Unconventional Berlin Diary: rose da Pegida e incursione al KitKatClub
Cosa inizia con i Distillers, continua con Mahler e Pegida e finisce al KitKatClub? Facile, la mia ultima settimana, che ho passato correndo come al solito per Berlino, unendo tutti i puntini e sperando di intravedere un disegno, prima o poi. Intanto tutto è iniziato con un profumo e con un ricordo.
In me la memoria è spesso olfattiva. Odori casuali fanno emergere all’istante immagini di un passato remoto fatto di visi, luoghi, emozioni a volte vecchie di decenni e io mi trovo all’improvviso da un’altra parte, in un altro tempo.
Martedì mi è capitato mentre lavoravo, in un bagno che aveva lo stesso odore di quello di mia zia: crema emoliente, detersivi in polvere, saponette e silenzio, quello tipico delle case non troppo vicine alla città. Perché quel silenzio ha un odore.
Mi sono ricordata di quando ero bambina, di come mia zia mi chiedesse sempre un bacio anche quando ero ormai adulta (Dai un bacio a zia!) e di come trovi ingiusto il fatto che non ci sia più. “We don’t rest in peace, we just disappear”. È incredibile come una frase così vera sia contenuta in un brano senza pretese come “City of angels”. Non è neanche il mio preferito, dei Distillers.
Di Mahler in peggio: il donatore di rose con simpatie per Pegida
Mahler in compenso mi porta al cospetto dell’eterno. Recentemente ho riascoltato tutto il quarto movimento della Sinfonia n.5 (se avete visto “Morte a Venezia” di Visconti lo conoscete) e sono sprofondata per l’ennesima volta nella sua struggente maestosità.
Era nella playlist di un cliente olandese, che si è anche scusato. Forse pensava che possedere una chitarra elettrica mi renda ostile alla musica classica. Follia pura. La sottoscritta ha persino pianto davanti a tutti alla Deutsche Oper, durante “La bohème”.
L’apoteosi della settimana, però, l’ho raggiunta ricevendo rose rosse da un altro cliente, un anziano signore con simpatie per Pegida, movimento xenofobo di estrema destra con l’obiettivo di spazzare via gli “invasori” come me.
Mi ha prenotata per un solo appuntamento, ha visto che ero “gravemente non tedesca” e nonostante tutto è corso dal fioraio ed è tornato con i fiori. Magari subisce il mio fascino, forse ritiene gli italiani degli immigrati accettabili oppure pensa che le rose siano un modo adeguato di ringraziare la persona che gli pulisce il salotto, anche se è una di quelle che Pegida vorrebbe cacciare dalla Germania a calci.
Mentre spolveravo, ha continuato a tessere le lodi del suo gruppo anti-immigazione preferito e alla fine mi ha chiesto di andare da lui regolarmente. “Tornerai? Mi farebbe piacere!” mi ha detto sorridendo. Piuttosto mi tiro giù il cervello dal naso con un uncino in bronzo, come gli imbalsamatori egizi.
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Tutto questo mi riporta alla mente un tipo con cui andavo all’università e che si distingueva per la discutibilissima abitudine di usare un fermacarte a forma di fascio littorio.
Cercava sempre la mia compagnia e alla fine gli chiesi perché, visto che sono più antifascista dell’Anpi. Mi rispose che le differenze sono “la bellezza della vita”. Un fascista democratico. Non so che fine abbia fatto, ma dovrebbe frequentare il confusissimo simpatizzante di Pegida. O magari cambiare fermacarte.
E poi finalmente il KitKatClub
Per concludere, sono andata al KitKatClub con la mia ragazza, Wolfgang. Non c’ero ancora mai stata, perché non amo il clubbing, in nessuna forma. Al Berghain sono andata una sola volta, ma a un concerto di Blixa Bargeld e saltando la fila, perché ho registrato con il produttore degli Einsturzende Neubauten e mi ha fatto entrare lui (grazie, Mephisto).
Il Kit Kat è un altro di quei club iconici di Berlino di cui non si fa che parlare e che ti fa sentire in colpa quando lo diserti, come se ti stessi perdendo l’essenza stessa della città. Insomma, alla fine ci sono andata per dare un’occhiata, per dovere di cronaca e per non avere, un domani, il rimpianto di non averlo fatto. Almeno al KitKat non c’è la fila disumana del Berghain.
Nonostante tutto, sapevamo di dover affrontare comunque una selezione all’ingresso. È una misura necessaria a preservare l’atmosfera giusta e quindi la privacy della clientela. Ci siamo presentate in camicia e con due maschere sul viso, niente di più, ma abbiamo passato lo stesso l’esame. Probabilmente per via della nostra palese “aria da queer”. Una volta entrata nel club, mi sono preparata a sperimentare quello che già sapevo avrei provato: la noia. “E perché non sei rimasta a casa?” potreste dirmi. Giustissima osservazione. Nessuna obiezione, da parte mia.
Come un triangolo a una festa di sfere
Non mi fraintendete, il KitKat è un bel posto, libero, inclusivo e sicuro, almeno per quello che ho visto quella sera, ma io non ero in sintonia con la serata e così Wolfie. Mentre chiunque, ovunque, si dava alla pazza gioia in mille modi, io non provavo assolutamente nulla e così Wolfie. Mentre tutti ballavano, io realizzavo che la techno trance non è proprio il mio genere e così Wolfie. Era come essere due triangoli a una festa di sfere.
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Per un paio d’ore, siamo rimaste in mezzo al dancefloor, a chiacchierare e a muovere i piedi con indolenza. Alla fine abbiamo bevuto un paio di gin tonic e ce ne siamo andate, ma non prima di aver catturato l’immagine di un uomo in smoking, che in bagno si aggiustava il papillon in un viavai di gente nuda, come una comparsa di “Shining”. Un’immagine potentissima, da vertigine. Bellissima.
Siamo tornate a casa con le mani intrecciate. Forte era la sensazione di essere sempre in qualche modo “parallela” a quello che succede. Mai nelle cose, mai davvero partecipe, ovunque io sia e chissà poi perché. Ad ogni modo, KitKat visto. Task accomplished.
♠ Colonna sonora: The Distillers – “City of Angels” ♠
Machete
Machete vive a Berlino dal 2013.
Ama la musica, il cinema, la letteratura e la serotonina.
A otto anni sperava che prima o poi qualcuno avrebbe inventato una pillola contro la morte. Un po’ lo spera ancora.