Berlino: Aldo Rolfi, siamo tutti con te. La vergogna dell’episodio di Mondovì

Aldo Rolfi
Aldo Rolfi
Photo by ho visto nina volare

di Lucia Conti

Tutto ci aspettavamo, ma non di vedere ingiuriato Aldo Rolfi, figlio di Lidia Beccaria-Rolfi, arrestata dai fascisti nel 1944 e internata nel campo di concentramento femminile di Ravensbrück.

E invece a Mondovì, nel Rione Breo, all’alba del 2020, sulla porta dell’abitazione di Aldo Rolfi è comparsa la scritta “Juden Hier”, accompagnata da una stella di Davide, oscena parodia della Notte dei cristalli del 1938, durante la quale i cittadini tedeschi indicavano ai nazisti le case degli ebrei da rastrellare. Una scritta oscena, che per giunta denuncia anche la mancata conoscenza della storia di Lidia, che fu arrestata e deportata per motivi politici, ma non importa. Quando l’antisemitismo rigurgita in questo modo, chiunque è ebreo.

Abbiamo conosciuto Aldo Rolfi proprio a Ravensbrück, due anni fa, in occasione della Giornata della memoria, ripercorrendo insieme la storia di un luogo che ha visto passare e morire moltissime donne, ebree, detenute politiche, disabili, generiche asociali, elementi disfunzionali di un sistema che sopprimeva tanto il dissenso quanto la devianza rispetto a folli parametri di presunta perfezione.

Photo by ho visto nina volare

Garbato e lucido, Aldo Rolfi ci ha raccontato a lungo di sua madre, maestra elementare e staffetta partigiana, consegnata alla Gestapo, sopravvissuta all’orrore del campo e autrice di un libro, “Le donne di Ravensbrück“, che resta una delle testimonianze più dettagliate a riguardo. Le torture, gli esperimenti medici di Mengele, il transito a Ravensbrück di Irma Grese, “La iena di Auschwitz”, l’utilizzo delle internate come forza lavoro nella vicina fabbrica della Siemens, che produceva munizioni ed equipaggiamenti militari, e la resistenza silenziosa di quante riuscirono a sabotare le munizioni prodotte nelle ultime fasi della lavorazione, facendo la cosa giusta nonostante la paura.

Proprio grazie a Lidia oggi sappiamo inoltre che le Testimoni di Geova, che occupavano l’ultimo gradino della scala “gerarchica” delle vittime, avevano il compito di riversare nel lago le ceneri delle prigioniere bruciate nei forni crematori. Lo stesso lago in cui facevano il bagno, d’estate, i figli e le mogli delle SS.

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E noi quel lago lo abbiamo contemplato, insieme ad Aldo, durante la cerimonia di commemorazione, gettando fiori nel suo letto di morte. Abbiamo ascoltato di nuovo le parole di Lidia, parole potenti e senza tempo: “Voglio vivere per tornare, per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto e per gridare a tutti che sulla terra esiste l’inferno”. Sapeva, Lidia, che nessuna consapevolezza è data per acquisita e che bisogna lottare per la verità e per la giustizia, soprattutto quando la menzogna e l’ingiustizia diventano sistema. Davanti alle acque del lago non ci illudevamo di poter impedire al mondo di essere ingiusto, ma ribadivamo la promessa di essere testimoni onesti della storia, facendo del nostro meglio per dire la verità, per fare quello che è giusto.

Non ci aspettavamo che a distanza di due anni ci saremmo trovati a contemplare lo stupido orrore della scritta di Mondovì.

Per questo, oggi, noi del Mitte non possiamo tacere. Perché siamo umani, perché siamo italiani, perché siamo in Germania, perché abbiamo conosciuto Aldo, perché Ravensbruck è a un’ora e mezza di macchina da Berlino, perché non si può fare altrimenti. Perché il silenzio nuoce e in ultima istanza uccide, quando la vergogna alza la voce.

Coraggio, Aldo.