Unconventional Berlin Diary: gente che ho visto solo a Berlino

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A Berlino è arrivato febbraio e con febbraio la neve, anche se si è sciolta quasi subito. Assistendo alla prima nevicata della mia vita, da piccola, svenni per l’emozione. Non credo che capiti spesso ai bambini tedeschi, esposti al gelo già da poppanti, d’inverno, “perché così si abituano”.
A Colonia facevo la babysitter per una ragazza che metteva la figlia a dormire sul terrazzo, a dicembre. La bimba aveva le guance rosse come quelle di Heidi, quindi forse le faceva bene davvero. Gente strana, ma che probabilmente sopravviverà al Ragnarǫk. Io resto comunque spaventata dalla pratica, sia messo agli atti.

Gente che va, gente che viene

La mia coinquilina è Napoli, per seguire la registrazione di un quartetto d’archi. Questo vuol dire che per un po’ verrà meno il nostro rituale fatto di cene senza carboidrati e film rigorosamente ripartiti in due categorie, “stranieri” e “potremmo optare per qualcosa di italiano”. A pensarci bene abbiamo anche la categoria “minchiate”, ma solo se abbastanza indecenti da rientrare nella categoria “so bad, it’s good”.


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In compenso sta venendo a trovarmi la mia ragazza, detta anche Wolfgang. Dopo anni di rapporto a distanza, ci incontriamo in tutto il mondo tranne a casa nostra: Budapest, Praga, Parigi, Bruxelles, Tokyo (via Abū Dhabī), senza contare quella volta che pensava fossi morta a Philadelphia.

Recentemente abbiamo litigato e l’ho chiamata “Sturm und Drang asshole”, ma naturalmente non vedo l’ora che venga. La cosa buffa è che non ricordo neanche il motivo della lite.

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Il punto è che da quando stiamo insieme ha fatto cose come scendere dalla metro all’improvviso e a metà percorso e scappare via, mentre tornavamo a casa da una festa, perché aveva l’impressione che fossi fredda con lei. Spoiler: non lo ero. Ho passato il resto della notte a rincorrerla e poi a “parlare del nostro rapporto” a casa. A letto. Con le palpebre di cemento e in dormiveglia.

È un genio con il QI di Alan Touring, la capacità di acquisire qualunque abilità al massimo livello e il viso di Kurt Cobain, ma ha anche undici anni di meno di me e la differenza pesa, visto che anch’io sono ancora giovane. Ok, diciamo “giovanile”. Comunque è anche la persona più originale che conosca, con la sua incredibile vivacità intellettuale, le sue speculazioni avanguardistiche, la sua genuina bontà e l’assurda capacità di sembrare sempre elegante come David Bowie, anche pescando capi a caso da un cesto di panni usati. La amo, non si è capito?

Gente che ho visto solo a Berlino

Intanto continuo a macinare chilometri, in città. Per necessità, ma mi piace. Per me che amo osservare le persone che incontro, Berlino è una specie di meraviglioso libro illustrato, anzi, un film che mi scorre davanti, pieno di personaggi in movimento che non mi stanco di guardare.

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Foto: Laquena at English Wikipedia, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

La statua vivente meno immobile d’Europa

Anche ieri ho camminato tanto, senza rendermene conto. A Wilmersdorfer Straße ho visto un uomo che faceva la statua vivente come peggio non avrebbe potuto. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli che la principale caratteristica di una statua vivente è l’immobilità. Magari avrebbe potuto ricordarglielo Amanda Palmer, che un tempo si esibiva come “The eight foot bride” su una cassetta della frutta, ma in fondo c’è bisogno di spiegarlo?

La statua vivente è perfettamente immobile, perché deve sembrare una statua vera, punto. Sono le basi del mestiere. Il poveraccio invece strizzava gli occhi, muoveva le dita, contraeva le spalle. Negato. Avrei avuto voglia di abbracciarlo e nella mia mente l’ho aggiunto alla galleria dei personaggi surreali che mi capita di incontrare a Berlino. Li archivio tutti nella mia memoria, all’interno della cartella “sconosciuti a cui voglio a caso tanto bene”.

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Un pappagallo sulla spalla, ma non siamo ai Caraibi

Ricordo ad esempio l’uomo con un pappagallo esotico sulla spalla che ho visto a Gesundbrunnen, una domenica mattina. Faceva freddo, ero sull’S-Bahn, meditavo di comprare un panino dolce all’uva passa e di bere un caffè, godendomi il giorno libero.

L’uomo era all’esterno, un tipo sui quarantacinque, con gli abiti stazzonati, ma in modo disinvolto, la barba di un paio di giorni e l’aria rilassata. Il pappagallo, tenuto da una catenella di metallo, era un’esplosione di colori. Muoveva la testa su e giù nel freddo limpido del mattino, mentre l’aria si condensava attorno alla sua bocca. È durata qualche secondo, poi il treno è ripartito.

Il ponte, il vento, un sorriso, la pace

Sul ponte di Warschauer, invece, ho visto una clochard in sedia a rotelle, con una coperta sulle ginocchia, intenta a rollarsi una sigaretta. Detesto quel ponte, sembra infinito ed è continuamente esposto alle intemperie. Lo attraverso per andare a fare le prove, sempre tardi e sempre al freddo, senza contare che ci metto un’ora per arrivare e un’ora per tornare, da Charlottenburg. Insomma, per me il ponte di Warschauer è il simbolo stesso del disagio, un luogo da cui allontanarsi più in fretta possibile.

Invece quella donna in sedia a rotelle lo aveva scelto per stazionarci comodamente, mentre il vento le storpiava un sorriso estatico che io non avrò mai.

Ricordo solo quel sorriso e le sue mani, legnose attorno alla sigaretta in fieri, tremanti, ma solo per il freddo. Era pomeriggio ed era un giorno feriale. Guardandola, ho pensato: “Deve essere proprio questa, la pace”.

L’eleganza del degrado tra la gente: il re indiscusso della galleria

Soprattutto, però, ricordo l’ubriaco in pantaloni rosa, la figura che più di tutte mi ha colpita e che ancora adesso ogni tanto “ritorna”, come un pop up.

La parte superiore del corpo era abbigliata come quella di un bancario di mezza età: giacca grigia, camicia, capelli corti, brizzolati, viso severo. Sembrava una stock photo di impiegato generico, letteralmente uno stereotipo animato.

Era la parte inferiore a scardinare tutto.

Il tipo infatti ondeggiava pazzamente su un paio di tacchi a spillo e indossava pantaloni rosa, lucidi. Niente di particolarmente strano, per Berlino e per l’anno domini in cui ci troviamo. I “tacchi da uomo” possono ancora fare scalpore, ma sicuramente non nella città in cui ci sono locali in cui si balla la Schlager nudi… e se accade questo nel circuito del folklore tradizionale, immaginatevi nel resto della “free Berlin”.

A colpire era più che altro il contrasto tra “sopra e sotto” e il fatto che l’uomo se la fosse palesemente fatta addosso. Camminava allontanandosi delicatamente dal corpo, con due dita, il cavallo fradicio dei pantaloni, mentre nell’altra mano stringeva una bottiglia di liquore quasi vuota. Credo di aver visto poche immagini più potenti nella vita: Gregor Samsa, Jackie O. ed “Hank” Bukowski, cuciti insieme da David Cronenberg. Eravamo in una stazione della metro, di sera. Non ricordo quale fosse, non ricordo dove stessi andando, ma non dimenticherò mai lui.

Chissà che fine ha fatto? Vorrei sapere tutto della sua vita. Vorrei che me la raccontasse, davanti a un tè delle cinque allungato col Southern Comfort.

Intanto attendo nuove creature e nuovi incontri, perché mi piacciono questi momenti, queste istantanee colorate sotto il cielo grigio di Berlino. Rompono la monotonia, attirano l’attenzione e soprattutto rappresentano l’imponderabile e quindi un inciampo, nell’eterno cammino verso la macelleria dell’estinzione. A pensarci bene, questi momenti sono la cosa più bella del creato.

 

Colonna sonora: “Stranger”, Christian Rainer  ♠


Machete

Machete vive a Berlino dal 2013.

Ama la musica, il cinema, la letteratura e la serotonina.

A otto anni sperava che prima o poi qualcuno avrebbe inventato una pillola contro la morte. Un po’ lo spera ancora.