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“Wir Sind so Frei”: un documentario su proteste e repressione in Germania

Come sarebbe cambiata la storia se, ai tempi della prima rivoluzione industriale, le tecnologie audiovisive fossero state abbastanza sviluppate da permettere di girare documentari come quelli che si possono produrre oggi? La domanda non è fine a sé stessa. Immaginate un documentario sulla lotta di classe, con immagini registrate delle manifestazioni e delle tecniche repressive, con interviste a diverse parti in causa: che effetto avrebbero avuto sull’opinione pubblica. Queste sono alcune delle riflessioni che mi è capitato di fare, assistendo alla presentazione di “Wir Sind So Frei” (“Siamo così liberi”), documentario di Christian Lehmann-Feddersen e Alf Schreiber, che prende le mosse dalle proteste contro il G20 di Amburgo – ma che va molto oltre.

Va detto che, se volessimo continuare a tracciare paralleli con le proteste di inizio ‘900, quelle che ci hanno portato conquiste come il diritto di sciopero, il suffragio universale e la giornata lavorativa di 8 ore, bisognerebbe addentrarsi in questioni più complesse. Oggi, per esempio, ci sono avvocati che si occupano specificamente di supportare i manifestanti che affrontano le conseguenze legali delle proprie proteste e ci sono, almeno in Germania, limitazioni che lo stato di diritto impone all’azione della polizia. Certo, non cambia il concetto di “potere” contro il quale protesta chi vi contrappone il diritto, però cambia il volto di tale potere: non più le monarchie e l’aristocrazia, ma le grandi multinazionali, che esercitano un potere uguale e superiore a quello di uno Stato, un potere sovra-nazionale che può arrivare a decretare e ottenere una repressione durissima di ogni forma di dissenso.

Il documentario

Facciamo un passo indietro: il documentario offre uno sguardo approfondito sulle conseguenze socio-politiche del vertice del G20 tenutosi ad Amburgo nel luglio 2017. I due registi hanno infatti seguito a lungo termine gli attivisti che hanno protestato contro il vertice e contro le conseguenze della globalizzazione finanziaria in termini di diritto del lavoro e tutela dell’ambiente. Attraverso un’analisi dettagliata e un approccio empatico, il film riesce a catturare l’essenza delle lotte e delle aspirazioni di coloro che si oppongono a un sistema che percepiscono come ingiusto e oppressivo.

Una prospettiva italiana

Il film in parte mostra e in parte raccoglie le testimonianze della repressione violenta da parte della polizia: alcuni filmati si commentano da sé (e non sono piacevoli da guardare), altri sono testimonianze di abusi sia fisici che d’ufficio, riferiti tanto dai manifestanti quanto dai loro legali. Una nota a margine la merita la visione da parte di un pubblico italiano: la Germania non ha conosciuto, fino a questo momento, gli eccessi della Diaz e del G8 né si documentano casi di violenza estrema come quelli denunciati dalle famiglie Cucchi e Aldrovandi in Italia, ma ci fa comunque bene guardare questo documentario accogliendo un punto di vista tedesco, per spostare la nostra concezione di ciò che costituisce un abuso di potere. Per esempio, ci fa bene ricordare che la quantità di violenza tollerabile da parte delle forze dell’ordine su un soggetto indifeso e non pericoloso, perché non sta agendo violenza o perché è già stato immobilizzato, è zero. E lo stesso vale per le circostanze nelle quali è accettabile negare a una persona detenuta l’accesso all’assistenza legale. Detto in parole semplici: guardare questo documentario da italiani potrebbe portarci a pensare che quella che vediamo sullo schermo non sia “vera” violenza, ma è importantissimo ricordarci che lo è.

La violenza “corporate” e le nuove forme di resistenza

Il film si spinge anche a esplorare altre forme di “violenza”, che viene agita in modo sistemico senza colpi e senza manette, ma attraverso la privazione dell’indispensabile, come strumento di coercizione e di creazione di moderne forme di schiavitù. Oltre alle proteste del G20, infatti, il documentario esplora anche la nascita di nuovi movimenti sorti dalle crisi in corso, come quelli dei lavoratori migranti che operano nel settore delle consegne a domicilio e che devono lottare per organizzarsi e per rivendicare diritti basilari come il diritto di sciopero (che in Germania è soggetto a specifiche restrizioni ed è prerogativa esclusiva dei sindacati), salari equi e condizioni lavorative dignitose per i rider. Allo stesso modo, le donne rifugiate stanno creando associazioni come “NiNa Women in Action” e “Women in Exile”, le quali non solo offrono supporto e solidarietà, ma rappresentano anche un potente strumento di emancipazione e autodeterminazione per le donne che, spesso, si trovano a dover affrontare discriminazioni multiple tanto nell’integrazione sociale quanto nell’inserimento lavorativo.

Pars Construens

Uno degli aspetti più interessanti di questo documentario è proprio la sua “pars construens”, ovvero quella che esplora le soluzioni. Se da un lato il potere finanziario di colossi come Black Rock si impadronisce di tutto ciò che ci circonda (risorse naturali, aziende che acquisiscono altre aziende, che forniscono tanto il lavoro quanto i prodotti, governi locali e nazionali attraverso la pressione lobbystica), dall’altra, i gruppi autonomi non solo protestano, ma si riorganizzano in comunità che si riappropriano di piccole “fette” del vivere civile ed economico, promuovendo filiere corte, il recupero del rapporto con la terra, pratiche sostenibili che vanno dall’agricoltura al consumo, prospettive trasversali e decoloniali.

Nella sua panoramica a più livelli, insomma, “Wir Sind so Frei” delinea un quadro completo di come le forze di appropriazione privata della ricchezza e del potere determinino le nostre condizioni di vita e lavoro. Attraverso interviste, immagini d’archivio e riprese sul campo, il film offre una narrazione complessa e articolata delle dinamiche socio-economiche contemporanee. Allo stesso tempo, il documentario mette in luce il grande potenziale di superamento di questa situazione da parte di coloro che sono colpiti in vari modi dalla crescente povertà, dallo sfruttamento lavorativo, dai tagli sociali e dalle conseguenze dell’economia di guerra. Le storie di resistenza e di lotta che emergono dal film sono un potente richiamo alla necessità di un cambiamento radicale e sistemico e un rifiuto di quella che il film definisce “politica dell’inimicizia”, ovvero la costante presentazione di potenziali minacce all’opinione pubblica (una su tutte la demonizzazione degli immigrati), per distogliere dagli effetti nefasti dello sfruttamento scriteriato delle risorse naturali e dell’iper-concentrazione della ricchezza in pochissimi, enormi conglomerati.

In un periodo di crescente ostilità verso i migranti e di messa in discussione del diritto d’asilo, questo film non rappresenta un messaggio di speranza e non offre risposte, ma piuttosto presenta un insieme di esperienze e percorsi verso l’emancipazione.

Dove vedere “Wir Sind So Frei”

Il documentario è prevalentemente in tedesco, con inserti in inglese, francese e arabo. Dopo l’uscita ufficiale del 5 settembre, sono previste numerose altre presentazioni in tutta la Germania. Di seguito, l’elenco completo.

Berlin, Tilsiter Lichtspiele (05.09.2024-11.09.2024)
Berlin, Sputnik Kino (05.09.2024-11.09.2024)
Braunschweig, Universum (09.09.2024)
Dortmund, Roxy (05.09.2024-11.09.2024
Hamburg, 3001 Kino (05.09.2024-11.09.2024)
Hannover, Kino im Sprengel (24.10.2024)
Kernen, KoKi / Glockenkelter (in Planung)
Köln, Traumathek (24.09.2024)
München, Monopol (11.09.2024)
München, Werkstattkino (16.09.2024-19.09.2024)
Oberhausen, Unterhaus (19.10.2024)
Radolfzell, Zeller Kultur (07.11.2024)

Il trailer

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