Seyran Ateş e l’Islam patriarcale: denunciarlo non è islamofobia
Il discorso tenuto il 26 novembre 2020 da Seyran Ateş durante l’evento “Paura non abbiamo – combattere la violenza di genere a Berlino“, è stato senza mezzi termini e non ha risparmiato nessuno.
Davanti al pubblico che seguiva e a una platea costituita da importanti esponenti delle istituzioni italiane e tedesche, l’attivista e femminista musulmana ha parlato per dieci minuti di emancipazione femminile e del rischio che le donne perdano terreno nella conquista dei diritti fondamentali.
Il discorso di Seyran Ateş: alzare la voce per chi non ne ha
“Con il passare degli anni, trovo sempre più difficile dire che è un onore essere chiamata a parlare di questioni così dolorose. A volte sono addirittura stanca e non ce la faccio più ad ascoltarmi” ha esordito Ateş, che nel 1984 ha pagato il suo impegno incontrando i proiettili di un membro dei Lupi Grigi e che dal 2006 è sotto scorta.
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Non sono le battute d’arresto in una lotta a preoccupare la donna, Ateş sa benissimo che i momenti di impasse sono parte integrante di ogni movimento.
“Tuttavia è dura constatare che si tornino a mettere in discussione alcuni diritti e libertà per cui si è combattuto con difficoltà o spargimento di sangue” ha precisato, sostenendo il dovere di alzare la voce quando incontriamo vittime che non ne hanno e dicendosi grata di aver partecipato a “Paura non abbiamo” per lo stesso motivo.
Il patriarcato è una dittatura
Ateş ha ricordato la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” del 25 novembre e le sorelle Mirabal che l’hanno ispirata, tre delle quali uccise perché si opponevano alla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo. “Una dittatura si nutre di violenza” ha dichiarato, aggiungendo che di dittatura parliamo anche quando parliamo di patriarcato.
“Quali sono i motivi e le spiegazioni della violenza contro le donne?” ha chiesto al pubblico Ateş, per poi fornire la sua risposta: “Il potere”. E poi “Alcuni diventano dittatori e torturano un intero popolo, altri torturano le loro mogli, figlie e sorelle”. E questo vale in tutto il mondo, anche nei Paesi che si ritengono progressisti.
Ha sottolineato come episodi di violenza contro le donne siano ancora accolti da commenti che biasimano le vittime e il tentativo di sensibilizzare sulla violenza di genere venga accolto da frasi come “Ci sono anche uomini picchiati dalle donne!”. Un’affermazione che cerca di distogliere l’attenzione dal numero spaventoso delle donne abusate in modo sistemico, in quanto donne, in tutto il mondo.
Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che la violenza contro le donne rappresenta, anno dopo anno, uno dei maggiori rischi per la salute.
Media has a fundamental role to play to stop rape culture.
During the #16Days of activism to end gender-based violence & every day, let’s change the narrative that places blame on victims. https://t.co/ErTCQqayWd via @UN_Women pic.twitter.com/Hgf7LadmKH
— United Nations (@UN) November 28, 2020
Parlarne non serve, se poi non si agisce
I discorsi non bastano, le promesse a cui non seguono i fatti non bastano. È Seyran Ateş e di fatti è lastricato il suo complicato e straordinario cammino.
Come legale esperta in diritto di famiglia ha ricordato che la fase di separazione dal partner è pericolosissima per chi subisce la violenza di genere. Innumerevoli donne in tutto il mondo vengono aggredite o uccise perché non amano più un uomo, perché non sopportano più la violenza, perché separarsi a volte significa subire una condanna a morte.
Ma non è solo il partner a rivestire il ruolo del carnefice. “Figlie e sorelle vengono uccise perché hanno un ragazzo o vogliono vivere e studiare da sole in un’altra città e questo vale, soprattutto e purtroppo, per il contesto musulmano in Germania” ha precisato Ateş.
L’attacco all’Islam patriarcale
Pur ribadendo che la violenza di genere è un fenomeno trasversale, che non risparmia Paese, etnia, religione e condizioni personali e sociali, l’attivista si è addentrata in quello che è il suo terreno specifico.
“Ci sono delle peculiarità in singole culture e religioni che non devono essere nascoste. E sto parlando di un ritardo oggettivo nello sviluppo di alcuni contesti” ha dichiarato Ateş, affrontando un argomento spinoso e cioè la discriminazione di genere nella cultura musulmana. Questo tema rappresenta a volte una fonte di imbarazzo per chi non ha, come Ateş, lo stesso background che analizza.
È difficile per un osservatore esterno esercitare il diritto-dovere di promuovere diritti umani universali evitando al tempo stesso di avere un approccio superficiale o da “white savior”, quando si parla di contesti che non si conoscono. Ma Ateş, che ha padre curdo e madre turca ed è musulmana, prende il toro per le corna ogni volta che può, denunciando la misoginia di una parte della sua cultura. La stessa parte che ha attentato alla sua vita e da cui ancora adesso deve proteggersi.
Diro no al relativismo culturale
“È fatale e porta ad approcci politici sbagliati equiparare la realtà delle donne di origini tedesche con quella delle donne migranti e rifugiate, sostenendo che se la passino tutte bene. Questo è relativismo culturale e io lo rifiuto” ha dichiarato Ateş senza mezzi termini.
“Non è vero che l’Islam o i musulmani di per sé sono più misogini e violenti” ha continuato, “Tuttavia è vero che nei Paesi islamici i diritti delle donne sono riconosciuti molto meno rispetto ai Paesi che si sono impegnati ad attuare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. E ha aggiunto che i migranti che mantengono una visione del mondo misogina tendono purtroppo a riprodurla anche nei luoghi in cui si trasferiscono, sostenendo che questo sia accaduto anche in Germania, a partire dalla nuova ondata migratoria del 2015.
Per Ateş l’accettazione dei ruoli tradizionali di genere e la religiosità sono spesso connessi e di conseguenza si può e si deve parlare di violenza basata sulla religione e sulla tradizione.
L’Islam politico e la creazione delle “società ombra”
A questo punto è diventata più specifica: “Se guardiamo all’Islam politico e ai Fratelli musulmani o a Erdogan e al suo partito, l’AKP, possiamo vedere chiaramente che promuovono una concezione arcaica dei generi, che separa rigorosamente il mondo delle donne da quello degli uomini ed è assolutamente misogina”. Ateş ha anche sottolineato come il numero dei delitti di genere in Turchia sia cresciuto dall’ascesa del presidente turco, che non ha caso ha dichiarato che “Mettere le donne e gli uomini sullo stesso piano è contro natura”.
“Quello che sto dicendo vale anche per altre religioni e culture” ha ribadito Ateş, precisando di parlare di musulmani in Germania e in Europa “perché questo è un settore che riguarda personalmente me e il mio lavoro”.
Ateş è interessata soprattutto alle cosiddette società parallele islamiche, nate in contesti di migrazione e che ha chiamato “società ombra”. In queste società parallele, istituite da musulmani conservatori che le difendono con tutte le loro forze, le donne e le ragazze musulmane vivono, in Europa, come le donne europee vivevano 100 o 200 anni fa.
“Le bambine di età compresa tra i 4 e i 14 anni sono costrette a indossare il velo, non partecipano a lezioni di sport e di nuoto, non sono autorizzate ad andare in gita scolastica o ai compleanni dei figli di persone di altre fedi” ha precisato Ateş, “Gli islamisti sono riusciti a diffondere una mentalità che divide il mondo in halal e haram, ciò che è permesso e ciò che è proibito, dove i minori sono costretti a sposarsi e la democrazia, con tutte le sue libertà, viene rifiutata”.
Ateş ha dichiarato di aver espresso solo una parte delle critiche che avrebbe voluto muovere all’Islam politico e antidemocratico. “Potrei dire molto di più” ha chiarito, “Ma questo supererebbe il tempo massimo previsto per il mio intervento”.
Non è un discorso contro l’Islam
Ateş ha ribadito di essere musulmana e di non voler fare un discorso contro l’Islam in generale. Nel 2017 ha peraltro fondato a Berlino la moschea inclusiva e liberale Ibn Rushd-Goethe, in cui donne e uomini pregano insieme, le donne possono ricoprire il ruolo di Imam e sono benvenute anche persone lgbt e di altre fedi e anche persone che non professano alcuna religione. La moschea ha ricevuto una fatwa dal Cairo e Seyran Ateş credibili minacce di morte, che hanno portato la polizia di Berlino a intensificare la protezione di cui già la donna godeva.
“Mi rivolgo a tutte le persone che entrano in contatto con i migranti e i rifugiati musulmani. Osservate attentamente e siate critici nel senso dei diritti umani”: con questa frase Ateş ha cominciato ad affrontare, infine, il delicato discorso relativo all’islamofobia.
#Erdogan: #women are not equal to men http://t.co/KdOOb2OgWu #Turkey pic.twitter.com/ErmZjP5bFa
— DW News (@dwnews) November 25, 2014
Stigmatizzare gli abusi subiti da chi non si può difendere non è islamofobia
Ateş ha dichiarato di ricevere sempre più spesso richieste di aiuto dai centri di accoglienza per rifugiati, dove i matrimoni tra minori e la violenza fanno parte della vita quotidiana di donne e bambini. “Qualsiasi interferenza o intervento esterno vengono rapidamente etichettati come razzisti e islamofobici” ha denunciato con forza.
E ancora: “Sono troppi gli operatori che cadono in questa trappola e alla fine si ritrovano ad assistere passivamente alla formazione, davanti ai loro occhi, di una sorta di Stato Islamico, per quanto in miniatura”.
E ancora: “L’argomentazione secondo cui si è colonialisti, di destra, razzisti o islamofobici, quando si criticano e si combattono tradizioni, cultura e rituali musulmani antidemocratici e misogini fa parte della strategia politica dell’Islam politico, rappresentata dall’Iran, dallo Stato islamico, dai Fratelli musulmani e da Erdogan, con il suo AKP“.
Ribadendo che “Nessuna religione, nessuna cultura è al di sopra della dignità umana, che è inviolabile”, Ateş ha inoltre sottolineato che le donne non sono una proprietà degli uomini e che questo dovrebbe essere oggetto di consenso globale, nel 21° secolo.
L’equivoco in cui cadono molte persone di sinistra e femministe
Ateş ha dichiarato quindi di voler smontare una serie di argomentazioni usate in questo caso non solo dagli islamisti, ma anche da molte persone di sinistra armate delle migliori intenzioni e persino da alcune femministe.
In particolare ha ricordato che quando si parla di donne musulmane alle quali vengono negati diritti per cui si è lottato in Occidente, si controbatte spesso con frasi come “I musulmani non devono seguire il modello occidentale dei diritti umani” oppure “Le donne musulmane non devono necessariamente vivere libere come le donne occidentali”.
Ateş se lo è sentito dire tante volte. E a questo risponde dicendo che nella lotta contro la violenza di genere le donne hanno lottato per il diritto di voto, l’istruzione, la partecipazione politica, ma anche per la propria casa, il lavoro, il diritto di vivere nubili, l’aborto, il diritto di decidere quando avere un figlio e quanti, il dritto alla propria cerchia di amici, a uscire da sole, a vestire come vogliono e in generale a vivere libere.
“Che cosa c’è di occidentale in tutto questo?” ha domandato Ateş, rilanciando con: “Le donne occidentali, cristiane o atee hanno forse una particolare patente di libertà?“.
Il riferimento a Lara Cardella e “Volevo i pantaloni”
Seyran Ateş ha concluso il suo intervento parlando del libro di Lara Cardella, pubblicato in Italia nel 1989 e intitolato “Volevo i pantaloni“. Il libro descrive la vita di una ragazza nella Sicilia degli anni ’80 e Ateş lo considera “un esempio per far capire l’universalità dei diritti umani”.
Ateş ha aggiunto che dopo averlo letto le si è accapponata la pelle, perché vi ha riscontrato molti parallelismi con la realtà vissuta dalle donne che assiste. “Possiamo cambiare il nome, la religione e la cultura della protagonista e ci imbatteremo sempre nelle stesse dinamiche, che non sono altro che manifestazioni misogine del patriarcato” ha ribadito.
Non è un discorso contro gli uomini in sé
In un mondo in cui le donne sono private della libertà anche gli uomini saranno sempre infelici, intrappolati in strutture in cui vivono non la loro vita, ma quella dei loro genitori, dei cosiddetti “eruditi” e dei leader politici.
“Quando un fratello deve fare la guardia alla sorella giorno e notte ed è tenuto a picchiarla o ucciderla se infrange le tradizioni, cosa a cui abbiamo assistito anche qui, in Germania, conduce un’esistenza miserabile. In questi contesti gli uomini vanno in pezzi o finiscono in prigione. Ecco perché la lotta dovrebbe essere comune e uomini e donne dovrebbero combattere fianco a fianco.
Oriana Fallaci
“Oggi mi batto con coraggio e tenacia per la libertà perché ho avuto dei modelli che non si sono mai arresi, donne e uomini, attivisti e anche autori di libri” ha concluso Ateş.
Ha citato a questo proposito Oriana Fallaci, famosissima giornalista italiana diventata in seguito famigerata, o almeno fortemente controversa. Convinta antifascista e simbolo della sinistra negli anni sessanta e settanta, è diventata nell’ultima parte della sua vita e dopo la morte un simbolo della destra, soprattutto in seguito a esternazioni successive agli anni 2000.
https://twitter.com/Alessan13775500/status/1176352464314011648?s=20
Ma Seyran Ateş non parla della Fallaci degli ultimi anni, parla del libro “Un Uomo“, che narra il legame della giornalista con Alexandros Panagulis, l’eroe della resistenza greca al regime fascista dei colonnelli.
“La dolorosa lettura del libro, all’inizio degli anni ottanta, mi ha aperto un mondo politico in cui è importante non trasformare la paura in un consigliere” ha chiarito Ateş, “In cui è importante lottare per la libertà anche al prezzo di rinunciare a certe comodità della vita. Anche al prezzo di rinunciare alla vita”.
Olympe de Gouges, una lotta che continua
Alla vita ha rinunciato anche Olympe de Gouges, femminista vissuta al tempo della rivoluzione francese e autrice della “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina“, che Seyran Ateş ha citato chiudendo il suo discorso.
Olympe de Gouges affermò: “Le donne avranno pur diritto di salire alla tribuna, se hanno quello di salire al patibolo” e sul patibolo salì anche lei, coraggiosamente, il 3 novembre del 1793.
Di lei Seyran Ateş ha detto: “Sarebbe fiera di noi e di quello che le donne hanno ottenuto lottando”.
(di Lucia Conti)
Magnifico articolo, complimenti!