Appuntamento con la storia a Karl-Marx-Allee
di Eleonora Massa
A pochi chilometri dalla storia ben confezionata del Checkpoint Charlie, non troppo distante dal pullulare delle frotte turistiche di Postdamer Platz e di Brandeburger Tor, poco oltre Alexanderplatz dove, di solito, gli occhi delle masse incuriosite smettono di guardare, c’è un luogo che non si limita a raccontare storie: un luogo in cui la Storia, ancora, urla: è la Karl-Marx-Allee.
Strepita in un modo strano, su due chilometri di lunghezza e novanta metri di larghezza, la Storia: non attraverso il rimbombo delle corde vocali, nel frastuono di un boulevard eccitato, non nel fremito del traffico impazzito e del commercio delle boutique d’alta moda.
L’impressione immediata, la prima volta che arrivo sulla Karl-Marx-Allee – era il finire dell’estate del 2004 – è che il viale sembra estraniarsi – sembra astrarsi – dal suono. I rumori degli pneumatici che la solcano sembrano echi lontani, remoti, impercettibili: ad assordarmi, invece, sono i Plattenbauten schierati lungo la prima parte del viale, quella che dà il benvenuto subito dopo essersi lasciati alle spalle Alexanderplatz. In tedesco si direbbe che sono scheußlich – orribili, orrendi, spaventosi – blocchi di alveari prefabbricati in cemento armato. Tra un blocco e l’altro ci sono degli spazi verdi, tutti uguali, e non c’è anima viva: di nuovo, è prima di tutto il silenzio a stordirmi.
Conosciuta fino al 1961 come Stalinallee, la Karl-Marx-Allee era la “strada dei lavoratori”– la prima strada socialista della Germania: fulcro del programma nazionale di risanamento post-bellico della Repubblica Democratica Tedesca (Deutsche Demokratische Republik/DDR), la sua realizzazione si avvalse della partecipazione entusiasta degli operai che, dopo il lavoro, contribuivano volontariamente all’opera di costruzione. Fu così fino al 1953, quando l’entusiasmo venne smorzato dalle proteste popolari contro la riduzione dei salari e l’aumento del monte ore, sfociate poi nella rivolta del 17 giugno e represse con l’intervento della Rote Armee (l’esercito sovietico), a segnare, forse, un primo punto di collisione tra l’ideale e la prassi. Di fatto i blocchi di cemento armato incarnavano il modello dell’efficienza abitativa socialista: “solo il meglio per il lavoratore”, recitava l’unità programmatica della DDR, a cominciare dal comfort domestico; rispetto agli Altbauten, gli edifici antecedenti la guerra, i Plattenbauten vantavano lussi quali il riscaldamento centralizzato e l’acqua corrente.
L’impressione immediata, la seconda volta che metto piede sulla Karl-Marx-Allee – erano gli ultimi giorni del 2014 – è che la coltre di neve che la ricopre abbia finito con l’attutire anche gli echi sfumati di suoni inafferrabili. A tramortirmi, ancora una volta, è la potenza monotona – eintönig, in tedesco – del susseguirsi dei blocchi prefabbricati, tutti uguali anch’essi come i giardini; ad assordarmi, nuovamente, è il boato dell’assenza di ogni vivere comune, ordinario, quotidiano.
Era il viale delle parate, la Karl-Marx-Allee: la strada del lustro ideologico, lo spazio in cui l’idea si fa luogo o, meglio, il luogo è l’idea.
L’idea che continua a emanare, a effondere, a sprigionare quando, con i Plattenbauten alle spalle, si prosegue verso Est, verso la parte orientale della Allee, quella che conduce a Frankfurter Tor. All’epoca della loro costruzione, chi riusciva a ottenere un appartamento in uno degli Arbeiterpaläste (i “palazzi dei lavoratori”) poteva dirsi arrivato: edifici monumentali dalle imponenti facciate, in pieno stile neoclassico socialista, non di rado tacciati di eccessiva ornamentalità e decorativismo, tanto da far loro guadagnare l’appellativo di opere realizzate secondo lo “stile della torta nuziale” (lo Zuckerbäckerstil), una contaminazione barocca del rigore classicheggiante.
Penso al luccichio di riflettori e paillettes di cui doveva brillare in occasione delle prime cinematografiche il Kino International, quando lo oltrepasso sulla mia sinistra; uno sfondo di Plattenbauten alle spalle e un rettilineo che va a perdersi nel fulcro di Frankfurter Tor in prospettiva. Provo ad ascoltare il chiacchiericcio delle stelle del cinema e delle massime cariche statali riunite per la première, provo a sentire il tintinnare dei bicchieri alzati per il brindisi, provo a respirare un po’ dell’aria densa di fumo della sala bar arredata dei toni del beige e della sabbia.
E senza nemmeno accorgermene, ho già raggiunto Strausberger Platz, che segna il confine tra la prima parte della Karl-Marx-Allee, quella dei Plattenbauten, e la seconda, quella degli edifici in “stile torta nuziale”. La si ritrova, questa piazza di confine, immersa solamente nella luce notturna, in un’inquadratura totale di Le vite degli altri (Das Leben der Anderen).
Di tanto in tanto, mentre continuo a camminare, vedo qualche sporadica sagoma umana venirmi incontro, a piedi, in bicicletta, o solcando il manto candido con i pattini di una slitta.
Proseguo e mi rendo conto che i miei occhi riescono a mettere a fuoco solo tenui, sottili, impalpabili passaggi cromatici: così, le differenze sono pressoché impercettibili e tutto, di converso, sembra grosso modo uguale.
Arrivo all’altezza di un nuovo blocco architettonico in cui, sopra tutto, si erge ancora fiera l’insegna della Karl-Marx-Buchhandlung, la più grande libreria di Berlino ai tempi della DDR. Penso agli assetati di parole scritte che, un tempo, dovevano aggirarsi curiosi tra gli scaffali dei suoi quasi duemila metri quadrati di superficie. E mi sembra di sentire, in lontananza, quel fruscio: quello che si consuma tra le mani di chi non ha ancora trovato le parole giuste, o di chi ne ha trovate addirittura troppe e non sa bene quali scegliere. La si ritrova, la Karl-Marx-Buchhandlung, come sfondo all’ultima scena di Le vite degli altri (Das Leben der Anderen), appena dopo la Wende, ancora in grado di spargere parole.
Proseguo diritto, mi pare quasi di fondermi al rettilineo d’asfalto, quando mi accorgo di aver ormai raggiunto Frankfurter Tor, le cui due torri marcano la confluenza della Karl-Marx-Allee nella Frankfurter Allee, la quale prosegue verso Est, verso Frankfurt an der Oder, verso la Polonia.
Potrei continuare a mettere un passo dietro l’altro, potrei raggiungere la East Side Gallery, potrei poi scivolare nel labirinto di Kreuzberg: ma decido che ci andrò “dall’altra parte” e, allora, sarà tutta un’altra storia.
Cambio lato e torno indietro.
Percorro ancora la perfetta geometria dei viali alberati e, lasciandomi alle spalle un metro dopo l’altro, provo a fiutare l’aroma dei volti incipriati delle clienti imbellettate del Kosmetiksalon. Babette, tento di annusare la fragranza di talco della biancheria da letto dell’Hotel Berolina; mi sembra di distinguere gli accordi dei giovani artisti riunitisi al Mocca Milch Bar, di riconoscere il mormorio di sottofondo delle chiacchierate al Café Sybille.
Doveva esserci tutta una vita qui.
Il mio sguardo, all’orizzonte, abbraccia la Torre della Televisione – il grande occhio che veglia su Berlino.
Ci si sente piccoli, insignificanti, infinitesimali, lungo la Karl-Marx-Allee. Al tempo stesso, ad ogni passo, ad ogni centimetro, ad ogni metro si riflette su quanto possano essere grandi le idee e a quanto esse si facciano ancora più maestose, quando lasciano questo mondo e tornano nell’ordine delle cose che appartiene loro.
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Non c’è confine con la Storia, lungo la Karl-Marx-Allee; bisognerebbe spingersi oltre, penso, mentre i Plattenbauten tornano nuovamente ad occupare il primo piano. La Storia è lungo la Karl-Marx-Allee: intrepida, sfrenata, indomita urlatrice silenziosa.
E infatti, non appena metto un piede fuori dalla strada, la storia finisce.
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