Come si impara ad amare in un’altra lingua? Intervista a Giuseppe Giambusso e video della live di presentazione di “Foto di ragazza senza gruppo”

Giuseppe Giambusso
Giuseppe Giambusso

Qualche giorno fa vi abbiamo parlato di Giuseppe Giambusso, scrittore e co-fondatore della letteratura interculturale in Germania. Oggi lo abbiamo intervistato per voi

Questo è invece il video della diretta, che ha visto la nostra direttrice Lucia Conti presentare ufficialmente la raccolta di poesie di “Foto di ragazza senza gruppo” (Thelem, 2020). L’evento è stato organizzato dal Comites di Dortmund con il patrocinio dell’Istituto Italiano di culturadi Colonia ed è stato un viaggio nella vita e nella poesia di Giuseppe Giambusso.

Giuseppe Giambusso, partiamo dal titolo della sua ultima raccolta, “Foto di ragazza senza gruppo”. Qual è il significato di questo titolo e perché lo ha scelto?

Il significato del titolo del libro si può leggere nel sorriso della foto di Anna Salamone, la compagna della mia vita. Si tratta di uno scatto fatto non con la macchina fotografica presa in prestito da un amico che viveva in Germania, ma con i miei occhi innamorati. È la poesia del sorriso di una tredicenne altrettanto innamorata che cattura l’istante dell’intuizione poetica dei miei occhi. Il resto è scritto nella poesia. Non dirò altro: non voglio togliere ai miei lettori il piacere della scoperta del significato del titolo.


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In una delle poesie della sua precedente raccolta, “Quando passa il ramarro”, scrive “Già prima di partire cominciai a tornare e ogni volta che torno mi preparo per la partenza”. Ha sempre questo stato d’animo?

Sì, questa era, è e sarà la mia vita. “Partenze”, che ha dato il titolo alla mia seconda raccolta, ho terminato di scriverla il 26 febbraio 1986 ed era composta da 59 versi. Nel 1987 decisi di liberarmi, con molta sofferenza, dei primi 55 versi e con essi definitivamente della prosaicità e del superfluo. Praticamente avevo trovato il mio stile nell’essenzialità e nell’immediatezza dell’intuizione. Avevo cioè ridato la poesia alla poesia.

“Partenze” è la mia poesia più citata nei saggi, nelle tesi di laurea e di dottorato sulla letteratura interculturale. Carmine Abate, vincitore del Premio Campiello 2012, l’ha scelta come epigrafe per il suo libro “Vivere per addizione” (Oscar Mondadori 2010), dopo averla già voluta, sempre come epigrafe, per l’antologia “In questa terra altrove” (Pellegrini Editore 1987).

A distanza di 26 anni ho sentito echeggiare alla radio, nella canzone di Vasco Rossi “Il mondo che vorrei”, la mia intuizione poetica di “Partenze”. Non ho mai pensato al plagio, anzi mi sono rallegrato che un grande artista come Vasco Rossi abbia avuto, un quarto di secolo dopo, la mia stessa intuizione poetica, cavalcandone l’attualità e l’universalità.

La copertina di “Foto di ragazza senza gruppo”, di Giuseppe Giambusso

Ha lasciato la Sicilia per approdare in Germania ormai molti anni fa. Oggi pensa e scrive in due lingue, tre, considerando anche il siciliano. Come ha vissuto e come vive questa evoluzione del suo linguaggio?

La lingua che ho parlato e vissuto sin dalla nascita è il siciliano, una sorta di Babele in cui per millenni sono coesistite molteplici lingue e culture. L’italiano l’ho imparato a scuola e al cinema, il tedesco nei corsi serali e per strada.
Quest’ultima è stata la lingua del lavoro e della razionalità, fino a quando negli anni settanta non mi sono posto una delle domande della letteratura interculturale più centrali in Europa: oltre al cambio di lingua, cos’altro deve succedere per diventare capaci di amare in una nuova lingua? Questa domanda l’ho formulata nella poesia “Nella tua lingua” e nella poesia “Tiamoindeutsch” mi sono dato la risposta, scrivendo per la prima volta in tedesco. Da allora il mio laboratorio è trilingue, anche se è perlopiù in italiano che le mie parole diventano poesia.

Ha vissuto l’emigrazione italiana in Germania negli anni settanta. Quali differenze riscontra rispetto all’emigrazione attuale?

Per quanto mi riguarda posso dire che negli anni settanta ero e mi sentivo un Gastarbeiter. Oggi sono e mi sento un cittadino europeo che ha scelto liberamente di vivere in Germania e non permetto a nessuno di farmi sentire di essere ciò che non sono e non voglio. Negli anni settanta e ottanta gli italiani in Germania vivevano nella provvisorietà, con la valigia sempre dietro la porta. Erano restii all’integrazione e vivevano spesso ai margini della società. Sorprende, e non poco, che in un sondaggio i tedeschi avessero scelto lo stile di vita scanzonato degli italiani in Germania.

Oggi la comunità italiana in Germania ha fatto un notevole salto di qualità sia a livello scolastico che a livello sociale. Pur continuando ad esercitare su ampia scala la nobile arte della ristorazione, ambisce sempre più alle professioni più “altolocate”.


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Una curiosità per i nostri lettori. In un’altra delle sue poesie c’è un riferimento al fatto che una moderna espressione italiana risalga al tedesco della corte di Federico II di Svevia del 1230-1250. Di che espressione si tratta?

Il vocabolario Treccani riporta questa voce: brindisi s. m. [dal ted. bring dir’s “lo porto a te” (il saluto, o il bicchiere)”, cioè “Bevo alla tua salute” attrav. lo spagn. brindis.]. Il resto spiega soltanto l’uso odierno del “brindisi”, del “brindare”.
A parte l’assegnazione della parola “brindisi” al tedesco “bring dir’s”, il resto è alquanto lacunoso e superficiale.

Per capire l’origine della parola “brindisi” bisogna fare un salto nel XIII secolo nel Regno di Sicilia, alla corte di Federico II di Svevia. Lo Stupor Mundi stabilì la sua corte in Sicilia, luogo d’incontro e fusione di diverse culture per la sua centralità nel Mediterraneo, dove creò una scuola di poeti ed intellettuali che erano parte integrante della sua corte, la scuola siciliana, che si sviluppò tra il 1230 ed il 1250 ed è considerata la madre della letteratura italiana. Alla corte oltre che scrivere si mangiava e si beveva e i poeti di origine tedesca iniziarono il rito del brindisi, declamando dei versi e portando (bring dir’s) il bicchiere di buon vino siciliano a qualcuno dei commensali.

Le orecchie siciliane registrarono e modificarono appena “bring dir’s” in “bringhisi”. Questa è la vera origine etimologica di “brindisi”, zoppicante senza il passaggio dal tedesco al siciliano. Come sono arrivato a questa conclusione? Mio padre amava fare i “brindisi” nelle festività e, alzato il bicchiere di vino rosso e, dopo aver declamato dei versi, rigorosamente in rima baciata, porgeva il bicchiere alla persona festeggiata o prescelta, proprio come si faceva alla corte di Federico II di Svevia, dicendo “bringhisi ci fazzu a…”.

Grazie al risultato di questa mia lunga e scrupolosa ricerca, ho potuto scrivere “Ich bring dir’s” in siciliano, in italiano e in tedesco, per certificare la mia natura di poeta trilingue, stappando l’incanto della poesia del primo bacio.