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Quando Berlino voltò lo sguardo: la tragica deportazione dei Sinti e dei Rom prima delle Olimpiadi del ‘36

Nell’estate del 1936, la capitale tedesca era pervasa da un’atmosfera di frenesia: succede, quando ci si appresta a ricevere ospiti importanti. In quell’occasione, la città si stava preparando per ospitare le Olimpiadi e il regime aveva tutto l’interesse a proiettare un’immagine di efficienza, successo e armonia a beneficio della stampa internazionale. Gli occhi del mondo, d’altra parte, erano puntati da tempo sulla Germania per quelli che Hitler considerava i motivi sbagliati: le voci sui numerosi volti oscuri del nazismo si rincorrevano – per quanto gli orrori che avrebbero sconvolto il mondo fossero ancora di là da venire – e il governo voleva a ogni costo cogliere l’occasione del grande evento sportivo per mostrare al mondo la potenza della Germania nazista e presentarla come un Paese ordinato, pulito, nel quale tutta la popolazione viveva in armonia e appoggiava con entusiasmo il Cancelliere. Tutta la popolazione visibile, almeno. Proprio per questo, si decise che una parte della popolazione doveva diventare invisibile, doveva essere nascosta agli occhi dei visitatori. A sparire, prima ancora di tante altre minoranze, dovevano essere i Sinti e i Rom

Berlino, 1936, Olimpiadi. la guardia militare marcia davanti alla Porta di Brandeburgo. Foto: Bundesarchiv, B 145 Bild-P017127 / Frankl, A. / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE, via Wikimedia Commons

La deportazione di luglio: i Sinti e i Rom di Berlino nel campo di Marzahn

A sole due settimane dall’inizio dei giochi, Berlino era un cantiere a cielo aperto, con gli operai che lavoravano giorno e notte per completare gli stadi e le infrastrutture. Le strade erano adornate con bandiere e simboli nazisti, e la propaganda era onnipresente, con manifesti che esaltavano la forza e la purezza del popolo tedesco, un popolo omogeneo, “Volk”, nella stessa accezione che al termine danno ancora oggi i movimenti identitari di estrema destra, un popolo che si identificava proprio in base alla possibilità di escludere le minoranze, di negare l’esistenza di tutto ciò che lo rendeva eterogeneo, fino all’annientamento. Tutto questo, però, sarebbe arrivato dopo. Nel ’36, la Berlino che si preparava ad accogliere sportivi, giornalisti, politici e visitatori era uniformemente bionda, ariana, sorridente.

Evidentemente, le famiglie di etnia Sinti e Rom che vivevano in diversi quartieri, anche piuttosto centrali, non corrispondevano a questa definizione. Per questo, il governo ne decretò la deportazione in un campo al limitare della città, lontano dagli occhi dei visitatori internazionali e della stampa. Questa operazione era stata accuratamente organizzata per evitare che l’immagine della Germania venisse macchiata da quello che il regime considerava un elemento “indesiderabile”. 

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Olimpiadi del 1936 Prima della cerimonia di apertura degli XI Giochi Olimpici. Insieme ai membri dei Comitati Olimpici Internazionali e Nazionali, Adolf Hitler entra nello stadio. Foto: Bundesarchiv, Bild 183-G00372 / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE, via Wikimedia Commons

Era l’alba del 16 luglio quando centinaia di agenti di polizia di presentarono, senza preavviso, alle porte dei residenti rom nei quartieri di Alex, Scheunenviertel, Wedding e Prenzlauer Berg. Circa 600 persone di etnia Sinti e Rom, di tutte le età, furono caricate con la forza sui camion e strappate dalle loro case e dalle loro vite, inaugurando una pratica che il regime nazista avrebbe sistematizzato negli anni a venire. I residenti “indesiderabili” della capitale vennero trasportati in un campo fangoso, desolato e insalubre presso il cimitero di Marzahn

L’operazione, autorizzata dal ministro degli Interni del Reich Wilhelm Frick, fu chiamata “Landfahndungstag nach Zigeunern” (“Giornata di ricerca di terra per gli zingari”): già all’epoca, al regime piaceva assai poco chiamare le cose col loro nome. Non era una deportazione, non era un tentativo di cancellare degli esseri umani: era la “ricerca” di una “terra”, nonostante le famiglie deportate una terra l’avessero già. La motivazione ufficiale fornita per questa operazione era quella di debellare la criminalità e l’accattonaggio prima dell’evento olimpico. Nel resto della popolazione, intanto, si manifestava quel fenomeno che una citazione di Martin Niemöller, più avanti, avrebbe reso noto a tutto il mondo: quando vennero a prendere i Rom e i Sinti, nessuno, o quasi, protestò. Molti berlinesi, influenzati dalla propaganda nazista e da decenni di pregiudizi precedenti, accolsero la notizia con sollievo, salutando la rimozione di quelli che reputavano una piaga sociale. Non importava che si trattasse di normalissime famiglie borghesi, di religione cristiana, con case simili a tutte le altre e figli simili a tutti gli altri, che andavano nelle stesse scuole: l’abitudine a considerare Rom e Sinti come gruppi antisociali, dediti alle attività illecite, era già inveterata.

Il preludio dello sterminio

La tremenda ironia fu l’autoavverarsi della profezia sociale che vedeva queste etnie come marginali: una volta arrivate a Marzahn, lo furono davvero. Il campo di Marzahn fu in seguito descritto dai pochi sopravvissuti come un luogo da incubo. Le famiglie, alle quali non era stato permesso di portare nulla con sé, furono costrette a vivere in roulotte fatiscenti, senza ruote, parcheggiate nel fango, senza alcuna fornitura di acqua potabile né servizi igienici adeguati. Le famiglie vivevano ammassate in condizioni disumane, circondate dal lezzo dei liquami e costantemente sorvegliate da unità delle SS. Nel momento di massimo affollamento, circa 1.000 persone dovevano sopperire alle proprie necessità igieniche con due latrine e tre rubinetti. 

Berlino-Marzahn, 1936. Polizia a guardia del campo Sinti e Rom. Foto: Bundesarchiv, Bild 146-1987-035-25A / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE, via Wikimedia Commons [cropped]

Era concesso ai deportati di allontanarsi dal campo solo con appositi permessi, per andare a procurarsi cibo e acqua, purché rientrassero entro i limiti di un severissimo coprifuoco, fissato alle 22.00. I residenti del vicino villaggio di Marzahn negavano ai deportati qualsiasi gesto di solidarietà e ben presto divenne difficilissimo per i residenti del campo acquistare cibo, dal momento che per loro era impossibile lavorare. Per un certo periodo, fu loro permesso di mendicare o di suonare per strada, ma il margine entro il quale la comunità era costretta a vivere si restrinse giorno per giorno. I limiti si fecero fisici: alle SS con i cani si aggiunse una recinzione di filo spinato. L’ostilità premeva da ogni lato, rendendo sempre più chiaro un concetto: la società tedesca non aveva posto per i Rom e i Sinti.

Gli unici a voler entrare nel campo, da fuori, erano gli scienziati del Reich, che “studiavano” la popolazione di etnia Rom e Sinti. I residenti erano obbligati a donare il sangue e sottoposti a misurazioni di ogni genere, il cui scopo era semplicemente quello di fornire una parvenza di giustificazione alle misure che il regime aveva in serbo per loro: revoca della cittadinanza tedesca, sterilizzazione forzata e, più avanti, deportazione nei campi di sterminio. 

Deportazione di Sinti e Rom, punto di raccolta. 1940. Colorata Foto: Bundesarchiv, R 165 Bild-244-47 / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE, via Wikimedia Commons

Tutto questo accadeva nell’atmosfera irreale del pre-Olimpiade, con la popolazione berlinese intenta a distogliere lo sguardo. Nessuno protestava, nessuno si opponeva, mentre le SS progettavano di trasformare Marzahn in un deposito per la successiva deportazione ad Auschwitz: il destino degli abitanti del campo, come quello di tutte le altre minoranze in Germania, era già scritto.

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