Gli invisibili di Berlino: quando una vita non è degna di essere vissuta?
di Maria Mazzocchia
Quando una vita viene offesa, si chiedeva Adorno costretto all’esilio dal regime nazista, cosa può tirarci fuori dall’oscurità dei diritti violati? Domanda difficile, lo so, a cui abbiamo già tentato di rispondere facendo riferimento al saggio di Judith Butler qualche articolo addietro, indagando la questione della violazione dei diritti umani nei centri di accoglienza per migranti e profughi.
Per cercare una risposta insieme vi racconto una storia, la storia di G., un giovane berlinese la cui vita è stata offesa dalla tossicodipendenza che lo ha spintonato e trascinato in strada, i cui diritti umani sono stati violati dalla rassegnazione al fatto che l’uso di droga sia normale e inevitabile, dalla diffusa accettazione del fatto che, data l’illegalità di determinate sostanze, le si debba acquistare come si può, anche se questo significa alimentare la filiera che procura enormi guadagni a grandi organizzazioni criminali.
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Un giorno, parlando con G., lui mi fa: “Ho provato tante volte a chiedermi quale tipo di vita avrei voluto, ma per trovare risposta avrei dovuto percepire la mia vita come qualcosa che potevo condurre io stesso e non semplicemente qualcosa che mi traghettava senza che io potessi farci niente. Per nessun essere umano la propria vita è davvero qualcosa che si possa condurre in maniera del tutto autonoma dall’ambiente circostante, fisico e sociale.
Come si fa a scegliere una direzione sensata quando solo una minima parte dei processi vitali che la costituiscono possono essere controllati, o quando solo certi aspetti di una vita possono essere formati in modo cosciente e deliberato, mentre altri non possono? In più c’è da considerare che tale domanda individuale è interconnessa a questioni che rispondono al quesito: quali vite sono importanti? Perché saprai che non tutte le vite lo sono in termini biopolitici, così come saprai che non tutte le vite che siano ritenute degne di essere considerate tali hanno lo stesso valore, il quale si estrinseca in termini di diritti umani, protezione, welfare, libertà.
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Sai, la biopolitica di Foucault, l’area di incontro tra potere e sfera della vita che si realizza al massimo nell’era capitalistica, a cui si affianca il concetto di psicopolitica di Byung-Chul Han, il paradigma secondo cui il potere plasma le menti invece che controllare i corpi, seducendo invece che costringendo, instillando valori indicati dal sistema che gli individui interiorizzano come essenziali.
Chi detiene il potere politico, ma oggi soprattutto economico, decide quali vite contino di più e quali di meno, quali vite rappresentino tutte le cose viventi e quali siano non-vite. Riesci a immaginare cosa significhi, per un tossicodipendente la cui intera esistenza sia completamente governata e condizionata da un’unica ragione di vita, interrogarsi sulla bontà di come la stia conducendo? Quando i bisogni primari cessano di esserlo per lasciare spazio a una unica priorità?
Nel momento in cui ho iniziato a percepire me stesso come un essere umano dispensabile, la cui vita non era degna di cura e protezione, da parte di me stesso e dello Stato, mi sono convinto che il giorno in cui sarei morto nessuno avrebbe pianto la mia scomparsa. È terribile, almeno all’inizio, rinunciare al diritto al lutto, ma poi ci si abitua, quando si inizia a fare a meno di tutto per concedersi unicamente a lei, alla roba. È così che si entra a far parte di coloro che non sono degni di lutto.
Ovviamente non in termini assoluti, ma in termini di valore privato, non pubblico. La mia dipartita sarebbe stata pianta probabilmente da quelli come me, da altri la cui vita non ha valore nel sistema della biopolitica. Ma non sarebbe stato un lutto nella sfera pubblica, perché vite come la mia, passate al setaccio di una visione macroscopica della comunità, sono non vite. E noi siamo non persone, i senza diritti la cui morte non provoca lutto, esattamente come quando dei migranti annegano in un naufragio, esattamente come le minoranze vittime di terrorismo di Stato, come per esempio i curdi o i palestinesi.
La svalutazione delle nostre vite a non vite e di noi stessi a non persone dipende dal valore collettivo. Come ci si può sforzare di condurre una vita buona se non se ne possiede che una dispensabile? Non si può. Le vite così condotte sono invivibili e questo conduce al feroce paradosso per cui non si riesce a vivere delle non vite finché l’immagine di esse riflessa nel mondo non cambia.
Le vedo entrambe in me stesso, la morte sociale di Orlando Patterson e la richtiges Leben di Adorno. Da anni considero me stesso una non persona, sulla base dell’immagine di me che vedo nell’indifferenza degli altri, dello Stato persino. Ciò nonostante, non sono solo. Ti assicuro che con me a marcire nella sporcizia e a patire la fame ci sono padri di famiglia che hanno perso tutto da un giorno all’altro, chi per via della crisi, chi per via della pandemia, chi per un investimento sbagliato, chi semplicemente vittima della gentrificazione e dell’aumento dei prezzi sul mercato immobiliare per colpa dei grandi investitori stranieri che hanno reso gli affitti inaccessibili a molti.
Ma quante vite nel mondo, in fondo, sono vivibili? Mi vengono in mente tanti, troppi esempi di non vite, di non persone. Non persone sono coloro che vivono in zone di guerra, esposti alla violenza, coloro che vivono in stato di occupazione, che non hanno diritti civili, che sono costretti a migrare e a sperare di non essere arrestati senza processo o che i confini non siano chiusi, che qualcuno si degni di dar loro da mangiare e da bere.
Non persone sono gli ingranaggi della forza lavoro dispensabile e consumabile, coloro che non si rendono conto di non essere altro che consumatori di prodotti di cui credono di aver bisogno ma la cui domanda viene generata dall’offerta, e non viceversa. Non persone sono coloro che il lavoro non l’hanno più e vivono di precarietà, economica e sociale, privata e pubblica, in un orizzonte temporale collassato, soffrendo intimamente e collettivamente la sensazione di incertezza, anzi di certezza che il futuro sia ormai irrimediabilmente compromesso. Il mondo è pieno di non persone, purtroppo”.
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