Gropiusstadt: storia e geografia di una città satellite
Contributo e fotografie a cura di di Beatrice Massimi (Sito Ufficiale, Pagina Facebook, Profilo Instagram)
Gropiusstadt – È una giornata di fine febbraio a Berlino. Strana per il periodo. Un inconsueto cielo blu sovrasta la città. I raggi del sole non incontrano l’ostacolo di alcuna nuvola e ci regalano un piacevole torpore. Quando a Berlino ci sono queste giornate le persone si trasformano. Anche sul più freddo e scortese cittadino si stampa un sorriso carico di un senso di cordialità e disponibilità. Così conosco Hans. Un signore di circa settanta anni mi coglie mentre so fotografando la torre IDEAL. “Bella, vero? Io abito lì su in cima, al diciottesimo piano”
“Da quanto abita qui?”
“Da sempre, mi hanno assegnato un alloggio appena finita la costruzione e ci vivo con lei” indicando un candido barboncino riccioluto. “Vede che bella, soprattutto dopo il restauro. Sembra un ascensore con cui si può arrivare in cielo. Vuole salire? Le apro il portone? Così può arrivare su in cima, si vede tutto il quartiere.”
Ci avviciniamo al portone. 228 alloggi per 31 piani.
“Prenda un ascensore e arrivi all’ultimo piano. Da lì è bellissimo”.
“Come si trova nel quartiere?”
“Bene, soprattutto negli ultimi anni. Le cose sono migliorate dopo la caduta del muro. Hanno portato i negozi , la metro, il centro commerciale e ora viviamo quasi in un parco, non in mezzo a rovi e sterpaglie. Ora non mi sposto quasi più, ho tutto quello che mi serve.”
“I suoi amici sono qui?”
Guarda la sua cagnolina. “Si qui ho tutto quello che mi serve”. Lo dice con il sorriso, ma i suoi occhi rivelano una solitudine su cui mi sento di non indagare.
“E prima? Come si viveva all’inizio?”
“Tornavo dal lavoro, con un sacchetto della spesa comprata fuori dal quartiere e andavo a casa. TV accesa fino a prendere sonno con l’aiuto di qualche birra. Questo era quello che offriva il quartiere”.
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Gropiusstadt, quartiere costruito ai margini della città alla fine degli anni ’70, nella periferia Sud della capitale Tedesca, era la risposta dell’Ovest al quartiere di Marzhan-Hellersdorf. Un enorme spazio vuoto con dei confini ben delimitati. A Sud il Brandeburgo a est il Muro, filo spinato e un campo minato, dove di notte si sentiva l’esplosione di qualche mina su cui finiva accidentalmente un animale.
Gropiusstadt. La città satellite di “luce, aria e sole”
Nel 1956 Berlino si trova di fronte ad una carenza di spazio per costruire nuove abitazioni. Da ciò deriva l’incarico assegnato a Gropius di progettare una città satellite. Il progetto originario prevedeva 16.400 appartamenti suddivisi in edifici di non più di cinque piani immersi in degli ampi spazi verdi. Infrastrutture viarie e metropolitana avrebbero dovuto collegarla al centro. L’idea iniziale era quella di costruire una città satellite autosufficiente basata sul tema di Licht, Luft und Sonne (luce, aria e sole) elaborato nella Carta di Atene. Doveva essere un modello urbano per la città industriale del futuro, in cui vi è una equilibrata combinazione tra lavoro, residenza e attività creative. Piena di attrezzature e spazi verdi per pedoni.
Nel 1961 la costruzione del muro acuisce il problema della carenza di alloggi popolari, portando ad una modifica della prima proposta progettuale. Il piano esecutivo del 1963 aumenta gli appartamenti a 19.000 per oltre 50.000 persone. Gli edifici si alzano e la densità di parcheggi in superficie aumenta. La municipalità di Berlino decide di affidare a diversi architetti berlinesi e a cooperative edilizie la realizzazione del quartiere, minando così l’iniziale unità proposta da Gropius.
L’impronta dell’architetto e del TAC (The Architects Collaborative, ovvero il gruppo di architetti che fu chiamato a integrare il lavoro) si può riscontrare nell’area delimitata dalla Lipschitzallee, Frizt-Erler-Allee, Wutzyalle, Friedrich-Kayßler-Weg, dove troviamo la Gropiushaus, l’unico degli edifici semicircolari proposti dal piano a essere stato realizzato. Alto 18 piani – molti di più rispetto ai cinque iniziali previsti – la sua forma richiama quella della vicina Hufeisensiedlung di Taut (1925-1931), ma in scala nettamente maggiore. Se ciò che si ammira della prima è un senso di sicurezza e appartenenza, un effetto da piccolo borgo, in cui anche se ci si trova in una grande metropoli, le persone sviluppano uno spiccato senso di comunità, la ripetizione dello stesso motivo su una dimensione maggiore ha generato l’effetto opposto, di monotonia e inscatolamento seriale di esseri umani che non hanno e non avranno nulla a che fare gli uni con gli altri. Lo stile razionalista e ripetitivo della produzione di Gropius viene movimentato da torri circolari.
La Wohnhochhaus Ideal: un ascensore fino al cielo
A Sud della Gropiushaus si trova la torre Wohnhochhaus Ideal (1966-69). Con i suoi 91 m di residenze, risulta essere l’edificio residenziale più alto mai realizzato a Berlino. Hans mi apre il portone e tutto sorridente mi indica la direzione da prendere, poi sparisce, deve continuare la sua passeggiata. Nonostante la mole di persone che ci abitano, la mia visita si svolge in maniera del tutto solitaria. Poca cura degli spazi comuni e un livello accettabile di pulizia caratterizzano il corridoio. Arrivo in cima, delle piccole finestre mi permettono in modo frammentario di osservare Berlino e i sui confini indefiniti con il Brandeburgo. Punto di vista periferico, su qualcosa che non presenta dei limiti, grandi distese, nessun rilievo.
Un certo ordine, poca spazzatura e giardini non poi tanto in stato di abbandono, alberi disposti in filari ordinati, i percorsi definiti. Non sembra poi tanto male questa monotonia. Ci si vive, ci si passeggia nelle belle giornate.
Comincio la discesa, tra gli scarni androni, alternando la scala interna, con le passerelle esterne. Prendo aria dal cemento faccia-vista impregnato di piscio degli androni e ammiro le varie prospettive che mi offre l’edificio. Nessuna pianta vicino alle porte d’ingresso, un nano da giardino, qualche cartello con attenti al cane e una passante. Esco da un’uscita secondaria e inizio ad ammirare la torre dal basso. L’alternanza di pieni e vuoti conferisce all’edificio un notevole effetto plastico e di leggerezza. Un ascensore per arrivare al cielo, per ammirare la vasta ineluttabilità di questa città. Gli giro intorno, si sta facendo notte, le luci si accendono, rivelando segni di vita in quello che prima mi era sembrato un oggetto privo di traccia umana.
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Gropiusstadt: dal grigiore alla riqualificazione
Dopo la costruzione, il quartiere di Gropiusstadt venne denigrato per il suo grigiore, la mancanza di servizi, la mediocrità e lo scarso interesse della popolazione per il decoro esteriore. La rassegnazione ad una condizione sociale prestabilita dall’edilizia popolare, la mancanza di speranza di un miglioramento ne faranno per circa vent’anni una sorta di ghetto. Alle famiglie tedesche si affiancheranno a poco a poco gli immigrati, una forte presenza di clan arabi si insedierà nel quartiere.
Arrivano gli anni ’80, la metro inizia a fare capolino. Nel 1986 cominciano i lavori di riqualificazione del verde, si creano parchi urbani con percorsi pedonali, piste ciclabili e aree gioco. Vengono creati luoghi di incontro e socialità. Aggiunti servizi sanitari e commerciali. Presso la stazione metro di Johannisthaler Chausse viene realizzato il Gropius Passagem (1994-2002), centro commerciale che diventerà la porta del quartiere. Le persone iniziano ad incontrarsi delle piazze, le are gioco si popolano di bambini. Sui balconi spuntano ombrelloni e decorazioni, segno di una certa cura che le persone hanno per il luogo in cui abitano e che possono cominciare a chiamare casa.
Gropius e l’architettura sociale: lo spazio va vissuto, non contemplato
La Gropiusstadt si fa carico di molti significati e rappresenta la fine di un percorso iniziato da Gropius con il Bauhaus molti anni prima, all’insegna di un interesse per un’architettura socialmente impegnata, per un tipo di abitazione che fosse a portata di tutti. L’uguaglianza abitativa, portata avanti da un socialismo architettonico, che poi diventerà tipica dell’est, ma che qui troviamo, almeno per i primi decenni di vita del quartiere, impiantata pericolosamente in un ovest molto più liberale e individuale, dove l’annullamento dell’individuo operante in una collettività lo porta ad una condizione di unità isolata in un insieme di cui fa parte solo fisicamente, porteranno ad una mancanza di senso urbano e un iniziale fallimento dell’intervento.
La convinzione di Gropius che la vita deve generare architettura, che lo spazio deve essere usufruito e non soltanto contemplato, comporterà una riduzione delle superfici al minimo indispensabile. Una sorta di dieta abitativa in cui tutti possono usufruire della stessa Luce, delle stessa Aria e dello stesso Sole. L’impacchettamento di più individui, costretti a vivere in compartimenti tra loro non comunicanti, non fa che generare una magrezza sociale, pericolosa per lo sviluppo bilanciato di una nuova parte di città, che ha bisogno di una buona dose di ogni elemento del tessuto variegato di una comunità.
Con la Gropiusstadt si è rivelata quella che è ed è stata la doppia faccia dell’architettura moderna che è insieme autocratica e democratica. La proposta di un modo di abitare egualitario in cui viene scandita ogni singola funzione dell’abitare, lasciando poco spazio al fuori programma, ha portato all’esclusione di una fetta importante della popolazione. Per circa vent’anni la Gropiusstadt non ha goduto di buona fama, essendo considerata una sorta di ghetto culturale e sociale.
Gropiusstadt oggi
Ma il pericolo è stato evitato e ad oggi Gropiusstadt è un quartiere vivibile, non certo ricco, ma variegato, sia socialmente, che culturalmente e forse, grazie agli interventi tempestivi della città di Berlino, che hanno portato servizi e rinnovamento, Gropius avrebbe ritirato la sua ultima frase in merito all’intervento. “Devo confessare che questa impresa è la più deludente con la quale mi sia dovuto confrontare”.
Hans tutto sommato ha trovato la sua serenità qui, il suo vivere tranquillo, le sue passeggiate e il suo senso di appartenenza in un quartiere dove ha iniziato sicuramente a vivere, almeno all’inizio non per sua scelta.
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