Nel 2003, l’allora sindaco Willy Brandt definì la città di Berlino “povera ma sexy”. Più economica di molte sue controparti, senza l’industria pesante della Ruhr né i movimenti finanziari di Francoforte, la capitale basava non solo il suo fascino, ma anche la sua economia, sulla vivacissima scena culturale che ancora risentiva di quella liminalità post-riunificazione fatta di spazi insoliti, sperimentali, un po’ legali e un po’ no, fra l’esplosione della scena techno e il prestigio dell’opera, fra il fascino dei club underground e l’eredità culturale del grande teatro tedesco. Adesso, Berlino sembra sul punto di restare povera e basta: i tagli del Senato stanno colpendo la cultura in misura tale da mettere in discussione la sopravvivenza di numerose istituzioni e dell’intera scena del clubbing berlinese.
E, a questo punto, ci sarà da chiedersi a che scopo le grandi proprietà immobiliari si sono precipitate ad alzare i prezzi degli affitti per abitazioni in quartieri la cui principale attrattiva era proprio la scena culturale e nei quali, in assenza di quella, molti residenti e turisti potrebbero non voler più vivere.
A fine anno, il governo locale a guida CDU, in coalizione con l’SPD, ha annunciato una riduzione di circa 130 milioni di euro nel budget culturale per il 2025. Per tutti gli operatori del settore, questo duro colpo si assesta su una situazione già gravemente compromessa dall’impennata dei costi gestionali, soprattutto quelli legati al consumo di energia.
Posti di lavoro, qualità della vita e l’identità di Berlino
La comunità degli addetti ai lavori ha reagito con veemenza a questa decisione. Migliaia di persone, tra cui figure di spicco come l’attore Lars Eidinger e l’attrice Caroline Peters, sono scese in piazza per schierarsi contro i tagli. Le proteste hanno visto la partecipazione di moltissimi artisti, musicisti, attori e cittadini comuni, tutti uniti nel difendere il patrimonio culturale della città e il suo carattere distintivo. A preoccupare, naturalmente, non è solo la percezione “sentimentale” di una città che cambia: la scena culturale berlinese dà lavoro a migliaia di persone e le eventuali insolvenze si traducono in licenziamenti e in una moltitudine di crisi finanziarie individuali che si sommano a quella collettiva.
C’è poi il discorso della qualità della vita: il sindaco Kai Wegner (CDU) ha recentemente indignato con la dichiarazione che alle “cassiere dei supermercati” non va bene che le loro tasse finiscano a finanziare un teatro dell’opera. Questa dichiarazione sottende però anche la convinzione che chi lavora alla cassa di un supermercato riduca a quell’attività il 100% della propria identità e che quindi non possa godere, per esempio, dell’ingresso gratis nei musei una domenica al mese – un’altra iniziativa cancellata dai tagli. In altre parole: la cultura sarebbe un gingillo di una presunta elite culturale, non un elemento che arricchisce la qualità della vita di tutta la popolazione. Da più parti, però, ci si chiede: quali sarebbero i vantaggi di vivere in una Berlino in cui gli stipendi sono bassi e gli affitti altissimi, se non si può neppure più godere del piacere di una vita sociale e culturale interessante, intensa, piacevole? Parafrasando una frase simile che risuonava in Italia qualche anno fa, Wegner ha detto ai berlinesi che non è possibile “farsi un panino con l’Isola dei Musei”.
Resterebbero così alti, i valori delle proprietà immobiliari, in una città dalla quale migliaia di persone scappano in massa, magari perché hanno perso il lavoro o perché hanno dovuto rinunciare all’unico stimolo che le spingeva a sopportare impieghi mal pagati, appartamenti angusti e inverni gelidi?
Le proteste hanno sortito un qualche effetto: alcuni dei tagil più drastici a teatri importanti come la Schaubühne e altri sono stati parzialmente annullati o ridotti, ma questo non basta.
Il problema della scena notturna: Clubsterben
A preoccupare soprattutto i gestori dei club è il fatto che la recessione li colpisca su due fronti: da un lato, le possibilità economiche della clientela si sono ridotte, si spende meno per uscire e divertirsi e quindi i numeri degli avventori non sono mai tornati ai livelli dell’era pre-covid. Dall’altro, oltre ai già citati tagli e ai costi energetici, ci sono gli affitti: per i locali commerciali non esiste alcuna forma di regolamentazione statale, come invece ancora previsto per quelli a uso abitativo. Questo vuol dire che un’attività commerciale può trovarsi da un giorno all’altro a dover corrispondere un affitto incompatibile con la solvibilità stessa dell’azienda. E, dal momento che i club di Berlino oggi non sono più installazioni spontanee in ex fabbriche abbandonate senza proprietario, ma vere e proprie imprese commerciali, questo rappresenta un problema per molti.
La commissione dei club di Berlino – una rete di proprietari di locali, gestori e artisti che difende gli interessi della categoria anche sul piano politico, ha raccolto dati su quello che in tedesco si chiama “Clubsterben”, ovvero la morte dei club. A novembre, sono stati pubblicati i risultati preoccupanti di questa indagine: ne risulta che il 55% dei club berlinesi abbia registrato un calo delle vendite e quasi due terzi abbiano dichiarato un calo medio dei profitti del 19%. Più i locali in questione sono piccoli, maggiore è il margine di perdita. Inoltre, più della metà dei club ha dichiarato che il numero di visitatori è diminuito rispetto all’anno precedente e circa il 46% dei club ha dichiarato di stare considerando la chiusura nei prossimi 12 mesi. Una situazione preoccupante, per una scena che è stata addirittura riconosciuta come patrimonio immateriale dell’UNESCO.
Prima povera, poi sexy, poi quasi ricca, poi solo povera
Quella che emerge è una situazione mista e complessa: a portare al successo della scena culturale di Berlino non sono stati, inizialmente, gli investimenti, ma la creatività e la libertà di sperimentare. Fattori immateriali, che non si determinano in base al benessere economico, ma che prosperano in assenza di ostacoli economici (per esempio, quando c’è grande disponibilità di spazi, come nella Berlino dei primi anni ’90). A far prosperare questo panorama, in seguito, è stato il fatto che la politica lo valorizzasse anche economicamente: la scena si è (giustamente) adattata negli anni, man mano che i locali si dotavano, per esempio, di indispensabili misure di sicurezza come uscite d’emergenza e allarmi antincendio, necessari per garantire una fruizione sicura. Niente più cantine in palazzi abbandonati, quindi, ma locali veri e propri, nei quali però era possibile sperimentare creativamente, in una città che investiva sul proprio tessuto culturale, sociale e sull’intrattenimento.
Tutto questo ha comportato investimenti, ma ha anche creato una nuova economia, che ha dato da vivere a centinaia di migliaia di persone negli anni e che ha attirato milioni di turisti e anche numerosissimi residenti. Pian piano, l’economia degli spazi, la speculazione, l’incremento dei prezzi degli affitti hanno creato i presupposti economici perché questo settore perdesse, un pezzo dopo l’altro, le condizioni di sostenibilità. Il disconoscimento finale del suo valore da parte della politica, reso palpabile dai tagli ed emblematico dalle discusse parole di Wegner, sembra essere il colpo di grazia.
In che direzione si va, da adesso in poi? La contesa si riduce a un braccio di ferro fra gli interessi della speculazione immobiliare ed edilizia e quelli della scena culturale berlinese. E, se l’attuale amministrazione ha evidentemente scommesso sui primi, non è detto che i secondi non abbiano speranze. A patto, si intende, che tutti i loro rappresentanti non siano nel frattempo fuggiti da una città che è sempre meno sexy e sempre più povera.