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Fernweh, o del perché vogliamo scoprire il mondo

di Valerio Polani

Eravamo in dieci in quella classe e quasi tutti venivamo da paesi diversi. Ogni volta che  arrivavo a lezione, infatti, ero sopraffatto dall’impressione che il mondo non fosse poi così grande e vasto come si credeva.

Io ero seduto in mezzo a Yen Chin che veniva da Taiwan, e a Lucas, che invece era boliviano.

Le nostre culture erano totalmente diverse, ed inevitabilmente  di conseguenza, anche le nostre vite.

Eppure in quel preciso momento, contemporaneamente, la nostra attenzione era focalizzata su Sylvia, la nostra insegnante di tedesco che, tra un dativo e un accusativo, ci stava chiedendo perché fossimo a Berlino e cosa ci aspettassimo dal nostro futuro.

Mi sento stupido, tutt’ora, ad esser rimasto perplesso davanti ad una domanda così semplice.


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La verità è che non lo sapevo!

O meglio: sapevo di stare cercando qualcosa, ma non sapevo esattamente cosa.

Mi sentii un bambino ad ascoltare le risposte così precise degli altri, incredibilmente immaturo a non aver ancor programmato la mia vita come loro, nei più precisi dettagli, avevano fatto.

Quando arrivò il mio turno e toccò a me rispondere, girai intorno all’argomento.

Ok, cercai di spiegare perché mi ero ritrovato a Berlino, ma comunque dissi che non avevo idea alcuna se quello fosse per me un punto d’arrivo o di partenza.

Poi provai a spiegare un altro milione di cose con un tedesco parecchio impreciso e che lasciava fin troppo spazio all’interpretazione.

Non so se ci riuscii.

Fernweh: l’irrequietezza che ci porta verso il mondo

“Fernweh”, disse Sylvia con l’aria di una che ha capito esattamente cosa intendi.

Rimasi stupito. Ero scettico. Mi veniva davvero difficile crederle.

Non riuscivo a comprendere come un concetto così articolato come quello che stavo provando a spiegare, potesse, in tedesco, essere racchiuso in sette lettere.

In una sola parola.

Sylvia aveva capito.

L’irrequietezza mi governava e un senso di appartenenza al tutto e al niente mi lasciava schiavo della voglia di incamminarmi ad andare a scoprire il mondo.

Un’esplosione di emozioni mi inondava come fosse la lava di un vulcano imploso dentro di me.

Avevo lasciato Roma, dove nulla mi mancava, per finire a Berlino alla ricerca di un qualcosa che non sapevo nemmeno io.

Quella curiosità di esplorare, mi aveva reso totalmente inerme davanti la sua forza; mi aveva portato a salire su un aereo e a lasciare i miei affetti, donandomi un coraggio che non immaginavo neanche  di possedere.

Ed ora lì, una simpatica signora di mezz’età tedesca che avevo conosciuto da poco più di un mese, mi stava spiegando che tutto ciò che provavo e che sentivo dentro di me, era in tedesco descrivibile con una sola parola.

Mi innamorai del tedesco, e fu lì che per la prima volta dimenticai la bruttezza di quei suoni così duri e freddi che lo caratterizzano e misi da parte l’assurdità del neutro e di tutti quei fottuti casi che neanche i tedeschi stessi riescono a spiegarsi.

La lezione poco dopo finì e mi affacciai alla finestra.

Faceva caldo, c’era il sole, e un aereo si allontanava in volo…

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