“La moria”. Un racconto senza tempo sugli stranieri
di Cinzia Colazzo
In memoria di Saramago
LA MORIA.
D’improvviso gli stranieri cominciarono ad ammalarsi.
Se ne accorsero i medici internisti, impegnati sul fronte dei malanni veri e immaginari. Quotidianamente si occupavano di coliti, ernie e calcoli, disfunzioni per cui prescrivevano con ritmo regolare analisi, diete e asportazioni, ma mese dopo mese osservarono delle ricorrenze anomale fra gruppi omogenei di pazienti.
Fu solo dopo un anno che la notizia cominciò a circolare. Una giornalista prese ad indagare, in seguito a una serie di casi sospetti, una cascata di assenze dal lavoro per malattia, e qualche ipotesi fu azzardata, tanto che negli ambienti delle comunità di stranieri si diffuse una certa inquietudine. I dirigenti degli ospedali stessi, dapprima scettici, promossero delle verifiche statistiche.
Dal novembre dell’anno precedente sino al febbraio successivo erano state effettuate quattrocentomila colecistectomie e avviate migliaia di procedure contro acufeni, disfunzioni epatiche e ingrossamenti della milza. Gli ospedali risultavano sovraffollati e molti degli interventi che prima richiedevano un ricovero venivano ora svolti ambulatorialmente: si lasciavano liberi i letti per i casi più gravi. Si cominciò ad assistere a scene poco degne di un Paese tanto progredito. Fu registrato il caso di una donna portoghese che scriveva lettere di protesta a tutti i vicini, accusati di azionare lavatrici e lavastoviglie nel cuore della notte, e alle ditte edili agenti nel quartiere, sospettate di utilizzare pompe idriche ad azione continua, in quanto assillata da un disturbo così atroce del sonno, per via dei rumori che sentiva, poi diagnosticati come tinnito, che fu ricoverata dopo poche settimane per esaurimento nervoso.
Non fu però un caso isolato: neurologi e otorinolaringoiatri dovevano fare doppi turni per smaltire i pazienti negli studi medici. Un russo perse venti chili in poco tempo, fu visitato da cinque specialisti, cambiò sei diete, ma la causa del deperimento rimase ignota. Fu tenuto in vita con le flebo. Durante il delirio piangeva penosamente invocando la Madrepatria e paesaggi di ponti levatoi sulla Neva. Accanto al suo c’erano altri quattro letti nella sala d’attesa. I ricoverati venivano parcheggiati anche davanti agli ascensori, nei piani interrati, nei magazzini delle riserve ematiche. Per mezzo di un censimento si calcolò che la popolazione di stranieri presenti sul suolo nazionale (oltre nove milioni) manifestava la tendenza ad esporsi con effetto domino a malattie croniche e degenerative.
Questo era lo stato delle cose nella primavera del secondo anno.
Poi cominciò la moria.
Gli stranieri cominciarono a morire.
Nelle settimane iniziali la notizia fu tenuta segreta, ma il primo maggio il giornale più letto del Paese sciolse i riserbi e pubblicò le foto dei moribondi insieme alla statistica sulle morti giornaliere. Si incrinò il sottile strato di prudenza che aveva tenuto congelate la circolazione di notizie e l’apprensione generale. Il portavoce del governo comunicò che la situazione era sotto controllo; le casse malattia, invece, fecero sapere che presto avrebbero dovuto dichiarare bancarotta; le pompe funebri cominciarono a pubblicizzare dei pacchetti completi a prezzi speciali destinati alle famiglie straniere in arrivo per i funerali, che prevedevano l’accoglienza in alloggi nei pressi dei cimiteri e lo svolgimento rapido di tutte le pratiche internazionali. Le varie associazioni etniche sul suolo straniero, Friends of Catalonia, Conexão Brasil, Sabaragamuwa Tea Abroad, Sardinia International, Pugliesi Nel Mondo e così via, organizzarono simposi a livello nazionale e locale, stamparono opuscoli informativi e richiesero il sostegno dei diplomatici in sede. Il picco dello stato di allarme fu raggiunto quando un politico di destra propose di ricorrere a fosse comuni per far fronte al problema dello smaltimento delle salme. Cori di protesta si levarono e il governo vacillò a tal punto che per un momento si temette il cedimento delle apparenze democratiche. I giornali nazionali lanciavano J’accuse in toni mordaci contro “quel mortal paese” in senso stretto e allargato che “a causa del suo clima, del suo cibo, della sua politica, della sua vena fascista sotterranea, del suo cuore d’acciaio espone all’agonia i cittadini stranieri, apparato locomotore della cultura e dell’economia”.
Si rivelò un’agitazione inutile. Gli stranieri, prima timidamente, poi incoraggiati dal passaparola, realizzarono che restava un’unica e ultima soluzione da tentare. Cominciarono a rimpatriare volontariamente.
All’inizio il flusso di rientro passò inosservato. In qualche cortile si vedevano abbandonati scaffali e reti ortopediche; gli appartamenti si liberavano alla svelta – e non venivano affittati immediatamente come sarebbe successo solo sino a poco tempo prima, perché ora gli stranieri non volevano più venire a vivere in quel paese. Qualcuno prendeva un’aspettativa dal lavoro, chi poteva richiedeva sussidi per infermità grave, ma i più se ne andavano caoticamente, lasciandosi dietro tutti i vantaggi di uno stato sociale forte.
Gli ospedali avvertirono una minore pressione e i medici in pensione che erano stati richiamati d’urgenza poterono tornare a oziare sui divani. Le quote di asportazioni, trapianti, interventi cardiaci e terapie psichiatriche rientrarono nelle statistiche ordinarie.
Alcune centinaia di stranieri restarono. Del resto, nessuno può prevedere l’arrivo della fine. Per molti di loro giunse rapidamente. E neppure la morte portò pace. Un morto ha le sue rivendicazioni. Cosa fare di una salma straniera? Su questo punto si scontravano le famiglie. La soluzione più pratica era seppellire i cari nel Paese in cui erano caduti. Per i parenti questo significava adeguarsi alle leggi locali. E in quel paese il morto non poteva essere vegliato in casa, secondo la tradizione greca dell’esposizione del cadavere e del compianto delle donne. Lì il corpo del defunto restava settimane nelle celle frigorifere dell’agenzia funebre, sino al completamento delle procedure. E neppure era possibile la sepoltura celeste tibetana – o la sua versione più moderna, il funerale ecologico svedese – secondo cui il corpo doveva rientrare nel ciclo vitale universale restando esposto all’aria come cibo per gli avvoltoi e compiendo l’ultimo atto di generosità verso gli altri esseri viventi. Le famiglie si laceravano nel dilemma, fra il desiderio di offrire una degna sepoltura secondo tradizione e la praticità di far sbrigare le pratiche alle agenzie locali, fra l’altro costosissime. Inoltre, come risolvere il caso in cui un morto si lasciava un pezzo di famiglia da una parte e dall’altra? A chi dare la consolazione di una visita al cimitero, a genitori e sorelle da quella parte o ai figli da questa? Spesso i defunti non avevano lasciato indicazioni testamentarie e i parenti non sapevano cosa fare.
Questi casi rivelarono che mai come da morti siamo stranieri fuori della patria.
Ben presto il flusso di fuga si fece isterico. I pochi stranieri che ancora erano in salute, con tutti gli organi al loro posto, o in attesa di trapianto, si sentivano osservati come se fossero morti viventi, e decidevano di lasciare il Paese da un’ora all’altra. Le assicurazioni mediche rifiutavano di pagare le prestazioni e i datori di lavoro facevano pressione perché gli impiegati stranieri se ne andassero di propria iniziativa. Gli avvocati si sfregavano le mani e cercavano precedenti a cui appellarsi. Con l’avanzare dell’inverno e di una insofferenza generale verso il destino e le condizioni atmosferiche, gli aeroporti vennero presi d’assalto, come pure le ferrovie, le vie di mare e le autostrade. Gli stranieri lasciarono il paese in massa.
Dopo Natale, sembrava che tutto fosse tornato alla normalità.
Furono i bambini ad accorgersi per primi che qualcosa non quadrava. Negli asili si ritrovavano in due o in tre a giocare con le costruzioni; in alcune scuole più della metà dei banchi rimaneva vuota. Era scena usuale che un padre con i suoi figlioli andasse all’angolo a prendere un kebab e trovasse la saracinesca abbassata. I fiorai cinesi nelle stazioni metropolitane avevano chiuso in fretta lasciando qualche petalo malconcio sotto le insegne. I bar, le pasticcerie, le gelaterie, le pizzerie e i ristoranti italiani avevano ceduto le attività ai commercianti locali, contenti di tornare al vecchio caffè solubile, agli stinchi di maiale e ai tocchi di patate lesse. Sulle lavagne ricomparvero i malinconici “Latte macciato” e “Spagetti bolognese” e il tricolore fu sostituito con l’altra bandiera. Molti fruttivendoli turchi esposero il cartello “Chiuso per inventario” e nel paese divenne difficile reperire generi alimentari che ormai erano entrati nell’uso quotidiano. Molti medici abbandonarono gli ospedali, numerosi docenti la loro carica, gli artisti svuotarono circhi e teatri; degli scienziati rimasero attivi solo quelli sulle basi aerospaziali. Le ditte edili registrarono le maggiori perdite, a causa della dispersione dei polacchi. La metà dei cantieri rimase in sospeso e il governo dovette minacciare di ritirare il sussidio a chi si rifiutava di prestarsi da muratore o imbianchino. Del resto gli appartamenti restavano invenduti, in quanto erano stati gli stranieri a importare la mentalità del “mattone sicuro”.
Dopo una precoce euforia, la gente cominciò a sentire una perdita.
E cosa successe agli stranieri rimpatriati?
All’inizio ci fu un certo sollievo da tutte le parti. Le famiglie ricongiunte godettero di qualche giorno di ritrovata armonia, dopo aver vissuto la minaccia del lutto. I politici si riempirono di paroloni e annunciarono programmi di reintegrazione, corsie preferenziali e assegni familiari, che però non furono mai convertiti in fatti. Dopo qualche mese la situazione si fece critica. Si arrivò alla conclusione che i Paesi non potevano riprendere indietro gli espatriati: non c’era lavoro. Le famiglie si ritrovarono con un peso in più o addirittura con nipoti in casa che neppure parlavano la lingua. I rimpatriati riacquistarono la salute, ma svilupparono forme lievi e gravi di depressione. Avevano idealizzato il ritorno a casa, e ora vedevano che non c’era posto per loro, come non ce n’era stato prima, ai tempi dell’espatrio. Cominciarono anche a prendere le misure diversamente. La casa paterna non era poi così accogliente come la ricordavano, ma fredda e umida e dalle pareti talmente sottili che si poteva sentire quando il vicino di sopra urinava; oppure era una casa troppo angusta, troppo semplice, troppo calda; il clima risultava indesiderabile, la tivù locale indecente, la tassazione estrema, la coda nei negozi assai lunga, il ritardo dei treni intollerabile. Le famiglie stesse erano in realtà un nodo stretto di vincoli e aspettative deluse e i rimpatriati, soprattutto le donne, non avevano intenzione di rinunciare all’emancipazione che avevano guadagnato. A poco a poco gli stranieri caddero in uno stato di frustrazione. Avvertirono il risentimento delle famiglie, l’abbandono da parte della politica, la perdita della loro identità, la nostalgia per quanto avevano messo in piedi. Erano stranieri là come qua.
La situazione divenne imbarazzante per tutti.
Drammatica era la lacerazione interna per gli ebrei. Sarebbero dovuti rientrare? Israele non sembrava il posto più raccomandabile. Un’euforia di ritorno si fece largo nell’animo di alcuni. La fine della diaspora… ma il destino era ancora una volta impietoso e beffardo. Ovunque si voltassero c’era il martirio. Una generazione si era appena sistemata e la successiva doveva già sgombrare. Quel Paese li rigettava nuovamente, e questa volta senza sporcarsi le mani. Per le madri divenne una scelta atroce. Si trattava di calcolare in quale dei due Paesi fosse più probabile la morte dei figli.
La situazione divenne l’emblema di un dramma millenario senza soluzione. Quanto valeva l’esistenza individuale rispetto al progetto di un intero popolo? Morire volevano tutti in Israele, o quasi tutti, ma c’era tempo, c’era ancora tempo.
La gaiezza del ritorno divenne per molti la rivelazione di un’illusione. Il paese dell’infanzia, dei nonni, dell’albero di limone, dei giochi per strada, dell’ottimismo non esisteva più, nella realtà esterna come pure nella percezione personale. Dove andare? L’Europa era tutta ovunque uguale, le zone agricole avevano un aspetto desolato e triste, le città erano dominate dalle catene multinazionali e dagli speculatori immobiliari. Dappertutto la stessa difficoltà a farsi spazio. Provarono allora ad immaginare un nuovo Paese in cui emigrare, un nuovo idioma da indossare, una nuova vita da imbastire su un altro punto del globo. Tutto pur di vivere, pur di mantenere l’esistenza in piedi. Un effetto positivo dell’emergenza fu la dissoluzione di una massa incommensurabile di noia che da qualche tempo aveva colpito molti di loro, la perdita di un orizzonte di senso e una certa nausea per un Paese che assicurava la sopravvivenza in cambio dell’obbedienza. Qualcosa si risvegliò in loro, qualcosa emerse dal letargo delle case surriscaldate.
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Diverso era il destino del sangue misto. In qualche modo l’essere nati da un genitore del posto aveva protetto i cittadini di doppia nazionalità. Potevano identificarsi con una o l’altra cultura e far germogliare un nuovo innesto che era una combinazione flessibile e personalissima di aspettative, ricordi, preferenze culinarie, vocabolario e orgoglio nazionale.
Questi cittadini, fra cui molti bambini, non si ammalarono.
Si aprirono dunque crepe e spaccature profonde nei sistemi familiari. Qualcuno rimase insieme ai bambini, qualcuno li portò via, altri se ne andarono lasciandoli al genitore autoctono, aspettando che la furia distruttrice si placasse.
Questa era la situazione all’inizio del terzo anno.
In primavera si fece strada la pallida prospettiva di una risoluzione. Una ragazza fuoriuscita, dottoranda in filosofia della medicina, pubblicò una serie di articoli sul fenomeno delle morti selettive. In base alle sue ricerche e a seguito di lunghe riflessioni, concluse che gli stranieri si erano ammalati perché la loro energia vitale era stata assorbita e consumata dallo Stato che li aveva ospitati. Per energia vitale dovevano intendersi anche le competenze e la cultura, l’umanesimo, l’umorismo, la gastronomia, la medicina, la leggerezza, la fantasia, la poesia, le doti di intraprendenza, rapidità, flessibilità e la capacità di compensare una mostruosa insuperabile tragedia che aveva paralizzato le coscienze di quel Paese mezzo secolo prima. E certo, anche i figli, perché gli stranieri avevano dato al Paese anche i propri figli.
Un nuovo orgoglio serpeggiò negli animi dei fuoriusciti. Si trattava di un sottile desiderio di rivendicazione, di rivalsa, ma anche di un comprensibile sollievo per l’attribuzione di senso alla loro inesplicabile sofferenza.
La dottoranda analizzò punto per punto le malattie degenerative sviluppate dagli stranieri e la loro interpretazione psicosomatica. Spalancata questa prospettiva, altri studiosi elaborarono comparazioni e illuminarono nuovi paradigmi. Fiorirono figure retoriche per tratteggiare lo scenario di una terra disadorna e affranta richiamante risorse vitali estere che la fertilizzassero – solo che ora quel disordine tropicale non piaceva più e si voleva tornare ai filari schierati. Sulle riviste scientifiche venne enunciata una teoria esplicativa dal punto di vista del karma. Caddero tutte le prese di posizione: vittime e carnefici si fronteggiavano ora su un’unica scena e non potevano più essere certi dei debiti e dei crediti. Chi aveva tolto? Chi aveva sacrificato? Chi aveva fatto terra bruciata e chi era risorto dalle ceneri? Si trattava di un conto da pagare, ma i libri contabili era stati fatti sparire. La legge del karma è: rivivere una situazione all’infinito sinché non la si comprende.
Queste visioni vennero liquidate come pure fantasie di ciarlatani, ma in molti sciolsero antiche lacrime condensate.
In qualche modo la moria seguiva una sua logica ed esortava a comprendere.
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