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“Noi, italiani, il 9 novembre ’89 eravamo qui: ecco i nostri ricordi del muro”

Karl-Marx-Allee, 1990 | © Sludge G / CC BY-SA 2.0
Karl-Marx-Allee, 1990 | © Sludge G / CC BY-SA 2.0

di Emanuela Barbiroglio

Berlino ci piace perché è drammatica. In questa città, la rappresentazione della storia si svolge sotto gli occhi di tutti, come una tragedia sul palco di un teatro a cielo aperto.

La scenografia è la sua architettura urbana, che si è voluta conservare con tutte le sue contraddizioni per ricordare costantemente ai passanti cosa fu di quei luoghi: qui c’era la prigione, lì la chiesa bombardata, lì le case sventrate, poi le fabbriche abbandonate, il centro commerciale di lusso e i monumenti alla libertà.

E ci si inciampa nei resti di quello che fu il Muro di Berlino: una tenda, una “cortina” come si diceva allora, che a un certo punto si decise di scostare. Che cosa videro, al di là del cemento, alcuni italiani se lo ricordano bene, perché erano presenti.

Abbiamo intervistato tre di loro per rievocare, come flashback, quegli anni di guerra apparente e quella notte di gioiosa distruzione. I loro sono gli occhi particolarmente attenti di chi si guarda intorno per mestiere: Edith Pichler, sociologa, Mauro Grassi, politologo e Roberto Giardina, giornalista.

All’epoca erano poco più che trentenni e si trovavano per studio e lavoro a Berlino, dove poi sarebbero rimasti fino a oggi. La condizione di forestieri consentiva loro un trattamento privilegiato e qualche forma di libertà.

«Vivevo a Steglitz. Lo straniero poteva passare a Berlino Est pagando una tassa di entrata – 15 marchi, mi sembra – attraverso i diversi corridoi previsti per gli stranieri, come Friedrichstraße o Checkpoint Charlie», ricorda oggi Edith Pichler. «Per visitare altre zone della DDR bisognava fare richiesta di un visto della validità di un giorno, presso preposti uffici che il governo aveva istituito in alcune zone di Berlino Ovest».

Lo stesso valeva per gli abitanti più fortunati della zona Est: «Avevo una coppia di amici che visitavo ogni tanto, ma visto che lei era medico e lui insegnante e facevano così parte delle cosiddetta Intellighenzia, anche se critici nei confronti del sistema, erano dei privilegiati. Hanno potuto costruirsi una casetta, su un terreno che lo Stato ha dato loro in affitto per 100 anni (beh, il Socialismo doveva esistere per sempre…), e lì, dove abitavano, c’era un’altra famiglia ancora più critica, ma critica “di sinistra”, con la quale sono diventata pure amica», continua la sociologa.

© Raphaël Thiémard / CC BY-SA 2.0
© Raphaël Thiémard / CC BY-SA 2.0

L’estate prima della caduta del Muro si annusava nell’aria la brezza del cambiamento. O l’odore stantio del regime vacillante, che dir si voglia. È di Mauro Grassi il pensiero più disincantato: «La situazione sociale e politica nella Germania comunista mi era nota, sia per la vicinanza con Berlino Est, sia per l’informazione quotidiana sulla crescente crisi del regime. L’unica cosa poco chiara era quale sarebbe stato l’esito di questa crisi».

«Grazie alla mia attività di interprete ero spesso a Berlino Est, dove si potevano constatare le crescenti difficoltà economiche e sociali e la diffusa opposizione della società civile – continua Grassi -, pur con le limitazioni imposte da un regime poliziesco di controllo capillare sui comportamenti della popolazione. Nella primavera-estate del 1989 era visibile a tutti il crollo imminente del regime, ritardato soltanto dai preparativi per le celebrazioni del 40° anniversario della fondazione della DDR».

Prosegue: «L’unica incognita era quale sarebbe stato l’atteggiamento dell’Unione Sovietica e di Mikhail Gorbačëv di fronte al progressivo disfacimento socio-politico della DDR. Tanto più che già nell’estate 1989 l’Ungheria aveva aperto le sue frontiere verso l’Austria e quindi, in generale, verso l’Occidente. In poche parole, la caduta del Muro non mi ha sorpreso più di tanto. Era prevedibile da tempo, ma soprattutto dopo la visita di Gorbačëv a Berlino Est per le celebrazioni del 40° anniversario e le sue chiare prese di posizione nei confronti di Erich Honecker & Co. Pochi giorni dopo, Honecker fu costretto a dimettersi dalle sue funzioni e si capì che il crollo finale era solo questione di tempo».

Il 9 novembre, mentre si trovava a casa, Grassi venne a sapere in diretta tv cosa stava succedendo. Ma non tutti furono travolti dalla stessa euforia: «Non ho assolutamente sentito il bisogno di andare a incontrare le masse di berlinesi (orientali e occidentali) che quella notte si sono riversate nelle strade del centro di Berlino-Ovest. Non ho condiviso l’entusiasmo della gente per ovvi motivi: in realtà nutrivo già allora alcune preoccupazioni riguardo i possibili sviluppi di quegli avvenimenti. Anche lo statista francese François Mitterand, in quei giorni, era molto preoccupato di fronte alla prospettiva di una possibile riunificazione tedesca. I miei pensieri erano naturalmente più profani, mi domandavo già allora quali sarebbero stati i costi economici e sociali del crollo del regime della Germania socialista».

Ma a prescindere da come si guarda agli eventi di quel periodo e di quella notte, «era chiaro che si stava verificando un cambiamento epocale nei rapporti tra il mondo occidentale e quello orientale (ancora sotto l’egida della Russia di Gorbačëv)», ammette.

Forse la caduta del Muro non aveva sorpreso gli esperti perché si trattava di qualcosa che presumevano fosse imminente. Ma allora è stato un evento straordinario o venne arricchito di un significato simbolico? C’era, fra la gente comune, la percezione del cambiamento in atto?

Edith Pichler rivede ancora «I berlinesi dell’Ovest, anche di origine migratoria, che distribuivano banane, currywurst, pizze, döner kebab alle persone, e il volto sorpreso e incuriosito dei “Vopos” (soprannome che stava per Volkspolizisten, i poliziotti della DDR). Chi aveva seguito gli ultimi avvenimenti si era reso conto che così non poteva più andare avanti. Non solo perché ormai le fughe stavano aumentando, ma perché Gorbačëv non aveva più interesse a sostenere quel regime. È stato un evento straordinario, perché si è trattato anche di una rivoluzione silenziosa. E inevitabile: una volta che il mondo digitale fosse arrivato tra i paesi del blocco socialista, come avrebbero potuto fermare le idee?».

© NatalieMaynor / CC BY 2.0
© Natalie Maynor / CC BY 2.0

Il giorno dopo la caduta del muro tutta la Germania, non soltanto Berlino, si svegliò diversa.

Grassi racconta: «Nei giorni successivi diminuì l’euforia generale della popolazione tedesca e si cominciò a riflettere sui possibili esiti della nuova situazione di stallo politico ed economico che si era prodotta. Con l’apertura della frontiera tra Est ed Ovest i cittadini di Berlino Ovest, fra cui il sottoscritto, cominciarono ad andare quasi quotidianamente a Berlino Est, anche per approfittare del cambio favorevole del marco occidentale rispetto a quello orientale. Questo periodo di regolari frequentazioni e acquisti nei negozi di Berlino Est e dintorni durò alcuni mesi, perlomeno fino all’inizio del 1990».

«Ho osservato con curiosità il progressivo sfaldamento dell’ancora esistente DDR e la rapida e sistematica occupazione economica e politica da parte della Germania occidentale. Non parlerei di conciliazione, bensì di progressiva assimilazione della DDR da parte della Repubblica Federale Tedesca, con tutte le implicazioni ad essa connesse. A partire dalla primavera del 1990, presero il sopravvento i problemi economici legati all’imminente riunificazione. Eppure la mia vita quotidiana non cambiò in maniera rilevante e forse anche per questo motivo non ho ricordi particolarmente entusiastici di quel periodo».

Cresciuti come gemelli separati alla nascita, i tedeschi erano ancora straniti.

«Il giorno successivo la città si era riempita di persone che vestivano colori diversi dai nostri – ricorda Edith Pichler – riconoscibili da giacche a vento sull’azzurrino o beige, in file lunghe davanti ai discount e alle banche per ritirare questi 100 marchi premio che la BRD dava a ogni cittadino della DDR che visitava la Repubblica Federale».

Soltanto i ribelli si somigliano da tutte le parti: «Bisogna dire che tutto dipende dai milieu di provenienza. La DDR era in fondo una società piccolo-borghese, i suoi dirigenti in special modo. Invece i dissidenti e gli oppositori erano come dei bohémien, borghesi illuminati e intellettuali che nei loro valori, e in parte negli stili di vita, non erano tanto distanti dai corrispettivi occidentali».

Diverso era però l’uso del dialetto: «Gli intellettuali di Berlino Est parlano il berlinese. Ed è strano perché all’Ovest è tipico del ceto più povero, del mondo operaio e degli artigiani. Mentre all’Est era normale che anche un intellettuale usasse il berlinese. Era per caso un segno della “proletarizzazione” della società attraverso la politica predicata dal regime? Ma forse tra i giovani era anche una forma di protesta contro una cultura piccolo-borghese che pretendeva di eliminare le differenze, come i dialetti».

© Gavin Stewart / CC BY 2.0
© Gavin Stewart / CC BY 2.0

Sedotti e abbandonati dalle ideologie, gli uomini e le donne tedeschi che più si erano fatti coinvolgere dal sistema furono costretti a escogitare un travestimento credibile per evitare di pagare un caro prezzo. Roberto Giardina ha collezionato le loro storie.

«Tutti conoscono la foto del soldato che, fucile in spalla, salta il rotolo di filo spinato: è un’icona del XX secolo», racconta il giornalista. «Conrad Schumann, 19 anni, nato in Sassonia nei pressi di Meissen, era di servizio in Bernauer Straße. Con i compagni sorvegliava i lavori, dove al filo spinato presto sarebbe seguito il muro di cemento. Dall’altra parte, era in attesa il fotografo Peter Leibing, 20 anni. Quando Conrad salta, Peter scatta. Intervistai Schumann 29 anni dopo, in una villetta in Baviera, sotto la neve, vicino a Ingolstadt. Lavorava alla Audi, e questa è un’altra storia nella storia, di Conrad e della nostra Europa. La moglie e i figli di Conrad lo guardavano con sufficienza, mi parve. Non capivano perché i giornalisti venissero a cercarlo. Era appesantito, forse dal bere, e depresso. Mi raccontò che si disse: “Ora o mai più! I miei compagni mi avrebbero sparato alle spalle? Pensavo di no, ma non si può mai sapere”. Appena raggiunta la libertà, gli americani lo misero in cella per i controlli. Temevano fosse una spia. Conrad non voleva tornare nella sua Sassonia, finché continuava a esistere la DDR, temeva la vendetta degli agenti comunisti. Si è impiccato al ciliegio del suo giardino l’ultimo giorno di primavera del 1998».

Difficile trovare chi, prima del 1989, potesse dirsi estraneo alle più oscure trame politiche. Così, colpevoli, o succubi, tutti quelli che in qualche modo avevano avuto rapporti con il regime furono eliminati: «Ricordo il primario di un ospedale. Buttato fuori perché aveva la tessera della SED, il partito comunista. “Ma era un bravo medico?” obiettai. “Che c’entra, mi risposero gli amici, era un comunista”».

Reinventarsi divenne un’usanza tipica tra le personalità più accreditate e influenti.

«La mia amica Rosy era professoressa di economia marxista alla Humboldt Universität. La cattedra fu abolita, perse la casa che aveva rimodernato perché riapparve il legittimo proprietario fuggito vent’anni prima in occidente, i figli persero il posto. Lei si arrangiò, si riciclò, divenne istruttrice per altri disoccupati, fino alla pensione. Un giorno, chiacchierando con un taxista ad Alexanderplatz, scoprii che era stato ambasciatore in Angola, o altrove, non volle precisare dove, un paese amico. Secondo gli accordi della riunificazione, i diplomatici non dovevano essere epurati, ma li buttarono fuori tutti. Furono un migliaio a doversi cercare un’altra occupazione. Johannes Münzel, ambasciatore in Bolivia, trovò posto in una scuola guida. Heinz Langer, esperto di Cuba, cinque lingue parlate perfettamente, finì opportunamente in un’agenzia di viaggi. I più anziani riuscirono ad andare in pensione: per un ambasciatore, 1.400 marchi (circa 700 euro). Nessuno riuscì a farsi assumere dal Ministero degli Esteri della nuova Germania. La storia non è mai giusta. A cavarsela meglio furono i Vopos, che avevano sparato sui fuggitivi, e gli agenti della Stasi. Quelli che cercarono di nascondere il loro passato per svolgere una professione normale prima o poi furono scoperti ed epurati. Qualcuno si tolse la vita. I più abili fecero valere la loro professionalità. Sono stati assunti come addetti alla sicurezza dalle industrie private, come esperti di controspionaggio industriale. E qualcuno finì arruolato, anche se non ufficialmente, dai servizi segreti della nuova Germania, o dalla CIA. Ieri avversari, oggi colleghi, come i giocatori di calcio che cambiano la maglia, come le bandiere».

Nel gioco di astuzia che seguì la caduta del muro e la riunificazione, furono in tanti a perdere.

«Come si dice in tedesco: die Zeit heilt alle Wunde, “il tempo guarisce ogni ferita”: le ferite della guerra, quelle della divisione, quelle del Muro», conclude Edith Pichler.

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