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Femminicidio: quando il modo di parlarne FA SCHIFO

di Lucia Conti

Quando si parla di violenza sulle donne e di femminicidio la narrazione è spesso inquinata, perché è difficile emanciparsi da decenni di cultura del possesso spacciata per sentimento, retorica malsana e omertà sul tema.

Anche i media non fanno eccezione e in questo caso c’è una responsabilità in più, perché sono loro a consegnare all’opinione pubblica la notizia e sono anni che si ribadisce la necessità di farlo responsabilmente. In Italia, ad esempio, nel 2021 l’Ordine dei giornalisti ha modificato il Testo unico dei doveri deontologici della categoria proprio per fare in modo che molestie, violenze e femminicidi vengano raccontati in modo corretto e consapevole. E invece i media continuano a sbagliare.

Basta parlare d’amore a sproposito

Intanto continuano a usare la parola amore. Bisogna smetterla di parlare di “amore malato” o di “amore sbagliato” di fronte a botte, insulti e cadaveri, di dire cose come “ha ucciso per amore” e di romanticizzare la violenza.

Gli esempi negativi sono innumerevoli. Come dimenticare, ad esempio, un particolare articolo del 2019 sul femminicidio di Elisa Pomarelli, strangolata in un pollaio da Massimo Sebastiani. Il titolo era “Il gigante buono e quell’amore non corrisposto“. In un altro articolo della stessa testata si leggeva che “forse Massimo Sebastiani la amava davvero, in un suo modo infelice e perverso“. E in generale la stampa, in quell’occasione, ha ritenuto fondamentale immortalare le opinioni degli amici dell’omicida e frasi come: “se Elisa non lo amava perché continuava a uscire con lui, a andarci in vacanza, insomma, a illuderlo?”.

Per descrivere gli autori dei delitti, inoltre, i media usano spesso espressioni che suonano assolutorie: “Fidanzatino”, “Bravo ragazzo”, “Grande lavoratore”, “Padre e marito affettuoso”. Quest’ultima espressione usata anche per descrivere chi, per fare un lavoro completo, ha ucciso anche i figli.

Nel 2020, per esempio, un uomo, a Carignano, ha sparato alla moglie, ai figli di due anni e persino al cane, prima di suicidarsi. Una parte della stampa ha scelto di riportare dichiarazioni di conoscenti che ne parlavano come di una “persona tranquilla“, “sempre attento e gentile” e come un “gran lavoratore che viveva per la famiglia“. Più che vivere per la famiglia, in realtà, l’ha ammazzata senza scrupoli, ma “lavorava anche il sabato e la domenica per finire la villetta che avevano costruito”, mentre lei, invece, “voleva separarsi” e quando lui le aveva chiesto un’altra possibilità aveva risposto “quando dico di no è no!” ed era rimasta irremovibile, fino alla fine. “L’abbiamo vista ieri sera, era tranquilla, anzi euforica” concludeva più di un articolo, riportando come finale a effetto le dichiarazioni di un vicino all’indomani della tragedia.

Insomma, viene quasi istintivo pensare che quest’uomo in odore di santità abbia ammazzato la famiglia perché spinto nel baratro della follia dalla cattiveria della moglie e che l’omicidio plurimo possa essere una “conseguenza dell’amore”. Basta con queste scemenze.

L’amore non c’entra niente. È ridicolo anche doverlo precisare, ma in un Paese che trova romantica l’espressione “t’appartengo” bisogna puntualizzare anche l’ovvio. Le dinamiche malsane che portano al femminicidio hanno a che fare esclusivamente con la volontà di esercitare potere su un altro essere umano senza tener conto della sua volontà, dei suoi desideri, del suo benessere. Arrivando ad annientarlo, se non si piega e non accetta di diventare un oggetto. Altro che amore.

I mostri sono immaginari, i femminicidi reali

I media usano inoltre ancora termini come depressione, mostro e raptus, descrivendo scenari in cui specchiate personcine si trasformano in entità malefiche incontrollabili alla Michael Myers o impazziscono all’improvviso. In realtà solo raramente, nei responsabili di femminicidio, si riscontra un vizio parziale o totale di mente, quindi smettiamola con questa storia del “momento di follia” e del “velo nero” caduto implacabilmente davanti agli occhi dell’omicida, anche se capisco che possa risultare conveniente in sede processuale. Quando si tratta di escludere la premeditazione, per intenderci.

Cominciamo a raccontare il fenomeno come un problema sistemico, invece che come una somma di tanti casi isolati, e faremo un bel passo avanti. Le cronache non sono piene di “mostri”, ma di esseri umani che continuiamo a raccontare in modo sbagliato.

Sull’abuso della paroladepressione” quando si parla degli assassini, quasi sempre senza conoscere il significato clinico del termine, si raggiunge poi il risultato di far ritenere che in ogni depresso si nasconda un carnefice. Grazie mille, da parte di chi per anni ha cercato di normalizzare i problemi di salute mentale e di parlarne senza stigmi o tabù. Ma andiamo avanti.

Per anni i media hanno usato forme passive o impersonali: “la donna è stata uccisa”, “il cadavere è stato occultato”, “la tragedia si è verificata”, “la violenza si è consumata, “lo stupro è avvenuto”, e poi la mia preferita: “la donna è volata dalla finestra”. Tra Peter Pan e un dipinto di Chagall, praticamente.

Nel suo libro sulla scrittura, “On writing”, Stephen King ammette la sua intolleranza nei confronti delle forme passive, ritenendo che tolgano dinamismo all’azione. Se però nella semplice narrativa questo punto di vista è al servizio della scorrevolezza del testo, quando si parla di violenza di genere e femminicidio l’abuso di forme passive distorce la realtà e fa sembrare quasi che queste donne muoiano per mano di forze invisibili, che uccidono per ragioni ignote e si premurano anche di far sparire le tracce.

I femminicidi “notiziabili” e le vittime perfette

Soprattutto, però, i media raccontano solo storie “notiziabili”, e cioè vendibili o cliccabili. Ancora una volta non analizzano un problema strutturale.

Preferiscono le “vittime perfette”, giovani, innocenti, dalla condotta irreprensibile, con una famiglia perbene e se possibile belle e madri. Lo dimostrano le tragiche storie di Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin. In casi simili i media possono andare avanti mesi, inducendo una commozione popolare mista a rabbia e indignazione che può arrivare al parossismo e far pensare che le cose stiano cambiando davvero. Spoiler: non cambia niente.

E infatti, una volta spenti i riflettori del sensazionalismo, le donne continuano a morire e a subire violenza nello stesso identico modo. Nel frattempo, continuano a essere ignorate le vittime anziane o quelle che possiamo chiamare “vittime imperfette”, quelle che per il senso comune non meritano fiaccolate perché “un po’ se la sono cercata”, come Carol Maltesi, sex worker uccisa e fatta a pezzi nel 2022 nell’indifferenza generale (a parte l’attenzione di qualche comico fallito), o che erano percepite come troppo appariscenti e anticonvenzionali, come Alessandra Matteuzzi, che a due anni dalla morte ha gli hater sui social. Qualche volta si parla di ottuagenarie che vengono violentate da giovani chiaramente problematici, ma perché, nella tragedia, è quasi un episodio di colore. È una notizia che attira l’attenzione e quindi è monetizzabile.

Infine, anche quando cercano di andare nella giusta direzione, i media spesso inciampano. A questo proposito citerei un articolo pubblicato qualche anno fa da un noto quotidiano, che giustamente invocava la parità di genere a partire da una corretta educazione in famiglia. Solo che il titolo era: “Le madri dei figli maschi hanno una responsabilità in più”. Padri non pervenuti. Gli uomini sono esclusi da qualunque responsabilizzazione. Se stuprano o uccidono sono lupi, mostri o hanno il raptus e quindi sono entità bestiali, demoniache, da cui non ci si può aspettare nulla. Quando sono ancora bambini, sono le madri a dover fare in modo che non diventino futuri abuser, stupratori o assassini.

La TV non aiuta: dai peggiori scivoloni all’esibizione di trogloditi impresentabili

Sarebbe bello se la televisione non facesse altri danni. In realtà riesce a fare molto peggio, anche perché ha la capacità di penetrare più a lungo e più fondo nella quotidianità del pubblico, influenzando la formazione delle opinioni.

Qualche anno fa, una notissima conduttrice ha detto testualmente che “ci sono uomini che, per troppo amore e troppa gelosia, fanno cose che non vorrebbero fare“. Lo ha detto rivolgendosi a una 22enne che difendeva a spada tratta il suo ragazzo, accusato di aver tentato di darle fuoco con benzina e accendino, ustionandola gravemente. Il giovane è stato poi condannato a 12 anni di reclusione, poi ridotti a 10, per tentato omicidio. In seguito al clamore suscitato, la conduttrice ha dichiarato di essere stata fraintesa e di aver solo tentato di far ragionare la vittima, che continuava a difendere il suo ragazzo sostenendo che fosse innocente, contro ogni evidenza.

In un’altra occasione, una giornalista e conduttrice che commentava in una nota trasmissione la notizia di sette donne uccise in sette giorni, ha detto: “a volte, però, è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati, oppure c’è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte?”. Travolta dalle polemiche, si è scusata sostenendo che la sua frase fosse stata estrapolata dal contesto, che era quello di una discussione sulla de-escalation della violenza e quindi sulla prevenzione del femminicidio.

Questi due casi sono la dimostrazione di quanto le parole siano importanti e di quanto possono diventare pesanti, quando si affrontano certi temi. Al di là delle buone intenzioni, che rilevano solo per la reputazione personale di chi commette uno scivolone, quello che conta davvero è ciò che arriva all’opinione pubblica. Per questo, quando si parla pubblicamente di violenza di genere o femminicidio, ogni concetto va calibrato, perché non resterà circoscritto all’ambito della singola discussione, ma se ne andrà a lungo in giro sulle sue gambe.

Cartello contro la violenza sulle donne – Esposto per il femminicidio di Giulia Cecchetin e per tutte le donne vittime di femminicidio. Anna.Massini, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons

Ci sono infine trasmissioni televisive che danno regolarmente spazio a esempi di mascolinità tossica, ospitando trogloditi che dichiarano di controllare mogli e compagne, di non farle uscire di casa, di non volere che lavorino, o che le insultano in modo sessista a favore di camera. A volte queste stesse trasmissioni si danno anche da fare per ricucire questi legami malsani, quando il format lo richiede.

Neanche una volta vengono presi provvedimenti a riguardo e da anni va avanti indisturbato uno spettacolo nauseante che normalizza, davanti a milioni di persone, l’oggettificazione delle donne. Poi però, se negli stessi contesti si bestemmia, è cartellino rosso e damnatio memoriae. Le priorità sono chiare.

Adesso dovrebbe arrivare la conclusione, in cui faccio la sintesi degli spunti, propongo una soluzione condivisa su cui lavorare e indico costruttivamente la direzione in cui procedere. In realtà la direzione c’è già, ci sono mille strumenti per approfondire la questione, moltissime persone qualificate ne discutono con competenza regolarmente, tanto è stato scritto e detto. Il mio consiglio è proprio questo: banalmente, occuparsene bene. Non a suon di frasi fatte, non solo quando è trending topic, non in dibattiti circoscritti ed estranei alla vita, non semplificando, non banalizzando, non solo quando si consuma l’atto finale, ma esaminando tutto con nuove lenti, anche all’interno del proprio contesto. Ricostruendo con pazienza il mosaico di quello che Roberto Lodigiani, nel 2008, definiva “l’olocausto patito dalle donne che subiscono violenza: da nord a sud, per aggressioni domestiche o fuori di casa, per casi meno eclatanti o finendo all’ospedale quando non al cimitero. Per lo più per mano di familiari, compagni, congiunti”.

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