Elm Street a Berlino, le recensioni horror del Mitte: The Furies
Hell hath no fury… ovvero “The Furies”: la recensione polposa
di Cristiana Santini
Voglio che sia messo agli atti che le editrici del MITTE mi odiano.
In un atto di ferocia inaudita hanno deciso di vendicarsi della mia indole fancazzista contemplativa suppliziandomi con un film CAGOTTO incentrato proprio sulla vendetta e la tortura (ovvero appartenente al sotto-genere Revenge/TorturePorn).
Il primo piccione e’ consistito nel servirmi una vassoiata di giustizia poetica, il secondo ha avuto la funzione di triggerarmi con la massa critica di strünzat presenti nella pellicola fino al punto da farmi scrivere una recensione.
La fava ovviamente sono io perché ci sono cascata e la recensione l’ho scritta sul serio.
Adesso vi toccherà leggerla perché ormai avete cliccato sulla pagina e tornare indietro è da cozzari, e sotto sotto assistere al massacro di un film (che è un massacro di film) è esattamente come volevate spendere i successivi dieci minuti della vostra vita.
Non dite di no.
La profondità psicologica di una mattonella in cotto
Ordunque.
La pietra cinematografica dello scandalo è stata scritta e diretta da Tony D’Aquino, s’intitola “The Furies” (2019), ed è – in mancanza di termini migliori – un troiaio.
È forse il film Horror più brutto che io abbia mai visto?
No. Il film Horror più brutto che io abbia mai visto è “Muck” (2015), ma mettiamola così: in un momento di arteriosclerosi tonante avevo creduto che la pellicola si intitolasse “The FURRIES”, e d’istinto m’era scappato quel tipo di mugolio affranto spesso associato al sentire il crick quando si acciacca uno scarrafone (son sicura che sapete di cosa parlo). Ma dopo aver visto “The Furies” ho rimpianto quella erre in meno.
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Il punto è che quando un film comincia con i tromboni anti-nebbia di “Inception” (2010) quale sottofondo per una donzella che zampetta trafelata in un bosco mentre è inseguita da un bruto, e la prima cosa che salta all’occhio non è la drammaticità della scena, o la maschera terrificante indossata dal bruto, bensì il CHIÜLO a mappamondo della suddetta donzella che sballonzola felice a favore di camera, tanto vale condire subito il pop-corn con la Codeina perché s’è bello e capito che il giro di giostra sarà doloroso assai.
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La trama (se vogliamo usarle la cortesia di chiamarla così), non s’allontana mai troppo dal seminato del sotto-genere a cui il film appartiene: c’è il gruppetto di vittime portatrici sane di patonza intrappolate in un ambiente ostile (in questo caso un bosco in mezzo al nulla), che finisce per essere braccato malamente da un gruppetto di carnefici armati di pupparuolo (e altri strumenti ad alto tasso di contundenza)(ma con un X-Factor minore rispetto al pupparuolo).
A un certo punto della storia, per soddisfare la quota necessaria di VendettaTremendaVendetta affiché la pellicola possa fregiarsi della nomea Revenge, le patonze ancora munite di battito cardiaco sguinzagliano il loro Godzilla interiore e cominciano a menare come fabbri in un altoforno.
Siccome “The Furies” non ha voluto badare a spese (in termini di omologazione), i cliché associati al sotto-genere sono di serie, e non mancano di essere esibiti con generosità nel corso della storia: il Club “misterioso” a monte dell’intero ambaradam, i personaggi con la profondità psicologica di una mattonella in cotto, le uccisioni inutilmente convolute e spettacolarizzate.
Ad incorniciare il tutto c’è il collaudato registro cupo che non prevede variazioni di sorta – che come cosa non è negativa in sé – ma nel contesto di un film che è costruito su una robusta (nonché monotona) routine di nascondino-acchiapparella-mannaiate, alla Vostra Illustrissima dopo un po’ è calata la palpebra, ecco.
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Eppure in questa fiera del precotto due elementi spiccano per originalità.
Il primo riguarda le indubbie capacità artistiche di Tony D’Aquino.
Il nostro frisco (che ha perso per un pelo l’occasione maestosa di chiamarsi TOMMY) si e’ affacciato sulla scena australiana nella metà degli anni ’90, e ha impiegato quasi venticinque anni per farsi finanziare un progetto: difatti “The Furies” è al momento il suo primo e unico lungometraggio, cosa che di sicuro non rema a suo favore.
Ma quel che bilancia un portfolio diversamente polposo è la devozione e la conoscenza che D’Aquino mostra verso il cinema Slasher dei bei tempi che furono. Oltre agli aspetti decorativi, quali le maschere indossate dai pupparuolo-dotati che richiamano direttamente a quelle di Leatherface (“The Texas Chain Saw Massacre” – 1974), Michael Myers (“Halloween” – 1978), e Jason Voorhees (“Friday the 13th” – 1980); o una ritrosia per la CGI a favore degli effetti speciali ruspanti del veterano Larry Van Duynhoven (che onestamente sono il fiore all’occhiello del film), c’è al centro di “The Furies” un nucleo di cazzimma vintage che – nonostante i paletti dell’accettabile siano oggi ben oltre quelli di quarant’anni fa – è difficile trovare nelle produzioni horror contemporanee.
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Ricatturare quell’atmosfera di brutalità inedulcorata non è cosa semplice, ma D’Aquino c’è riuscito, anche grazie alla fotografia elegante e monocromatica di Garry Richards che esalta il MOSOCAZZI della situazione.
Dunque il caro Tony ha la cultura Horror necessaria per cimentarsi nel genere.
E sa come si girano i film.
Quel che il caro Tony non sa fare neppure per salvarsi la vita è scriverli.
Uno Jägermeister per la coscienza
Arrendiamoci all’evidenza, con i suoi tropes banali in bella vista e la sua cialtronaggine, “The Furies” non era destinato ad entrare nella storia del cinema.
E vabbuo’. Non è difficile farsene una ragione.
Mi perdonerete la mancanza di raffinatezza ma non di solo “Citizen Kane” (1941) vive il cinefilo, e in certe occasioni guardare gente rincorsa da un tizio con un’ascia mentre si rutta Moretti è tutto quel che serve per passare un paio d’ore di allegra beozia, dico io.
La pellicola avrebbe potuto ritagliarsi il suo angolino d’intrattenimento quale filmetto derivativo ma armato di notevole grinta (nonché tecnicamente pregevole), se non fosse che l’Horror è spietato quasi quanto i personaggi che lo popolano: in un genere che è sempre incinto e sforna film a raffica, finire nel dimenticatoio prima ancora di aver alzato abbastanza soldi da giustificare la propria esistenza è l’unico mostro vero nel regno dei Jump Scares, specialmente se il titolo in questione è girato da un CHICAZZÈ, e ancor di più se appartiene al Revenge/TorturePorn che poggia quasi esclusivamente sulla macelleria.
In questo sotto-genere pompare la VIULENZA è sempre stata la tattica prediletta per distinguersi dal mucchio – e D’Aquino dalla sua ce l’ha messa tutta – ma voi capite che se è già passata più di una decade da quando quello svalvolato di Tom Six si è messo a cucire il bucio di chiülo del disgraziato davanti, al cavo orale di quello di dietro, la sensazione di essere arrivati in ritardo al MACHECAZZ Party si fa prepotente.
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Far ricadere tutta la colpa sul povero “The Human Centipede” (2009) sarebbe ingiusto, ma è proprio in quegli anni che il sotto-genere decide di weaponizzare la tattica prediletta No.2, ovvero affiancare la mattanza a una morale di fondo.
In questo senso, è stato un ritorno alle origini: il primo “Saw” (2004) – che unanimamente viene considerato il capostipite dell’intero circo Togni – nasce e si sviluppa attorno al ferreo codice etico di Jigsaw; e “Hostel” (2005) – che per molti versi può essere considerato un capostipite a sua volta – sarà il primo a utilizzare il trope del Club “misterioso” quale simbolo di decadenza morale.
Non credo sia necessario farla troppo lunga sul come mai – per un sotto-genere che ha le parole “Torture” e “Porn” nel nome – aggiungere un elemento di critica sociale sia come la manna dal cielo: purtroppo come accade anche al di fuori dalla finzione filmica, le foglie di fico morali/ideologiche sono uno Jägermeister per la coscienza.
In un’ottica cinematografica, non solo rendono più digeribile il sangre y mierda, offrono un potente elemento in piu’ da rieborare al fine di emergere dalla fiumana dei Ten-a-Penny.
Sento che difficilmente vi causerò una Pikachu Face se a questo punto della lettura vi rivelo che D’Aquino (nomen omen) su questa faccenda dell’essere moralmente impegnati ci ha sguazzato come un merluzzo nel Baltico.
Proprio così, siore e siori, “The Furies” è WOKE.
(Al mio tre mettiamoci tutti una manina davanti alla bocca).
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A bit problematic
Il secondo elemento di originalità di “The Furies” è dunque la sua componente “impegnata”. E la collina su cui morire scelta da D’Aquino è…il femminismo? Il Girl Power? Beyonce che bercia “Who run this mutha”? Una roba del genere.
Purtroppo è anche il motivo per cui dal livello di “povero ma onesto”, il film è sprofondato giù nell’abisso del “troiaio”.
C’è un qualcosa di irritante a priori quando si assiste al lavoro di professionisti che hanno la coscienza (più o meno) al posto giusto ma affrontano argomenti troppo delicati per il loro livello di sensibilità, cultura, e autoconsapevolezza: film come “Stonewall” (2015) di Emmerich, o “The Help” (2011) di Taylor, rientrano in questa categoria. Voglio dire, si sa di cosa è lastricata la strada per l’inferno.
Ma l’irritazione prende le squisite sfumature dell’incazzo quando l’argomento in questione non è altro che un trasferello appiccicato a un sotto-genere che ha fatto dell’abuso il proprio vessillo, specialmente a spese di quella fetta di popolazione mondiale che nutre un’inspiegabile ossessione per tisane, calzature e Pinot Grigio.
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Catafottute in una specie di “The Hunger Games” (2012) dei poveri, le fimmine in “The Furies” non solo sono insallanute oltre il già monumentale livello di stupidità che affligge la maggior parte dei personaggi nel genere Horror, le tapine sono inscatolate in stereotipi così terra-terra che finiscono per bypassare l’indignazione e incutere direttamente la stessa pietà esasperata che si prova nel vedere le ricostruzioni sgarruppate dei naturalisti ottocenteschi quando cercavano di capire COMECAZZ erano fatti i dinosauri.
Sono una forte sostenitrice della distinzione tra artista e opera.
Ma è arduo non domandarsi come sia possibile che nell’arco dei suoi 47 anni di vita D’Aquino non abbia avuto una figura materna, una fidanzata, un’amica – che diavolo ne so – una segretaria d’edizione, che lo allontanasse dall’idea che possedere una vagina implichi carenza di logica, o del semplice buon senso necessario per non mettersi a starnazzare come una gallina sgaienta quando è cruciale non rivelare la propria posizione.
Che sensibilità d’animo e tube di Falloppio non hanno una correlazione solida al punto da sentirsi in bisogno di lunghe chiacchierette intimiste con le altre gurlz nel bel mezzo di una situazione di estremo pericolo.
Che la donna angelicata piena di ingenuità e virtude merita di trionfare, mentre quella “ribelle” (e nera), quella “cazzuta” (che è bionda e si chiama SHEENA)(non vi sto coglionando), e quella “disturbata” (asiatica, ça va sans dire), debbono passarsela meno bene.
E infine, di come suoni un zinzino patetico che tutti questi cliché ambulanti siano incapaci di sinergizzarsi e collaborare contro un nemico comune, perché a quanto pare la camaraderie è un’esclusiva del mondo virile testosteronico, mentre in quello volubile degli estrogeni esiste solo la cat fight.
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In un’intervista alla rivista online australiana “Stack”, D’Aquino dichiarerà: “I also wanted to update the Slasher a bit, because it became a bit problematic later in the cycle, being misogynistic and sexist. I wanted to change it up and make it all about the women, but not them waiting to be rescued or running around screaming with their tops falling off” [Volevo anche aggiornare un po’ lo Slasher, perché è diventato un po’ problematico con l’andare del tempo, essendo misogino e sessista. Volevo cambiarlo e fare in modo che parlasse di donne, ma non [le rappresentasse] mentre aspettano di essere salvate o scappano urlando con il top che scivola via.].
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Non ci sono reggipoppe che volano via, gli concedo questo.
Ma alla fin della fiera le uniche donne con spirito d’iniziativa nel suo film vengono di fatto punite, mentre l’eterea Airlie Dodds – che interpreta la protagonista – passa tre quarti del tempo a strillare, correre alla cieca, farsi salvare il chiülo dalle altre, non saper leggere la comoda cartina fornita dal prop department, e avere crisi epilettiche. Fin quando non scatta l’ora X di diventare di colpo un’Erinni, naturalmente.
Non so come la pensiate voi, ma io aspetterei un attimo prima di aggiungere “The Furies” al manifesto femminista.
Ma il film è senza dubbio “all about the women”.
In uno sforzo sovrumano che spero ardentemente non si ripeta più, D’Aquino non si è limitato a tratteggiare (male) le fimmine: in una mossa MACHECAZZ che non si vedeva dai tempi di “Thelma & Louise” (1991) ha deciso di far loro un “favore” trasformando gli uomini letteralmente in bestie, creature grugnenti armate fino ai denti senza umanità di sorta.
Poiché mi pare ovvio che questo è quel che le donne pensano davvero nella solitudine delle loro menti insondabili, o almeno è quello che vogliono sentirsi dire da un uomo bianco di mezza età che vuole evitare di apparire “a bit problematic” quando gira un Revenge/TorturePorn.
Tony, tesoro, luce della mia vita. Ho un’orribile notizia da darti: “The Furies” è la sagra del problematico.
Questo, cari i miei lettori, è il motivo per cui offrire spazi alle voci finora ostracizzate non è una fisima da snowflakes. Particolarmente nell’ambito di quell’eterno specchio dei tempi che è l’Horror e il cinema di genere.
Non è questione di polically correctness. Né di creare un “safe space” che doni un’illusione di eguaglianza per chi a tutt’oggi è ben lungi dall’averla, e neppure perché i creativi fuori dalla bolla di privilegio hanno una magica marcia in più.
È per godersi la pura, rinfrescante sensazione di avere finalmente qualcuno che sa di che cazzo parla quando affronta determinati argomenti.
Volete vedere cosa succede quando al timone di un Revenge/TorturePorn non c’è un masculo? Guardatevi “Revenge” (2017) di Coralie Fargeat.
Vi sentite titubanti? Il CHIÜLO a favore di camera è solo uno ma è più sodo di tutti quelli di “The Furies” messi insieme.
Siete fan sfegatati di “The Furies” e ve l’ho fatta prendere male? Ho scritto per sbaglio “The FURRIES” per tutto l’articolo. Ho dovuto correggere “The Furies” quattordici volte.
Quindici.
D’Aquino e’ da considerarsi vendicato.
MINI-BIO
Sono nata in Italia ma risiedo nel South London da abbastanza tempo da essermi desensibilizzata alla deboscia che è la preparazione del Christmas Pudding tradizionale. Ho una vita che mi premuro di trascurare con regolarità in favore di un consumo indecente di film (soprattutto Horror e Western), serie TV, fumetti e videogames. Amo le lunghe passeggiate in riva al mare. Questo l’ho scritto solo per sembrare meno sociopatica.
Per altre splendide recensioni, vi consigliamo di seguire il blog di Cristiana!
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