Bockenheim, ennesima occupazione e sgombero: un contributo al dibattito sulla cultura

L'edificio occupato a Bockenheim.
L'edificio occupato a Bockenheim.
L’edificio occupato a Bockenheim. Foto da Facebook

Bannerino_FrancoforteFrancoforte – È di qualche giorno fa la notizia dell’ennesimo tentativo da parte di un collettivo di occupare uno dei numerosissimi edifici abbandonati della città. Questa volta si è trattato di una Villa a Bockenheim.

Il fatto è successo sabato ma in meno di quattro ore, come al solito, la polizia è intervenuta e sgomberato i giovani. La proprietà dello stabile è da ricondursi alla ABG, la “municipalizzata” di Francoforte che si occupa appunto delle proprietà del comune e che negli anni, in realtà, è cresciuta fino a diventare uno dei conglomerati di potere più rilevanti della metropoli sul Meno e del suo sistema amministrativo.

L’amministratore della ABG Frank Junker, in una intervista al Frankfurter Rundschau, è stato esplicito: “Le occupazioni non si possono tollerare” e ha annunciato che la ABG ha deciso di proseguire il contenzioso, anche dopo lo sgombero, per vie legali.

Gli occupanti, dal canto loro, dopo essere stati cacciati, non hanno esitato a farsi di nuovo vivi. Per la precisione è successo al dibattito sul tema delle politiche culturali cittadine svoltosi al Museo della Comunicazione a cui presenziava lo stesso sindaco Peter Feldmann. L’incontro è stato interrotto dal collettivo di Leerstelle (così era stata chiamata l’occupazione per la sua brevissima vita) che ha srotolato uno striscione e fatto un po’ di “casino”.

A ragione bisogna dire che, una volta interpellati dai presenti, i ragazzi hanno avuto un po’ difficoltà a esprimere la propria idea di cultura autonoma. Eppure bisogna anche prendere atto che, pur nella loro confusione, l’evento di Leerstelle offre un contributo importante al dibattito sulla cultura che vede schierati su due fronti opposti l’amministrazione cittadina e i direttori delle diverse istituzioni culturali.

Il sindaco Feldmann può parlare quanto vuole di cultura per tutti e dal basso, ma le sue parole, non si può che constatare, stridono rispetto ad una politica che sistematicamente castra ogni tentativo di prodursi di spazi culturali autogestiti e che oltretutto fa chiudere quelli già esistenti.

Non bisogna dimenticare infatti che la serie di occupazione e sgomberi che si sono susseguiti nell’ultimo anno è scaturita dalla chiusura dell’Ivi nel 2013, istituto occupato da dieci anni nel vecchio campus universitario. E proprio intorno al vecchio campus e alla speculazione che ne potrebbe scaturire (o forse che è già in corso?) si coaugulano diversi temi e attori che animano la città: la ABG che gestisce la vendita e la riqualificazione del Campus Bockenheim, l’amministrazione cittadina, gli occupanti, così come il problema del caro-casa (si pensi alle ipotesi di costruire appartamenti di lusso proprio al posto della ex-università) e il vivace dibattito sulla cultura di cui sopra (l’iniziale progetto di trasformare l’università in un Kultur campus sembra naufragare sempre di più). Bockenheim si configura cioè come una sorta di cartina di tornasole, di bussola che indica come si stia orientando lo sviluppo di Francoforte.

In questo senso si vede una forte tendenza alla repressione di iniziative dal basso così come una rinuncia all’investire in progetti sociali che tengano conto di una integrazione tra territori e produzioni culturali istituzionali (come in teoria sarebbe dovuto essere il Kultur Campus nel suo progetto originale). Si preferisce invece cedere alla tentazione di agganciare le politiche cittadine ai flussi di denaro che percorrono la città: in generale quelli delle banche e nello specifico di Bockenheim, data la sua posizione, al polo della Fiera.

Sono scelte politiche del tutto legittime, ma che non possono non essere prese in considerazione all’interno di un dibattito sulla cultura che attualmente vede due schieramenti che parlano entrambi di cultura, conflittualità e produzione dal basso da posizioni che rendono difficile concretizzare le loro parole. Non per presunta disonestà, ma per limiti strutturali del discorso.

Alessandro Grassi

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