avanti?
Sì, senza dubbio. Scott Shane, un reporter del New York Times, mi ha detto che il giorno del mio arresto tutte le fonti dei dipartimenti di sicurezza nazionale del New York Times hanno smesso di colpo di parlare e sono rimaste in silenzio per sei mesi. Più tardi, quando sono uscito di prigione, mi ha raccontato che un alto ufficiale della CIA gli aveva confidato che lo scopo non era quello di mandarmi in prigione. A loro non importava quanto tempo avessi passato in carcere, l’obiettivo era spaventare chiunque altro stesse pensando di uscire allo scoperto. E così nessun altro della CIA ha parlato.
Lei è stato molto critico nei confronti della direttrice della CIA nominato da Trump, Gina Haspel, che ha accusato di aver supervisionato l’uso del waterboarding. Qual è la Sua opinione sull’attuale direttore della CIA William J. Burns?
Ho scritto un articolo molto lusinghiero su Bill Burns quando è stato nominato, perché lo conosco da 30 anni. Io ero un analista junior e poi un giovane diplomatico, quando lui era già ambasciatore, era uno dei diplomatici più apprezzati e rispettati della sua generazione. Ha ricoperto ogni posizione diplomatica di alto livello nel Dipartimento di Stato, tranne quella di Segretario di Stato. E sono convinto che ci sia bisogno di una prospettiva esterna, di qualcuno non contaminato dalla tortura, dai programmi di attacco coi droni, dalle prigioni segrete, qualcuno che provenga dall’esterno ma che sia abbastanza forte da dare ordini, abbastanza importante da essere rispettato dai vertici della CIA.
Bill Burns è l’uomo giusto. Finora non ho motivo di pensare di aver sbagliato a sostenerlo. Uno dei problemi della CIA è che i presidenti tendono a nominare sempre due tipi di persone per il ruolo di direttore e questo è un grosso errore. O nominano personaggi interni alla CIA, il che è un problema, perché non hanno alcun desiderio di supervisionarne o contenerne l’operato. Si spingono al limite, solo per vedere se riusciranno a franca. Oppure nominano generali e ammiragli. E si diventa generale dicendo “sissignore” per 30 anni, il che non è quello che uno si aspetta da un direttore della CIA. Occorre qualcuno che sappia tenere testa a un presidente e i generali e gli ammiragli non ne sono capaci, altrimenti non sarebbero arrivati a quel grado. Questo rende la loro capacità di supervisione più debole, favorisce i comportamenti criminali. Per questo ci vuole un outsider.
Infine, lei attualmente si sta occupando anche del sistema carcerario americano. Secondo lei, qual è in tal senso l’aspetto più urgente da riformare?
Mi verrebbe da dire che deve cambiare tutto, ma la cosa più urgente da riformare è senz’altro la pratica statunitense dell’isolamento. Non capisco perché non imitiamo quello che fanno i nostri amici e alleati europei. Voi siete in grado di riabilitare le persone, di prepararle a rientrare nella società come cittadini produttivi. Noi no. Il nostro sistema è un sistema di punizione, punto.
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Cosa c’è di diverso nell’isolamento americano rispetto a quello europeo?
Nella maggior parte dei paesi europei l’isolamento non può superare i 15 giorni, come da mandato dell’ONU. Nils Melzer, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, ha dedicato la vita a limitare l’uso dell’isolamento a non più di 15 giorni. Gli europei lo hanno recepito, gli americani gli hanno riso in faccia. Qui abbiamo prigionieri in isolamento anche per 44 anni. Immaginate: 44 anni senza alcun contatto umano. Non è insolito che ci siano prigionieri in isolamento per più di 20 anni. Nel maggio 2015 il New York Time Magazine ha fatto un reportage incredibile sulla vita in isolamento nella prigione di massima sicurezza di Florence Colorado, nella quale sono rinchiusi alcuni dei detenuti considerati più pericolosi in America. Una buona parte di quella prigione è costituita da celle di isolamento. Uno dei detenuti rinchiusi lì è riuscito rompere la piccola finestra della sua cella e ingoiare i vetri rotti, solo per poter essere portato in un ospedale e vedere altri esseri umani.
Questi prigionieri non hanno accesso neanche ai loro avvocati?
È permesso di fare una telefonata al mese, solo all’avvocato, non a un membro della famiglia. Sono vietate le visite. Quando arriva la posta non la consegnano, perché i reclusi potrebbero accartocciarla, ingoiarla e cercare di morire soffocati. Le lettere vengono mostrate per cinque minuti su un monitor fissato al soffitto, fuori dalla portata del detenuto, e poi cancellate per sempre. L’unico “contatto” con un altro essere umano si ha quando si sente la guardia aprire la finestrella d’acciaio della porta per far passare il cibo tre volte al giorno. Si vive in una cella di cemento di due metri per tre, con una branda d’acciaio, un gabinetto d’acciaio, un lavandino d’acciaio. E poi c’è una piccola porta d’acciaio sul retro della cella, come una porta per cani, che conduce a una gabbia esterna delle stesse dimensioni della cella, dove il detenuto può camminare in cerchio per un’ora, proprio come un cane. Alcune prigioni concedono un’ora al giorno, altre solo tre alla settimana. Questo, per esempio, è il destino che aspetta Julian Assange. Il Dipartimento di Giustizia ha sostenuto a gran voce nei tribunali britannici che Julian non verrà messo in isolamento. Sono tutte balle. Non possono fare questa promessa. Non dipende dai procuratori, non dipende dai giudici, dipende solo dalla direzione carceraria, e basta solo che qualcuno vada da una guardia e dica “Ho sentito qualcuno minacciare Julian Assange”, e Julian sarà messo in isolamento e diranno che è per la sua protezione. Quindi queste sono promesse vuote che i procuratori statunitensi stanno facendo ai giudici inglesi. Promesse vuote che non possono mantenere perché l’isolamento non è sotto la loro autorità.
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