Dai campi profughi a Berlino: la violazione dei diritti umani nella quotidianità dei dimenticati

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di Maria Mazzocchia

Ci siamo lasciati con considerazioni sul tema della libertà, dell’individualismo e della solidarietà. Ci ritroviamo con una nuova complicatissima questione dei campi profughi, sollevata da molti tra cui la filosofa statunitense Judith Butler: a chi spetta una buona vita?

Ci sorprenderà o sconvolgerà il fatto di dover riconoscere che, nonostante ci sembri una domanda insensata e dalla risposta scontata, essa porta a scoperchiare putride realtà. Basti pensare, per esempio alla situazione di estrema povertà dei senzatetto nelle grandi metropoli, inclusa Berlino, o a quella dei profughi prigionieri di centri d’accoglienza trasformati in lager.


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Indaghiamo in questa sede la realtà dei profughi e rimandando al prossimo articolo l’analisi del fenomeno dell’estrema indigenza, e delle sue cause, nelle grandi metropoli occidentali, partendo proprio da un caso legato alla capitale tedesca.

Cosa sia un campo profughi lo si deduce bene dall’autobiografia, a cura di Dave Eggers, di Valentino Achak Deng, uno dei ragazzi e ragazze sopravvissuti alla guerra civile sudanese e conosciuti come Lost guys of Sudan. Nella sua testimonianza Valentino racconta la fuga, senza la sua famiglia all’età di sei anni, da Marial Bai, suo villaggio natale, per raggiungere il campo di Pinyudo in Etiopia, e quello di Kakuma in Kenya, in cui trascorrerà svariati anni fino al ricollocamento negli Stati Uniti.


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L’hotspot di Samos. Photo by jtstewart
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Valentino racconta che in quei luoghi ci si sente inutili, passivi e sul punto di perdere la propria identità, ma si tenta di resistere nella consapevolezza che si tratta di una soluzione abitativa d’emergenza, temporanea, che consente, pur nelle ristrettezze, una vita dignitosa. Nella sua durezza, una storia a lieto fine.

Purtroppo però, troppo spesso i campi per profughi si trasformano in vere e proprie prigioni, del corpo e dell’anima, in cui l’accoglienza si trasforma in detenzione, il soccorso in sfruttamento, violenze, annientamento della dignità umana.
Succede in Libia, nei centri finanziati dal governo italiano, succede in Grecia, succede in Bosnia, e, tristemente, in molti altri luoghi. Sembra impossibile che Paesi così diversi e distanti tra loro possano avere così tanto in comune. Ma cosa, esattamente? Che cosa accomuna le esperienze terribili vissute al campo di Lipa, di Moria, di Samos, di Bengazi?

Non la lingua, di sicuro. Il colore della pelle dei migranti, o i tratti somatici? No, nemmeno. Neanche gli aspetti culturali più rilevanti, no di certo. Eppure c’è qualcosa, anzi più di qualcosa: la ferocia, la violenza, la violazione dei diritti umani perpetrata sistematicamente e con il benestare, o se non altro la generalizzata indifferenza, del resto del mondo.

Testimonianze provenienti da ognuno di questi luoghi di puro orrore raccontano situazioni praticamente identiche: spazi angusti e troppo stretti per accogliere così tanti profughi, letti arrugginiti e materassi sporchi, file interminabili per ricevere un unico frugale pasto al giorno, afa soffocante o gelo terribile, servizi igienici nulli, cure mediche e medicinali inesistenti e condizioni igieniche tremende.

A questa assurdità quotidiana si aggiungono violenze, stupri, maltrattamenti e, sempre più spesso eventi catastrofici a mettere fine alle già ridicole risorse a disposizione dei dimenticati dal mondo: gli incendi, che distruggendo quelle inadeguate strutture, bruciano via ogni minima possibilità di sentirsi al sicuro.

Lo scorso dicembre un rogo ha distrutto il campo di Lipa, proprio nel giorno in cui l’Organizzazione internazionale per le migrazioni che lo gestiva ne aveva annunciato la chiusura, perché ritenuto inadeguato per carenza di fognature, elettricità, qualsiasi tipo di riscaldamento, nonostante le temperature sotto zero, e persino acqua potabile.

Purtroppo però, i profughi non sono stati trasferiti in campi profughi adeguati, né è stato consentito loro di allontanarsi dal campo ormai ridotto a scheletri di tendoni ricoperti di neve. Quando qualcuno prova ad allontanarsi, tentando la fuga attraverso i boschi vicini, viene acciuffato, malmenato, derubato e riportato al campo dalla polizia.

Quando qualcuno tenta forme di ribellione non violente, come lo sciopero della fame, queste cadono nella massima indifferenza, non sortiscono nessun effetto se non quello di mettere a rischio il già precario stato di salute dei profughi.

Sembra persino che i finanziamenti dell’Unione europea non siano mancati, Peter Stano, portavoce per gli Affari Esteri dell’EU, parla di più di 90 milioni di euro per i campi profughi, attrezzature, assistenza medica e sociale. Eppure migliaia di profughi vengono gestiti come se la crisi migratoria fosse sbucata dal nulla, come se la rotta balcanica non fosse da anni uno snodo cruciale.

La Bosnia risponde chiudendo i campi esistenti invece che aprendone altri, si comporta come se queste persone non esistessero, come se non avesse alcuna responsabilità di risolvere la situazione. Ma la responsabilità non può che essere condivisa, visto l’elevato numero di respingimenti a opera di tutte le nazioni europee, di cui la Croazia sembra essere il caso più eclatante, ma niente affatto unico.

Un’inchiesta sulla violazione dei diritti umani e l’uso del denaro europeo ha acceso i riflettori su Zagabria, che però nega ogni responsabilità e rimprovera piuttosto i respingimenti a catena, molti dei quali partono dall’Italia. Il tutto è naturalmente aggravato dalla terribile emergenza sanitaria mondiale.

A Samos e Moria, in Grecia, le testimonianze raccontano di esperienze spaventosamente simili a quelle rilevate a Lipa. Stesse tragiche condizioni, aggravate dal medesimo evento critico: il rogo che ha distrutto quel poco che avevano. Il tutto è ben documentato nel libro, a cura di Nicolò Govoni, dal titolo “Attraverso i nostri occhi: Vivere da bambini in un campo profughi“, di cui vi consiglio l’acquisto, per voi stessi, naturalmente, ma soprattutto per destinare i proventi delle vendite ai ragazzi del campo.

Le medesime foto, scattate dai giovani profughi istruiti dalla cronista Nicoletta Novara, hanno dato vita a un reportage nonché a una mostra itinerante prima di realizzarsi nel libro.