Femminismo islamico: è ora di parlarne
di Lucia Conti
Cos’è il femminismo islamico?
L’incontro sul femminismo islamico che ha avuto luogo il 13 luglio alla Technische Universität, ha richiamato un tale afflusso di persone da imporre un cambiamento d’aula all’ultimo minuto. “Buona sera e salam aleikum” hanno esordito le due relatrici, aggiungendo di sentirsi felici e quasi sopraffatte dalla massiccia presenza degli intervenuti.
Lana Sirri, palestinese, ha spiegato di aver studiato a Tel Aviv e poi alla Humboldt Universität di Berlino, specializzandosi in studi sul femminismo islamico e l’identità di genere. Saboura Naqshband, nata nel 1986, ha invece studiato a Londra e poi alla Freie Universität di Berlino e si occupa di temi lgbt all’interno della comunità musulmana.
Insieme hanno cercato di rispondere alla più ovvia, ma anche alla più insidiosa della domande: cos’é il femminismo islamico? Questo fenomeno mondiale, arricchito dal contributo di donne diverse tra loro come Asma Lamrabet, Amina Wadud, Margot Badran o Heba Raout Ezzat, è un movimento interno all’Islam che promuove parità di diritti e lotta al sessismo. La particolarità di queste attiviste è di essere religiose e rappresentare quindi una forza riformista in seno al sistema tradizionale. In poche parole le femministe islamiche contrastano la misoginia attraverso un’interpretazione progressista del Corano, sostenendo che il Profeta Muhammad non abbia mai sancito la subordinazione della donna all’uomo. L’impresa non è affatto semplice, sia perché queste donne sono avversate da chi interpreta il Corano in modo misogino, sia perché nel mondo occidentale le donne musulmane sono spesso guardate con diffidenza e a volte anche con ostilità, un fenomeno che a partire dall’11 settembre è diventato sempre più diffuso, sia in Europa che negli Stati Uniti.
I tre equivoci degli occidentali
Lana Sirri ha parlato di tre principali equivoci in cui incorrono gli occidentali, quando giudicano il femminismo islamico.
Intanto è visto come un fenomeno recente. Le attiviste sostengono invece che questa tendenza sia nata nel diciannovesimo secolo e che addirittura in diverse sure del Corano si parli di donne che apertamente chiedono al Profeta ragione dei loro diritti.
Il secondo equivoco consiste nel fatto che il femminismo islamico sia spesso visto come un ossimoro. Molti pensano infatti che una donna non possa essere al tempo stesso femminista e musulmana. Le attiviste del movimento, invece, si considerano perfettamente in grado di autodeterminarsi, anche se religiose, e rivendicano il diritto di stabilire da sole in che modo vivere la loro libertà.
Il terzo equivoco confina il femminismo islamico alla sola religione, mentre invece, nelle intenzioni di chi sostiene il movimento, il fine ultimo è la paritá dei diritti e quindi una questione di respiro molto più ampio. Le femministe islamiche ritengono inoltre che il cosiddetto patriarcato non sia un prodotto della religione, ma che, al contrario, la strumentalizzi.
Non sono mancate reiterate critiche al femminismo occidentale, considerato responsabile di marginalizzare, se non addirittura escludere del tutto, punti di vista femministi che non riflettono il modello sociale, razziale e culturale dominante. In questa stessa direzione critica si sono espresse in passato anche molte femministe di colore. Così come l’interazione tra i sessi determina il potere, la questione dei diritti si connette infatti alla cittadinanza e alla società civile, di cui diventa specchio. E tutto questo riflette anche i limiti, in base allo stesso punto di vista, di un certo paternalismo “privilegiato”.
Il femminismo islamico e la Germania: due esempi
Sono stati a questo punto presentati due esempi chiarificatori, entrambi legati al sistema tedesco.
Il primo riguarda le Femen, che nel 2013 lanciarono il “Topless Jihad Day” per esprimere solidarietà verso Amina Tyler, una diciannovenne tunisina che aveva esibito il seno su facebook in segno di affermazione della sua libertà e aveva per questo subito minacce e pressioni in patria. In segno di protesta moltissime Femen si mostrarono a seno nudo in tutto il mondo e alcune di loro a Berlino ed Amburgo, davanti a moschee e ambasciate tunisine. La protesta diventò rapidamente un pesante attacco all’intero mondo islamico, al punto che la stessa Amina Tyler prese le distanze dall’iniziativa.
Ebbe quindi luogo a Berlino la contro-protesta di sei donne musulmane, che negli stessi luoghi scelti dalle Femen esibirono cartelli con su scritto “ich bin schon frei” (sono già libera), “Islam is my choice”, “there is more than one way to be freee”. Il MuslimaPride nacque così, come una parodia e una contro-provocazione nei confronti delle Femen, ma anche come reazione a un femminismo occidentale che, secondo le femministe islamiche, cercava e per degli aspetti ancora cerca di insegnare alle donne musulmane come essere libere.
“Siamo a Berlino e siamo giustamente orgogliose della libertà che si respira qui”, ha detto in quel periodo Betül Ulusoy, una delle artefici della controprotesta, “ma la libertá dovrebbe essere universale, libertá per la minigonna, per la cravatta, ma libertà anche per il velo”.
Le femministe islamiche hanno dichiarato di aver rifiutato il supporto delle Femen per via del fatto che imponessero “filosoficamente” la loro nudità come strumento di lotta e per aver disprezzato il modo in cui altre donne esercitano la loro libertà, parlando per esempio del velo come di uno strumento di oppressione. Le attiviste musulmane credono infatti nel pluralismo, anche religioso, e ritengono che la solidarietá debba esprimersi rispettando altri modi di vivere, ove frutto di vera autodeterminazione.
Il secondo esempio menzionato riguarda Alice Schwarzer, femminista tedesca molto controversa, persino in seno alla sua stessa comunità, e nota per aver subito negli ultimi anni una deriva fortemente anti-islamica.
Secondo le due relatrici la Schwarzer può definirsi la perfetta incarnazione di quel modello aggressivo e rigidamente normativo che le femministe islamiche contestano, rivendicando il diritto di decidere del loro destino senza ingerenze.
Il conflitto con i tradizionalisti
Il dibattito ha ovviamente prodotto delle frizioni, soprattutto in seguito a una serie di domande “chiave”, che sono poi il vero centro della discussione. I musulmani considerano il corpo femminile peccaminoso? Le donne hanno meno diritti? Sono proprietà dei loro uomini? Alcuni interventi hanno infatti sollecitato, con toni piú o meno emotivi, un parere su quei passaggi del Corano che sanciscono esplicitamente l’inferiorità della donna, per esempio quelli che autorizzano il marito a picchiarla.
Le relatrici hanno più volte ribadito di considerare il maschilismo il prodotto di una cattiva interpretazione del testo sacro. Lana Sirri ha raccontato di provare a chiarire spesso questo concetto, nell’ambito della sua attività. In particolare ha riferito di aver avuto un acceso confronto con un uomo indonesiano che, in un altro dibattito, continuava a ripetere di avere il diritto di picchiare sua moglie perché espressamente autorizzato dal Corano. Secondo le femministe islamiche la strada giusta è quella di contestualizzare storicamente un’opera che ha visto la luce nel settimo secolo, cercare di capire quali interpretazioni si fondino su errori linguistici e coglierne lo spirito.
Sirri e Naqshband hanno inoltre dichiarato di non poter negare che nel Corano ci siano diversi passaggi non esattamente favorevoli alle donne, per usare un eufemismo, ma ritengono che sul dato particolare e più storicamente connotato debba prevalere una visione generale progressista, che ritengono dominante, nel Corano.
I musulmani queer
La seconda parte del dibattito, gestita da Saboura Naqshband, ha riguardato i diritti dei musulmani queer. Per i musulmani queer, omosessuali, transessuali o comunque vogliano declinare la loro identità o il loro orientamento, conoscere se stessi e trovare uno spazio in cui fare esperienze può costituire un grosso problema, perché i circuiti che agevolano questo tipo di autocoscienza spesso sono distanti e a volte poco accoglienti.
Alcuni sostengono che ci sia una sorta di “secondo coming out”, quando ci si definisce musulmani negli ambienti più tradizionalmente queer o in generale di sinistra. Ed è una rivelazione che può generare diffidenza e che a volte non agevola una comunicazione serena, né tantomeno un’interazione felice. “Siamo perennemente immersi in questo dramma da supermercato delle etichette”, ha sintetizzato un ragazzo in modo decisamente efficace, “questo rende tutto molto difficile”.
Il confronto con il mondo laico e il futuro
Terreno di scontro è stato e continuerá ad essere soprattutto quello che vede le femministe islamiche dibattere con chi stigmatizza il Corano in quanto libro misogino, ma da una prospettiva laica o più radicalmente atea. A tali obiezioni queste donne non possono che fornire le uniche risposte che possono dare, usando cioè l’interpretazione progressista di un testo religioso come strumento di evoluzione e di rivoluzione sociale.
È molto probabile che filosoficamente questo approccio non convinca chi non ne condivide il presupposto, e cioè la fede. Il vero equivoco, però, è ritenere che il nocciolo della questione sia il dibattito sull’esistenza di Dio o di un libro “rivelato”. Il punto è invece chiedersi quale pensiero religioso sia più conforme a quei valori di libertà, pluralismo e democrazia su cui un certo occidente ha fondato la sua civiltá, se quello delle femministe islamiche o quello dell’Islam patriarcale e misogino. In ultima istanza occorre chiedersi se sia giusto, moralmente, ma anche strategicamente, non supportare donne che combattono i veri nemici dell’emancipazione e della libertà.
Il dibattito é aperto e sarà il perno del futuro di un’Europa sempre più legata alla necessità di un’integrazione reale e di un confronto inevitabile.
Complimenti a Lucia Conti per l’ottima capacità di sintesi di un tema così complesso.