Berlino è femmina: Yasmine Merei, da direttrice dell’unico magazine femminista siriano ad attivista per l’integrazione a Berlino
di Valentina Risaliti
“Purtroppo ho dovuto lasciare la redazione”. Per un attimo lo sguardo di Yasmine Merei, 33 anni, giornalista, viene colto da una strana malinconia, mentre siede di fronte a me nel suo appartamento di Berlino. Mi sta raccontando della fine dell’esperienza in seno a Saiedet Souria (Syrian Lady, ndr), il magazine siriano che dal 2014 si occupa dell’universo femminile sotto la sua direzione: “Non è stata una scelta facile, ma sono molto impegnata e volevo iniziare un progetto con le rifugiate qui, in Germania. Trovare un equilibrio tra i due incarichi stava diventando troppo complicato”.
Si conclude così un percorso durato quasi tre anni e che ha permesso a Yasmine di operare a favore di una maggiore consapevolizzazione delle donne nella sua terra d’origine, la Siria, e non solo: “Quando si parla di riviste femminili, si pensa in genere ai rotocalchi di moda, ma le nostre lettrici vivono in territori di guerra, in villaggi assediati e nei campi per rifugiati. Saiedet Souria parla di ciò che queste donne devono affrontare ogni giorno, sensibilizzandole su temi politici, sociali, legali e cercando di offrire loro un’apertura verso il dibattito internazionale, ad esempio traducendo articoli dal francese e dall’inglese. L’idea, però, l’ha avuta un uomo…”.
Unica nel suo genere, la rivista è frutto dell’iniziativa e della determinazione del reporter Mohammad Mallak: “Mohammad stava lavorando per un’agenzia di notizie sotto la bandiera della rivoluzione. Quando venne da me e mi disse che voleva avviare un progetto editoriale dedicato alle donne, accettai senza riserve. Non esisteva nulla di simile sul mercato”.
Così, nel gennaio del 2014, nasce il primo magazine femminile (e femminista) dalle proteste del 2011: sessanta pagine volte a formare un’opinione pubblica femminile in Siria e a creare gli spazi per una maggiore inclusione delle donne nel processo di peacebuilding e di leadership del Paese. “Il nome stesso della rivista” mi racconta Yasmine “è un chiaro invito all’autoaffermazione. Da quando la famiglia al-Assad è ascesa al potere, circa cinque decadi fa, il concetto di first lady è entrato a far parte anche della nostra cultura. Saiedet Souria, Syrian Lady appunto, vuol far capire alle donne siriane, che sono loro le vere first ladies del Paese”.
Un progetto vincente, che opponendosi al Governo e a ogni forma di estremismo, continua a perseguire la propria missione con l’aiuto di una coraggiosa redazione, distribuita su sette uffici in Siria, uno al Cairo e una sede che, dopo aver chiuso i battenti a Istanbul, potrebbe presto essere trasferita a Parigi o, addirittura, qui, nella capitale tedesca.
Chiedo a Yasmine quali siano le questioni più urgenti che le donne siriane affrontano nel quotidiano. “I problemi sono molti, la morte, innanzitutto, ma anche il non disporre di beni di prima necessità. A causa del regime molte persone muoiono di fame, a questa situazione si aggiunge il problema rappresentato dagli estremisti. Alcune donne non sanno che fine abbiano fatto i loro mariti, figli, fratelli. Infine, siamo regrediti di centinaia di anni: una donna non può più camminare da sola per strada e se parliamo di opposizione, alle donne non è permesso di giocare un ruolo equo nelle questioni sociali e politiche”. Tutte problematiche, mi dice, di cui tener conto quando si tratta di produrre contenuti editoriali, perché “non è possibile parlare a una donna che ha fame di quanto sia importante cambiare la Costituzione: non capirebbe, ha altre priorità”.
Questo mi fa pensare, inevitabilmente, alle polemiche sorte intorno allo sciopero globale dell’8 marzo, al quale alcune femministe hanno preferito non aderire, sostenendo che una simile mobilitazione non avrebbe fatto altro che aumentare il gap, già esistente, tra donne emancipate e donne che non godono di alcun diritto. “Onestamente” mi confessa Yasmine “credo che agli occhi di una siriana certe iniziative possano apparire come una predica. Il divario è enorme: mia madre e le mie sorelle non conoscono metà delle campagne di cui mi faccio promotrice e, tutto sommato, non sono interessate. Tuttavia, come membro della comunità internazionale, capisco l’importanza di partecipare a eventi globali in difesa dei diritti delle donne”.
Il conflitto siriano, che ormai dura da sei anni, non ha però cambiato solo la vita della popolazione femminile, ma di ognuno, tanto che viene da chiedersi se si possa ancora parlare di una guerra civile. “Dalla mia prospettiva non lo è mai stata” Yasmine è ferma su questo punto “il concetto di conflitto civile prevede infatti che a opporsi siano due fazioni dotate di risorse e capacità simili. Ciò che è accaduto in Siria è totalmente diverso: il popolo si è ribellato, chiedendo dignità e diritti, e ha incontrato la morte. A questo situazione si sono presto aggiunti interessi internazionali, gruppi di civili armati e gruppi di estremisti, come al-Nusra e l’ISIS. Ora, ad esempio, l’ISIS è composto in gran parte da combattenti stranieri e perciò non può essere considerato un fenomeno esclusivamente locale. Un altro tipico esempio è rappresentato dall’Esercito Siriano Libero, un gruppo di soldati che si sono opposti al regime e hanno iniziato a combattere per il popolo. Presto ci siamo resi conto, però, che gruppi come questo erano controllati da finanziatori esteri. Per non parlare della vastità di fazioni ormai in lotta sul territorio. Un contesto così complesso, rende la ricerca di soluzioni ancora più difficile”.
“Paradossalmente” aggiunge Yasmine con amarezza “le donne sono anche la ragione per cui tanti civili si sono armati”. Mi racconta infatti che in seguito alla Rivoluzione del 2011, molti siriani hanno iniziato a trasportare armi per difendere le proprie donne dagli stupri. “Nel 2012, mio padre, che possa riposare in pace, decise che dovevamo abbandonare la nostra casa ad Homs per raggiungere uno dei miei fratelli ad al-Saweda, sul confine giordano. Ricordo che mi disse: Yasmine, guardami, ho sessantanove anni, se verranno per te, non saprò come difenderti. Era preoccupato per me, poi però presero lui”. Per una donna siriana, subire abusi sessuali non significa solamente dover gestire il trauma della violenza, ma anche affrontare gli effetti di quello che socialmente viene considerato un terribile disonore: “Molte donne violentate vengono abbandonate dai mariti, costrette a divorziare e alcune sono persino uccise dalla famiglia”.
I problemi non si esauriscono oltre la linea di confine. La vita all’interno dei campi profughi e l’integrazione sono altri temi particolarmente cari a Yasmine che, arrivata a Berlino quasi per caso, si dedica ora al progetto Women for a common space. “Con questa iniziativa, ancora in via di sviluppo, vorrei concentrarmi su quattro aspetti che reputo centrali: il senso di appartenenza alla comunità tedesca, la sessualità, l’autoaffermazione sociale e, soprattutto, il ruolo che le donne possono giocare nella prevenzione della formazione di estremismi in contesti europei”.
Il progetto ha solo un paio di mesi di vita, ma vanta già il patrocinio di Berlin Mondiale, Radialsystem V e la partecipazione della coreografa Sasha Waltz.
“Una volta giunte in Europa, le donne restano purtroppo spesso isolate a causa della paura di allontanarsi dalla propria tradizione. Io stessa vengo da una famiglia molto tradizionale, non tanto in senso religioso, ma sociale. Fino a tre anni fa indossavo l’hijab. Oggi ho deciso di toglierlo. Vivendo da sola e lontana dal mio Paese, ho potuto riflettere su certe costrizioni sociali, compiendo una scelta personale. Ci ho messo molto però prima di sentirmi a mio agio”. Yasmine mi mostra timidamente la foto di una ragazza. Ha il capo coperto e indossa una lunga tunica nera, se ne sta in piedi davanti a uno steccato. Mi dice: “Questa sono io qualche anno fa… irriconoscibile vero?”. Affatto. Riconosco quegli occhi. Sono gli stessi che mi hanno sorriso tutto il tempo mentre, da un divano di Berlino, mi raccontavano la loro storia.
VALENTINA RISALITI è una editor, video-producer e occasionale film-maker, con la passione per il documentario d’autore, i libri (tutti) e le teorie del complotto. Nomade per vocazione, negli ultimi anni ha vissuto in diversi Paesi, lavorando come redattrice di viaggi, TV reporter e produttrice audiovisiva, e diventando così una vera poliglotta. Da piccola, però, voleva fare il pirata. Degna discendente di una famiglia di amazzoni, è da sempre legata ai temi del femminismo, della difesa dei diritti delle donne e al rispetto dell’ambiente. Idealista incallita, viene spesso tacciata da amici e parenti di essere insopportabilmente critica. Ha studiato filosofia e giornalismo e ama riconoscersi nelle parole delle grandi donne del passato. Oggi vive a Berlino, dove tra un libro di Patti Smith e uno di Simone de Beauvoir, sta ancora decidendo cosa vuole fare da grande.