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Antonio Albanese: “Il film più importante della mia vita”

Cento Domeniche“, presentato per la prima volta a Berlino nel corso dell’edizione 2024 dell’Italian Film Festival, è il sesto film da regista di Antonio Albanese ed è un film necessario. Dolorosissimo e necessario. Per la prima volta, nei panni di regista, Albanese lascia completamente da parte la leggerezza e anche la satira, concentrandosi solo su un registro drammatico, che racconta una tragedia del nostro tempo e lo fa con una delicatezza schiacciante. Antonio è un ex operaio, che ha lavorato e risparmiato per una vita e sogna, sopra ogni cosa, di festeggiare il matrimonio di sua figlia. Tutti i suoi risparmi sono depositati nella piccola banca locale: una realtà di paese, inserita in un piccolo mondo, nel quale ci si conosce tutti e ci si fida gli uni degli altri. Antonio sa di avere investito i suoi risparmi in obbligazioni: sicure, stabili, affidabili. E invece non è così. Gli hanno fatto firmare un contratto, gli hanno mentito: tutto ciò che ha è investito in azioni della banca. E la banca crolla. Antonio perde tutto. I soldi, il sonno, la capacità di fidarsi della comunità che ha intorno, la speranza. E, mentre chi lo ha truffato fa una splendida carriera, l’ex operaio, insieme a tanti suoi compaesani, sprofonda in una disperazione senza ritorno.

Di questo film durissimo e delicatissimo ho parlato con Antonio Albanese, che, oltre a dirigere, interpreta anche il protagonista. E lo fa con un amore che pochi registi hanno riservato a un personaggio. Lo interpreta proteggendolo, anche quando non può più essere protetto. È stata un’intervista con poche domande. Perché su un film come questo non c’è da chiedere, c’è da dire.

Ho amato moltissimo questo film, anche se mi ha fatto davvero malissimo. Ma immagino che sia proprio questo il punto, no?

Io credo nel nostro lavoro ci sia una grande occasione, che è quella di far notare che determinate angosce, determinati problemi si possono risolvere, però si devono un po’ conoscere prima. Il tema delle banche e dei crack finanziari è una grande ingiustizia che vive da parecchi decenni e io, da spettatore, desideravo raccontarne le conseguenze. 

In che modo? 

Cercando di immedesimarmi in una vittima il più possibile. Guardando la tv, un giorno, mi sono reso conto che c’era un signore della mia età, che potevo benissimo essere io, che raccontava la sua esperienza di metalmeccanico. Io ho fatto il metalmeccanico da ragazzino. Mi sono reso conto che potevo benissimo essere io quella vittima, perché io sono anche un po’ ingenuo, non ho mai letto un contratto di una banca, mi fido ciecamente di quelli che fanno altri lavori. Molte banche sono luoghi di grande fiducia. Allora ho cominciato a indagare, leggendo libri, leggendo testimonianze, incontrando vittime, incontrando giornalisti, ma non mi bastava. Poi a un certo punto il più grande esperto di crack bancari, Marino Smiderle, che lavorava in banca e poi è diventato giornalista e quindi direttore del giornale di Vicenza, ed è una persona meravigliosa, mi ha segnalato una psicologa. Questa psicologa, per un decennio, ha assistito queste persone che perdevano il sonno, e non solo.

E allora ho cominciato ad ascoltare il suo punto di vista. E quando mi ha detto “Antonio, questo film lo devi fare, perché queste cose non si devono più ripetere” io ho cercato di chiamare a raccolta le mie energie, un gruppo di amici, e ho scelto un paesino dove io sono nato, perché è una comunità che conosco, che poteva comunque proteggermi. E ho affrontato questa esperienza, che è stata molto faticosa a livello emotivo. 

Come avrai notato, anche nella scena finale, io ho avuto momenti intensi, perché non puoi tradire un tema così delicato. E poi ho avuto la consacrazione, quando il film è stato proiettato davanti a 1.500 vittime, che mi hanno abbracciato.

E quello è stato uno dei momenti più importanti della mia carriera, perché è stato un momento di immensa soddisfazione, perché era rischioso, il tema era delicato, e io sono innamorato di questo film. Noi facciamo tante cose, io faccio teatro, faccio opere liriche, lavoro come attore, però di questo film è la cosa che amo più di tutti, lo amo veramente.

Non fatico a crederlo. Vorrei parlare con te della colpa, perché l’assunzione della responsabilità, in questo film, è inversamente proporzionale alla colpa reale. Colui che ha più colpe di tutti, che sa quello che sta facendo, a chi e perché, fa una splendida carriera. Quello che una mezza colpa, magari non perde il lavoro, ma perde i risparmi e porta il peso della responsabilità morale. Quello che ha meno colpa di tutti, invece, è quello a cui tutti, anche i suoi cari, dicono che ha sbagliato. E paga il prezzo più alto.

È incredibile questo. Quello che hai appena detto è una descrizione perfetta di quello che in un modo o nell’altro io volevo visualizzare nel film. Ed è così. Ed è stato così. E non deve continuare a essere così.

Chi ha la responsabilità deve pagare per le sue colpe enormi. Perché è vero, non leggere un contratto è una colpa, d’accordo. Però ricordiamoci che le persone normali, le persone per bene, che sono gli artigiani, gli operai, i metalmeccanici che sostengono questo paese, non solo l’Italia, ma anche la Germania, queste sono persone che non devono essere tradite.

Antonio Albanese e Liliana Bottone in “Cento Domeniche”

Se tu tradisci una persona così, sei doppiamente vigliacco. E devi pagare colpe doppie, triple, quadruple. E nella parte finale di questo film io volevo far visualizzare quello che emerge: la grande dignità che rimane in queste brave persone. 

Queste brave persone ci educano. Perché la dignità, che è una cosa che ormai sembra scomparsa, invece esiste. E l’atteggiamento di quest’uomo è un atteggiamento carico di dignità. E io lo stimo e lo amo e continuerò a amarlo per questo. 

La colpa che gli viene data è un po’ un riflesso della “fallacia del mondo giusto”, no? Per cui “se ti succede qualcosa di male, è perché hai commesso un errore. Se io non commetto lo stesso errore, sarò al sicuro”.

Esatto. Questo è il motivo. Ed è tutto alla base della grande onestà che si sta disperdendo un po’. All’inizio del film c’è una battuta che è molto importante per me, ma non tanto per il film quanto per il tempo che stiamo vivendo.

Quando Antonio parla con l’amante di qualcuno che “è andato in Romania a delocalizzare l’azienda e poi la venderà a un fondo” aggiunge “finiremo tutti in fondo a un fondo”. Questa battuta, che io cercherò, in un modo o nell’altro, di visualizzare ancora meglio in futuro, esprime quell’ingordigia economica, il potere di quei gruppi economici, che se ne fottono degli altri e li trattano come insetti. Questa cosa determina l’assenza totale di rispetto. Quest’uomo io lo amo perché è profondamente onesto e quindi è un grande.

Poco fa parlato della comunità che protegge, però in questo film si mostra anche un aspetto insidioso della comunità, che fa finta di proteggere. Penso all’ex datore di lavoro, che pensa a tutelare solo sé stesso, e alla piccola banca di Paese, dove ci si tradisce anche se ci si conosce da tutta la vita. 

Eh, spesso accade questo, quasi sempre accade questo, perché a un certo punto quando si parla di interessi economici e quindi di futuro, di interessi familiari, si cerca sempre di falsare la realtà e di isolare l’altro – in questo caso il protagonista.

Da parte di alcuni, per motivi disumani. Da parte di altri, perché sono tematiche che non si conoscono fino in fondo, non se ne conoscono le conseguenze. Perché sai, quando rimani solo, diventa veramente un mistero quella solitudine, per ognuno di noi.

Anche perché Antonio, come moltissimi padri, è un uomo anche incapace di farsi aiutare da quelli che gli vogliono bene perché ritiene che non siano loro a doverlo aiutare. 

È orgoglioso. Lui è un uomo che si è fatto da solo, non ha mai chiesto niente a nessuno, non è mai stato furbo. Viva Dio, non è furbo. Che meraviglia. È profondamente onesto. È umanamente un re. È umanamente una persona da seguire. È un educatore, in un certo senso.

Io chiuderei con una considerazione che se è possibile è ancora più pessimista. Nel film si rappresenta la figura di un operaio come di una persona che ha lavorato duramente tutta la vita e conduce una vita umile…

Però felice!

Certo. Ma nel momento in cui lui va in banca e rivela l’ammontare dei suoi risparmi, è impossibile non pensare, dalla prospettiva delle generazioni più giovani, che gli operai, oggi, sono un’élite. Per moltissimi precari che non hanno un contratto-quadro, uno che in banca ha 84.000 euro è ricco. E allora mi chiedo: quando gli “Antonio” di domani saranno coloro che oggi hanno 20 o 30 anni, che lavorano ma non hanno il salario minimo né le tutele sindacali, che per tutta la vita non hanno mai avuto e non avranno mai più di 2.000 euro in banca, di cosa potranno essere derubati? Che cosa potranno rubarci, quando non potranno più rubarci 84.000 euro?

Il tempo? La quotidianità? Un fondo, tempo fa, da un giorno all’altro, ha licenziato il 30% dei ragazzi che lavoravano in azienda, senza rispetto e senza tutele. Antonio ha raccolto, dopo 35 anni di risparmi, fra TFR e tutto, circa 80 mila euro: è la realtà di un operaio che lavora 35 anni. Voi, la nuova generazione chi oggi ha 30-40 anni, deve comunque quotidianamente lottare e adattarsi a tutto questo. Quello che accadrà in questo senso non lo so. Il governo e la politica devono cominciare a pensare a questo, assolutamente.

È un tema molto interessante quello che tu hai sollevato. Perché davvero una fascia enorme di giovani sono sempre a un quarto d’ora dal vuoto, dall’abisso. È incredibile.

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