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“Capitan Virus”, uno sguardo diverso sulle città vuote. A Bolzano con la fotografa Claudia Corrent

Un paesaggio diverso dalle città vuote. A Bolzano con la fotografa Claudia Corrent

di Giulia Mirandola

Claudia Corrent vive a Bolzano, in Trentino Alto-Adige. Lavora come fotografa freelance, tiene laboratori di educazione visiva rivolti alle scuole, ai pubblici dei musei, dei festival ed è laureata in filosofia estetica con una tesi su filosofia e fotografia di paesaggio. All’inizio dell’emergenza sanitaria internazionale ha dato avvio a “Capitan Virus”, un progetto visivo che ha protagoniste l’infanzia e l’adolescenza dentro le loro stanze.

A gennaio 2020 le sue foto erano esposte a New York, presso l’Istituto Italiano di Cultura, insieme a quelle di Renato D’Agostin, un fotografo della sua generazione, e di due giganti della storia della fotografia: Gianni Berengo Gardin e Fulvio Roiter.

I suoi lavori sono pubblicati da “la Repubblica”, “Der Spiegel”, “Die Zeit”, “Gioia”, “Corriere della sera”, “Courrier International”, “N by Norwegian” e on line da “Vanity fair”, “National Geographic”, “Il post”.

Capitan Virus cos’è, chi è?

Capitan Virus è il nome di un personaggio ispirato a Covid-19 disegnato da Dario (4 anni) mentre partecipava al progetto-laboratorio fotografico che ho realizzato durante la quarantena. Il titolo Capitan Virus ha questa origine. Una parte del mio lavoro si svolge nelle scuole, con i bambini e gli adolescenti. In Italia la gestione di queste fasce di popolazione è e continua a essere assente dalle decisioni governative e ministeriali legate alla pandemia.

Mi sono chiesta in molti momenti “Come stanno vivendo adesso i bambini, le bambine, i ragazzi, le ragazze?”. A un certo punto ho preso la decisione di trasformare questa preoccupazione e curiosità in un progetto visivo basato sulla narrazione fotografica dell’isolamento. Bambini e adolescenti sono stati da me invitati a realizzare insieme, a distanza, degli autoritratti. Per fare ciò abbiamo usato la webcam di un programma di videoconferenza e lo spazio domestico. Si trattava per me e per loro di provare a guardarsi e vedersi dentro la propria casa, stanza, immagine, a partire da un elemento fisso comune a tutti: il paesaggio domestico.

Bonnie e Alexandre (foto di Claudia Corrent)

Quali reazioni ha suscitato Capitan Virus? Puoi raccontare come si svolgeva una sessione di fotografia?

Per cominciare ho pubblicato un annuncio sulla mia pagina Facebook, le persone interessate mi scrivevano una mail alla quale rispondevo con un testo che spiegava il progetto e proponeva una data per incontrarsi a distanza. Hanno partecipato persone dai quattro mesi ai vent’anni, vivono a Bolzano, a Caserta, a Parigi, a Torino, a Ravenna, a Milano, in Trentino, a Roma, in Valtellina.

I genitori dei bambini più piccoli hanno sempre svolto un ruolo di mediazione nella prima parte della sessione fotografica. A tutti ho chiesto “Qual è lo spazio della casa nel quale vivi di più?” e la fotografia è avvenuta davanti/dentro quel paesaggio. L’inquadratura veniva scelta insieme a me, il più possibile larga, mentre lo scatto lo effettuavo io dalla mia postazione. I risultati sono fotografie a più mani e più occhi, né dei selfies, né delle foto del tutto mie.

Arianna (foto di Claudia Corrent)

Come pensi si sia trasformata la percezione del paesaggio esterno durante la quarantena?

Bolzano è diventata grande tanto quanto la capacità di ciascuno di immaginare lo spazio esterno. Abbiamo tutti “il cielo in una stanza”, il problema è quanto è grande o piccolo e per chi. Lo spazio privato è disomogeneo e mette in risalto le disuguaglianze sociali. Ciò che è diventato smisuratamente grande è lo spazio tra casa e ciò che non è casa, tra privato e pubblico. Anche il mondo vicino si è allontanato, è parso trasformarsi in un mondo distante. Nella dialettica io-mondo c’è stato un allungamento eccezionale.

In quali altri modi hai guardato il paesaggio della pandemia?

Non avevo voglia di raccontare le città vuote. Attraverso la webcam mi sono messa alla ricerca di luoghi irraggiungibili. Sono andata visivamente a Venezia e a Genova, città sulle quali lavoro da anni, ma anche in Israele, dove non sono mai stata in vita mia. Mi sono messa a osservare le persone nelle piazze e nelle strade deserte e mi sono sembrate essere delle miniature. Per uscire dalle mie mura domestiche ho messo il mio sguardo dentro l’occhio mobile della webcam, ho deciso l’inquadratura, scelto il taglio e fermato il tempo. Questo è stato il modo per me di indagare la relazione tra esseri umani e paesaggio nel periodo appena trascorso.

Qual è il tuo punto di vista rispetto al racconto visivo della pandemia a livello massmediatico?

Ho cercato di osservare e annotare. Mi restano impresse in particolare tre immagini: la prima è quella del drone che fotografa il ragazzo in fuga sulla spiaggia; la seconda sono le bare di Bergamo; la terza è il Papa che attraversa solo Piazza San Pietro vuota di persone. Cosa raccontano queste fotografie e quanto siamo in grado di leggerle in superficie e in profondità? Come si impara a farlo? Sono d’accordo con il fotografo Francesco Jodice quando afferma che la fotografia deve portare al di là di ciò che mostra, creare dei solidi dubbi. Mi occupo di educazione visiva e questo periodo non ha fatto che confermarmi l’importanza di imparare a leggere le immagini.

L’autrice

Giulia Mirandola si occupa di educazione visiva e progettazione culturale. Nel 2019 è giunta a Berlino grazie a “MoVE 2020″, un programma di mobilità transnazionale che le ha permesso di collaborare con la libreria berlinese Dante Connection. Scrive di editoria, librerie e biblioteche berlinesi per la rubrica “Finestra su Berlino” del magazine culturale di Goethe-Institut Italia.

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