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Italiani a Berlino: “Esploratori e fuggiaschi”. Così la sociologa Marialuisa Stazio

di Federico Quadrelli

Sul tema degli italiani a Berlino il 25 maggio 2017 è stato pubblicato il libro dal titolo “Esploratori e Fuggiaschi”, di Marialuisa Stazio. Il libro è il risultato di un accurato lavoro di ricerca sul campo svolto dalla professoressa Stazio, sociologa dell’Università di Cassino. Di seguito una breve intervista sui risultati del suo lavoro di ricerca.

Professoressa Marialuisa Stazio, perché uno studio sugli italiani a Berlino?

I motivi sono parecchi e di diversa natura. Ce ne sono di familiari e personali, che sono poi quelli che hanno fatto di Berlino la mia seconda città… o forse la mia prima città, considerando il fatto che sto passando più tempo qui che in Italia. Ma poi, naturalmente, c’è il fatto che Berlino è, per volontà stessa della sua amministrazione, un grande laboratorio multiculturale e multietnico, dove la presenza italiana si sente fortissima.

Per esempio?

Basta guardare la frequenza di insegne e parole italiane in tutte le strade della città. Dove vivo io, a Schöneberg, agli inizi di maggio c’è una festa che si chiama Primavera. Proprio così, in italiano.
Infine, visto dall’Italia, c’è il grande mito di Berlino nell’immaginario dei giovani italiani e il numero davvero rilevante degli arrivi, almeno per gli anni che riguardano la mia ricerca, dal 2008 al 2014. Dal 2015, però, il numero degli arrivi è in calo. Perché Berlino non è più quella di una volta, e trasferirsi qui è sempre più difficile. E noi italiani stiamo giocando un ruolo importante anche nel velocissimo cambiamento della città in termini di crescita dei prezzi, scarsità degli alloggi, etc..

Il titolo “Esploratori e fuggiaschi” suggerisce una migrazione diversa da quella tradizionale dei Gastarbeiter. Che idea si è fatta?

Berlino non ha mai rappresentato un vero polo di attrazione per quella tipologia di migrazione. Negli anni cinquanta e sessanta aveva ormai perso la sua capacità industriale. In più Berlino ovest era difficilmente raggiungibile: era un’isola nella DDR.
E anche oggi, chi si sposta dall’Italia avendo come unico obiettivo un lavoro, o un lavoro migliore, raramente sceglie Berlino, che è tutto sommato ancora una città molto povera, anche di offerte di lavoro, in relazione al resto della Germania.
Berlino è tradizionalmente meta di un altro tipo di mobilità, quella di artisti e creativi ad esempio, e in generale quella di “sperimentatori” di pratiche sociali, culturali e politiche. Penso ai flussi legati allo squatting, al potenziale attrattivo della scena techno, ma anche ad alcune forme di queer migration.
E anche nel quadro delle recenti mobilità giovanili, quelle che sono venute crescendo dal 2008, mi pare che la città rivesta il ruolo di spazio destinato a sperimentare, a esplorare la dimensione del possibile, più che di luogo prescelto per la costruzione di un futuro stabile.

Questo è emerso dal suo lavoro sul campo?

Quasi tutti i miei intervistati non sono qui con l’intenzione di rimanerci (che poi rimangano o meno, è un altro discorso). Certo, quasi nessuno pensa di “far ritorno a casa”, ma Berlino è una tappa, o meglio, come molti mi hanno detto, “un trampolino”. E in ogni caso bisogna tener presente che stiamo parlando della generazione cresciuta con Schengen, con i progetti Socrates e Erasmus, con Internet e i voli low cost… una generazione per la quale la mobilità europea è una condizione naturale: così come sono nativi digitali sono anche, per così dire, “nativi mobili”.

Lei lavora in Italia. A che punto è il dibattito italiano sul tema delle mobilità giovanili?

In generale, quello che ho potuto osservare è che c’è una sostanziale (e, aggiungerei, tradizionale) negligenza italiana sui fenomeni di mobilità in uscita. In Italia, complice una politica sciagurata e grazie a politici che fanno leva sulle paure profonde e ingigantite dalla crisi, si è ancora tutti concentrati sul fenomeno immigrazione mentre si dimentica che dal 2014 il saldo migratorio è nuovamente negativo: escono più persone di quante ne entrino.
Non voglio avere gioco facile ricordando le affermazioni di Poletti sui giovani che sarebbe “meglio non avere tra i piedi”, anche se Poletti è comunque un ministro della Repubblica, per di più proprio quello del lavoro e delle politiche sociali…
Anche la tematizzazione mediatica dei “cervelli in fuga” mi pare molto fuorviante. Nel libro ne parlo diffusamente.
Insomma, non si può dire che il nostro Paese brilli per politiche tese a trattenere il “capitale umano” (orribile modo di dire!). Così come non brilla per iniziative di studio e di ricerca (con indirizzo storico, sociologico, economico…) sulle migrazioni passate e presenti.

Professoressa Stazio, qual è il principale risultato della sua ricerca?

Risposta difficile: una ricerca è sempre più un punto di partenza che un punto di arrivo. Quello che mi pare di poter dire a questo punto alla comunità italo-berlinese è che sarebbe forse ora di iniziare uno sforzo auto-riflessivo: conoscersi meglio, anche nel contributo che si sta dando, in positivo e in negativo, al rapidissimo cambiamento della città.
Sono recentemente stata a un convegno alla Humboldt e ho potuto constatare che i berlinesi sono, come noi,molto preoccupati dalla potenza, dalla velocità e dalla direzione di questo cambiamento. Forse sarebbe bene trovare un punto di vista dal quale riuscire a dialogare con loro. Riconoscerci, insomma, come una parte di questo grande processo del quale siamo, a me pare, un po’ agenti e un po’ vittime. Un po’ inconsapevoli del nostro ruolo, almeno per il momento, e un po’ incerti sul da farsi. O forse convinti di non avere capacità e forme di azione individuale o collettiva.
Insomma, come dicevo, il mio principale risultato è stato veder emergere nuove piste di ricerca, capire che ho ancora molto da fare.

Sullo stesso tema: Italiani a Berlino: la vecchia immigrazione vista dalla nuova

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