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“Diffido delle commedie che fanno solo ridere” – intervista a Neri Marcorè su “Zamora”

L’Italian Film Festival di Berlino è un appuntamento ormai imprescindibile nella capitale tedesca. Non solo per la pur numerosa comunità italiana, che non manca mai di affollare le proiezioni, ma anche per gli appassionati di cinema di tutte le nazionalità, che stanno riscoprendo, negli anni, l’interesse per il cinema italiano contemporaneo. Ed è proprio pensando a loro che ho visto “Zamora”, il film con il quale Neri Marcorè, dopo una lunga e prestigiosa carriera attoriale, esordisce alla regia.

Ho pensato ai miei concittadini “internazionali”, che forse del cinema italiano del nostro passato conoscono una manciata di nomi celebri, ma che quasi mai hanno idea di quanto fosse bella, profonda, intelligente la “commedia all’italiana”, quella vera, quella degli anni ’60. E ho pensato che sono proprio fortunati, i berlinesi che verranno a vedere “Zamora”, il 12 novembre alle 19.45 al Cinestar Kino in der Kulturbrauerei, perché potranno vivere la gioia di scoprire per la prima volta un tipo di cinema che non si fa quasi più.

Zamora: esordio alla regia di Neri Marcorè – La trama

Se questa fosse una recensione scritta, appunto, negli anni ’60, sicuramene si direbbe che si tratta di una commedia “garbata” – aggettivo che, tradizionalmente, vuol dire più cose in profondità che non in superficie. Tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Perrone, racconta la storia di Walter Vismara, contabile trentenne di Vigevano che si trova, per lavoro, a vivere a Milano, impiegato in un’azienda il cui direttore ha una passione smodata per il calcio e costringe i suoi dipendenti ad allenamenti periodici, che culminano nella classica partita scapoli vs ammogliati. C’è solo un problema: Walter Vismara non sa giocare a calcio, ma mente per ottenere il posto. Lo aiuterà a farsi valere Giorgio Cavazzoni, un ex campione che le vicende della vita hanno portato a perdere tutto. Nel mezzo, c’è un’Italia che cambia, ci sono rapporti fra uomini e donne che si evolvono (e che sono assai meno scontati di quanto gli italiani degli anni ’60 potessero immaginare). E poi c’è un cast perfetto, che abbina grandi nomi del cinema leggero e della comicità italiana (come Giovanni Storti, Antonio Catania, Giacomo Poretti, Ale & Franz e Giovanni Esposito) a giovani talenti come Alberto Paradossi e Marta Gastini e volti noti della comicità del web, come Walter Leonardi (Terzo Segreto di Satira). Il risultato è un film che fa ridere e anche molto, ma che non scappa dalla malinconia, che non cerca a tutti i costi di strappare la risata in ogni scena e che, quando posa lo sguardo sulle fragilità umane, lo fa con tenerezza.

A una settimana dalla prima berlinese, ne ho parlato con il regista Neri Marcorè.

Un esordio registico, dopo una lunga carriera attoriale è una scelta importante. Conosceva già il libro di Roberto Perrone prima di lavorare alla sceneggiatura? Che cosa ha fatto scattare l’interesse per questo progetto?

Era già mia intenzione, in ogni caso, debuttare alla regia prima o poi, perché ovviamente, dopo tanti film da attore, la voglia di misurarmi con la gestione e la direzione di un progetto filmico c’era da tempo, però non sapevo quando sarebbe successo. Tant’è che questo “Zamora” è arrivato in maniera un po’ rocambolesca, ma per questo forse è ancora di più piacevole e sorprendente. Il romanzo di Roberto Perrone l’avevo letto circa vent’anni fa e avrebbe dovuto diventare un film, già allora, di cui mi avevano proposto di essere il protagonista. Non credo che ne sarei stato il regista, perché comunque era una produzione diversa, che aveva acquisito i diritti.

A me era piaciuta molto questa storia, perché al centro c’era sostanzialmente il tema dell’inadeguatezza, poi il confronto fra la provincia e la città, fra ragazzi e ragazze. C’erano tanti argomenti che mi ricordavano la mia adolescenza e pensavo di poter essere in grado di restituire la mia visione di questa storia. Quindi, a distanza di vent’anni l’ho proposta prima a un regista, non a Saccà (co-fondatore di Pepito Produzioni, che ha prodotto il film. N.d.R.), con cui stavo girando in quel momento. Poi, quando ho parlato con Saccà, lui ha letto il romanzo e gli è piaciuto molto, ma ha rilanciato, chiedendomi di fare io stesso la regia. Per me è stato facilissimo accettare, perché ovviamente era una storia che conoscevo e per la quale avevo molto entusiasmo e molta passione. E quindi mi sono ritrovato a debuttare alla regia quasi quasi a sorpresa. È stata una grande gioia e una grande soddisfazione, per me, cominciare subito a mettermi al lavoro su questo progetto, vederlo crescere, diventare un film, montarlo, farlo vedere al pubblico e avere poi ottimi riscontri.

Dallo stesso scambio è nata anche la scelta poi di affidare a lei il ruolo non del protagonista, ma di Giorgio Cavazzoni?

Quando l’avevo proposto non avevo ancora messo a fuoco il ruolo che avrei potuto interpretare io, anche perché erano passati vent’anni. Sicuramente potevo anche essere il protagonista, ma avremmo dovuto modificare tanti elementi della storia. Avrebbe potuto anche essere la storia di un 55enne che “debutta” in porta, il che poteva essere anche più grottesco. Nel momento in cui mi è stato affidato il ruolo di regista, per prima cosa ho cominciato a chiamare membri delle troupe con cui avevo già lavorato e dei quali mi fidavo. Più avanti ho capito che non avrei potuto essere io il protagonista, perché volevo che la storia fosse più fedele al romanzo. A quel punto mi sono autoassegnato il ruolo di Cavazzoni, perché comunque volevo anche recitare nel film e mi sembrava un ruolo che avrei potuto gestire in modo compatibile con tutto il resto della lavorazione.

Parliamo proprio di questo ruolo, prima di tornare a parlare di regia. Questa è una commedia che i momenti malinconici se li vive fino in fondo. Mi colpisce il fatto che, dopo un’esperienza così ampia nella comicità, il personaggio che ha scelto per sé sia forse quello più malinconico, quello che si spinge di meno sul registro comico. È una scelta?

È assolutamente una scelta. Diciamo che io diffido delle commedie in cui c’è solo comicità. Per me, la tradizione della commedia italiana è quella dei grandi maestri degli anni sessanta, che riuscivano a giustapporre i toni della commedia e della risata con situazioni più o meno drammatiche, esistenziali  o sociali. In questo senso, l’impianto del film si rifà alla tradizione di quelle commedie in cui c’erano toni agrodolci. E il mio personaggio, come, credo, tutti gli altri personaggi del film, è un personaggio pieno, non è bidimensionale, non esiste soltanto al servizio della storia o del protagonista, è dotato di tante sfaccettature. Quindi sicuramente c’è la parte più divertente e scanzonata, però c’è anche quella più malinconica e più riflessiva, introspettiva, per esempio nel rapporto col figlio, nel fallimento che si è portato avanti, da quando la sua carriera è finita per gli errori compiuti. Mi piaceva che ci fosse un passato dal quale non era ancora riuscito ad affrancarsi e che gli impediva, per esempio, di presentarsi al figlio dignitosamente. Invece, poi, grazie all’amicizia con il giovane protagonista del film, riesce a capire, a perdonarsi, a lasciarsi alle spalle il passato e provare a recuperare il rapporto col figlio senza dare per scontato che lui non voglia saperne. Questo è il percorso che segue il mio personaggio.

Parlando di personaggi tridimensionali, un altro elemento che colpisce in questo film sono le donne, proprio per la loro tridimensionalità. Spesso, anzi, sono anche più complesse rispetto a come venivano rappresentate le donne di quegli anni nel nostro cinema. È voluta la scelta di rappresentarle come più avanzate, rispetto ai loro contemporanei? 

Sì. Il disegno che abbiamo fatto di queste figure femminili è assolutamente voluto. A me piaceva l’idea che avessero un altro passo rispetto ai personaggi maschili, perché credo che nella vita, senza voler generalizzare, si così. Credo che le donne tendano ad avere una visione un po’ più moderna e aperta dal punto di vista mentale e intellettuale. Anche se ci muoviamo negli anni precedenti a 68, vediamo queste figure, che si muovono comunque in un mondo a trazione maschile, ma che non sono succubi, hanno le loro le loro idee le portano avanti senza nasconderle, sono emancipate, sono libere.

Il pretesto lo offre la storia, per esempio con il personaggio della sorella, che ha deciso di separarsi dal marito perché la condizione matrimoniale non era garanzia di felicità, della mamma che tifa per la felicità della figlia e che festeggia, a differenza del padre che invece è più legato al “cosa dirà la gente” e più preoccupato del giudizio esterno che non della felicità della figlia. C’è Ada, la segretaria di cui si innamora Walter, che è abbastanza iscritta nello spirito degli anni 60, non prende lei l’iniziativa quando lui non la chiama più per uscire insieme, ma, nel momento in cui lui pensa di darle una lezione, è lei a darla a lui, dimostrandogli che ha capito esattamente cosa pensa e quale è stato l’errore che ha commesso, che lo “legge” molto più di quanto lui abbia fatto con lei. Poi c’è il personaggio della segretaria di Tosetto, che, sicuramente in chiave più comica, si prende la sua soddisfazione, dimostrando di essere un po’ diversa rispetto a come l’abbiamo vista fino. Tutte le donne hanno questo questo spessore in più. Rispetto al romanzo, che è ambientato nel 63, ho voluto spostarlo di un paio di anni avanti per avvicinarmi un po’ di più allo spirito del 68, che per me è rappresentato dal personaggio di Dorina, che è la ragazza con la quale Walter balla alla fine, e che si fa pochi problemi a dimostrare la sua simpatia, è molto moderna, prende l’iniziativa, fregandosene delle convenzioni sociali. Per me, lei rappresenta il futuro che sta per arrivare.

Personalmente, ho fatto la “ola” nel momento in cui Ada non torna con Walter nel “lieto fine”. In qualsiasi altro film, sarebbe tornata sui suoi passi… 

Sarebbe stato troppo banale se, vedendolo parare un gol, lei fosse tornata sui suoi passi. Per quale ragione? Non basta vedere uno che compie una prestazione atletica poter dire “mi innamoro di questa persona, che è stata così poco rispettosa nei miei confronti, che si è permessa di giudicarmi e che ha dimostrato una grettezza mentale che sicuramente non è affascinante”. Non sarebbe stato il mio film, se loro si fossero messi insieme. Non c’erano proprio i presupposti, quindi ho lottato per questo finale, perché c’era qualcuno che voleva che finisse in quel modo. Ma io mi sono opposto con tutte le forze. Sarebbe stato banale. lo considero il mio un finale felice, anche se è felice in maniera “diversa”. Ma l’alternativa sarebbe stata sbagliata, oltre che banale.

In questa commedia si coglie un grande amore per il cinema italiano degli anni ’60 e ci sono anche alcune citazioni, implicite ed esplicite. Dal cenno a Moretti (“e non hai pietà tu di me”) al concetto del mega direttore quasi fantozziano, che impone l’uso del tempo libero agli impiegati. Ci sono particolari registi o titoli che aveva in mente, nel momento in cui sceglieva come impostare la regia? 

In realtà io non ho messo a fuoco nessun regista, ho pensato semplicemente a come restituire le scene come io le vedevo. Mentre scrivevo non mi sono ispirato direttamente a nessuno, ma piuttosto ho cercato di trovare il mio linguaggio, la mia visione. Tanti hanno fatto un accostamento con Pupi Avati, perché anche lui spesso ambienta i suoi film in quei decenni del secolo scorso. Io non ci vedo invece grandi analogie. Ho rispettato semplicemente la mia visione della storia. Per me tutto partiva da una sceneggiatura molto solida. Poi è inevitabile che ognuno di noi risenta dell’influsso di questo o quel regista. Da spettatore di cinema, sono tantissimi i registi che mi piacciono e che magari subliminalmente mi hanno influenzato. Certo, se cito Brian De Palma, ovviamente, non c’entra con “Zamora”, perché è un altro tipo di regista, però è uno di quelli che sicuramente mi hanno colpito di più quanto a tecnica di ripresa. Nanni Moretti, per il suo tipo di commedia, è uno che sicuramente mi è piaciuto molto, soprattutto quando faceva quel tipo di comicità surreale, che anche in Zamora, qua e là, fa capolino. Parlando di commedia all’italiana, sicuramente mi ha influenzato molto il modo di girare e di impostare le scene e il rapporto tra personaggi dei grandi maestri come Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola. Poi mi sono accorto d’aver girato delle scene citando “Ritorno al Futuro”: sicuramente sono fan di Robert Zemeckis, ma non l’ho fatto intenzionalmente. Ci sono cose che si applicano subliminalmente e poi ci sono piccoli omaggi, come la citazione di Moretti: un piccolo divertissement e un cenno di rispetto a un regista che apprezzo.

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