“Suspiria” di Luca Guadagnino: una recensione semiseria con epifania femminista

Suspiria
di Angela Fiore

Il nuovo “Suspiria“, di Luca Guadagnino, è piaciuto praticamente a tutti. E non c’è da sorprendersi, si tratta di un film di indubbia qualità. Le doti registiche di Guadagnino – indipendentemente dal giudizio che si può dare sulla sua estetica – sono ormai note al pubblico internazionale. Inoltre il film può contare su una Tilda Swinton in stato di grazia, che si produce in una performance di disumana intensità (con lunghi intermezzi in un discreto tedesco da expat) e una Dakota Johnson che potrebbe essere considerata brillante, se accanto a lei non ci fosse Tilda Swinton a mangiarsi la scena lasciando tutto il resto del cast a bocca asciutta.
Però. Però. Però. Lo sentite il “però” che arriva da lontano? Io l’ho sentito sotto forma dell’insopprimibile desiderio di sbuffare per la frustrazione, con sommo disappunto degli altri spettatori del cinema ODEON di Schöneberg.

A chi può piacere il remake di Suspiria?

Partiamo dalle buone notizie: se vi è piaciuto Suspiria (quello originale) e se apprezzate un film per la sua bellezza visiva, è ancora altamente probabile che questo film vi piaccia parecchio. Se siete donne, forse no.

Ma andiamo con ordine e con una parvenza di obiettività. Il film si apre in una Berlino ancora divisa dal muro, nella quale piove sempre. Quando non piove, diluvia. Quando non diluvia, nevica. È l’inverno del 1977 (anno di uscita del film di Dario Argento) e la città è scossa dai tumulti politici che porteranno all’arresto dei membri della banda Baader-Meinhof.
L’accademia di danza Markos è un palazzone grigio, nel quale l’algida ed enigmatica madame Blanc (Tilda Swinton) prepara un corpo di ballo interamente femminile per una performance della sua opera più celebre: “Volk”. La giovane Susie Bannion (Dakota Johnson), arriva in città da un paesino dell’Ohio, per un’audizione, e finisce per prendere il posto di un’altra allieva dell’accademia, scomparsa in circostanze misteriose.

Le similitudini con il primo “Suspiria” finiscono più o meno qui, il che non è affatto una cosa negativa. Guadagnino sceglie un punto di vista completamente diverso, dando spazio a storie e personaggi che non comparivano nel film di Argento. Primo fra tutti il dottor Josef Klemperer, anziano psicanalista che aveva in cura la ragazza scomparsa e che, lottando anche con i propri demoni personali, cercherà di gettare un po’ di luce sugli oscuri misteri che avvolgono l’accademia Markos. E che è interpretato – rullo di tamburi – da Tilda Swinton.

Nella scuola di danza accadono fatti inquietanti, un’altra ragazza sparisce (la vediamo subire le conseguenze dell’ira delle streghe in una scena tanto disturbante quanto efficace). Apprendiamo che c’è un conflitto di potere fra Madame Blanc ed Helena Markos, per la guida di quello che è sempre meno un gruppo di insegnanti di danza e sempre più un sabba.
Nel finale, Blanc e Markos (interpretata, indovinate un po’, da Tilda Swinton con quello che si può solo definire un grottesco costume di gomma, che fa sembrare fantascientifici gli effetti speciali del ’77), arriveranno a uno scontro mortale. In un rituale a base di danze ripetitive, cori in tedesco, sangue e ragazze nude disposte come in una coreografia dei Dead or Alive, con il povero Dr. Klemperer gettato a terra, nudo e piangente, Markos dichiarerà di essere la Mater Suspiriorum e di non vedere l’ora di continuare a vivere nel corpo della giovane Susie, la quale nel frattempo ha compreso e accettato la situazione. Solo che la ragazza, all’ultimo momento, ci ripensa, si ricorda di essere lei la vera Madre dei Sospiri, si squarcia il petto ed evoca una personificazione della morte che se ne va in giro per lo scantinato facendo esplodere le teste di tutte coloro che avevano supportato la Markos contro la coreograficamente defunta madame Blanc.

Dopo questo doveroso sabba dei lunghi coltelli, Susie, con aria da madonna benefica, si aggira in mezzo ai corpi recuperando le sopravvissute e chiedendo loro cosa desiderino. Essendo tutte orrendamente mutilate, le giovani chiedono di morire e vengono prontamente accontentate.
Dopo di che, per nessun motivo, la neo-proclamata Mater Suspiriorum si materializza al capezzale del già traumatizzato Klemperer, per fargli sapere come e quando sua moglie è morta in un campo di concentramento, per poi cancellargli la memoria. Guadagnino ci racconta tutto questo in un pregevole esempio di fan-art, lavorando diligentemente sull’aspetto visuale, per restituire una sua versione delle geometrie inquietanti e dei contrasti cromatici del primo Suspiria. Nel complesso, giuro, questo è un buon film horror.


Leggi anche:
Elm Street a Berlino, le recensioni horror del Mitte: “Doctor Sleep”, sequel di “The Shining”

 

 

 


E adesso arriva il “però”. Quel sospiro di esasperazione che viene fuori tutte le volte che si vive l’imbarazzo di sentirsi raccontare uno stereotipo su sé stessi.
Guadagnino, Argento, sedetevi, dobbiamo parlare. Questo film – così come l’originale, a dire il vero – è l’ennesima, tediosa rappresentazione di quello che una sterminata processione di uomini ritiene essere “il potere delle donne”.
Il potere delle donne è sempre legato all’antico, all’atavico (le madri esistono da prima della civiltà, Helena Markos ha quasi mille anni). Il potere delle donne è legato al sangue (lo sappiamo, vi fa impressione, ci dispiace, ma la vostra è un’ossessione). Il potere delle donne è oscuro, cupo, irrazionale, pericoloso, letale. Il sabba delle donne è un’orgia di istinto, di uteri che esplodono (letteralmente) e budella sul pavimento come salsicce, mentre la razionalità, vecchia e polverosa, se ne sta nuda per terra a piagnucolare, nella persona del povero psicanalista tedesco, incapace di comprendere la potenza primordiale che lo circonda.

E sia chiaro che Guadagnino non ha un punto di vista intenzionalmente misogino: le “streghe” sono buone, sono la forza creatrice della rinascita (ancora…) che ci servirà ad affrontare un momento buio della storia, laddove la razionalità del maschio ha fallito.
Che palle. Si può dire? Che palle. Questo film, così come l’originale, così come centinaia di altri film, libri, spettacoli teatrali, fumetti e pitture rupestri, elabora una risposta maschile alla domanda altrettanto maschile “cosa diavolo fanno le donne, quando sono chiuse da sole in una stanza e noi non le vediamo? Di cosa parlano quando vanno in bagno insieme?”

E la risposta è “sicuramente ballano nude, inondando di sangue le pareti, evocando demoni, perpetrando massacri e sacrifici umani, torturando uomini e facendo cose innominabili con i loro apparati riproduttivi”. Il livello di terrore del femminino che questa visione esprime farebbe quasi tenerezza, se non fosse trito e, nel 2018, un filo offensivo.

Ripeto, questo non è un brutto film. Davvero non lo è. A parte il pupazzo di gomma, che è inguardabile e imbarazzante. Ma per il resto il film c’è. È l’idea che manca. Nello specifico, l’idea che il potere delle donne possa derivare dall’essere creature razionali, dall’impegno, dall’autodeterminazione, dal ragionamento e dallo studio è completamente assente.
O l’idea che una donna, per ottenere dei risultati, possa applicarsi con impegno, che possa conoscere e non solo “sentire”, che possa lavorare e migliorarsi, invece di evocare le forze oscure e cavarsela con un paio di sbudellamenti e di rotolamenti nel sangue con le grazie al vento. Per dire.

Un’unica verità, sacrosanta, emerge con certezza da questo film: il teatro-danza ha fatto un sacco di danni.

 


P.S. Se questo articolo ti è piaciuto, segui Il Mitte su Facebook!