Lo Zoo di Berlino è oggi una delle attrazioni più frequentate della città, che fa notizia tutte le volte che si verifica la nascita di un animale raro o semplicemente “insolito”. Come avviene per tutti gli zoo, c’è anche chi lo ritiene un luogo da non visitare a priori, che esprime un atteggiamento verso la natura e il mondo per molti superato, che vede le altre specie come forme di intrattenimento e oggetti di curiosità, da privare della libertà per il nostro divertimento. Quello che non molti sanno è che, in un passato nemmeno troppo lontano, lo Zoo di Berlino non esponeva solo animali, ma, con lo stesso spirito, anche esseri umani. Abitanti degli altri continenti, infatti, venivano portati in Europa con l’inganno o con la forza e messi in mostra come “curiosità” per il pubblico occidentale in spettacoli atroci chiamati “Völkerschauen”.
Le Völkerschauen allo zoo di Berlino
Tra il 1878 e il 1931, allo zoo di Berlino le Völkerschauen erano un appuntamento piuttosto frequente ed erano presentate come “spettacoli etnologici” in cui gruppi di persone provenienti soprattutto da Africa e Asia, ma anche dalle regioni più a nord del continente americano e dall’Australia, venivano “esposti”, alla stessa maniera degli animali. Vestiti con abiti tradizionali, dovevano incarnare l’idea che gli europei avevano delle altre civiltà – un’idea legata, nella migliore delle ipotesi, al mito del “buon selvaggio”, nella peggiore all’inferiorità razziale e all’inciviltà.
Venivano anche costretti a ballare, cantare e svolgere azioni quotidiane per il divertimento del pubblico europeo, che li osservava con curiosità e stupore e poteva perfino toccarli. Inoltre, i medici dell’epoca facevano la fila per analizzarli e misurarli, alla ricerca di una presunta prova scientifica della superiorità delle popolazioni europee bianche rispetto alle altre. Il loro scopo dell’epoca era giustificare le brutali pratiche coloniali di quasi tutti i Paesi europei, ma quella stessa filosofia sarebbe servita poi a giustificare gli orrori delle leggi razziali, del nazismo e dell’Olocausto.
La maggior delle persone che venivano portate da altri continenti in Europa per le Völkerschauen partiva senza essere consapevole di ciò a cui sarebbe andata incontro. A raccontarlo fu, fra gli altri, Theodor Wonja Michael, tedesco di padre camerunense, che fu costretto a partecipare a questi “spettacoli” nell’infanzia. Reclutati con l’inganno o costretti dalla povertà, affrontavano faticosi viaggi verso una terra sconosciuta e condizioni di vita estremamente dure, che causavano in molti casi morte precoce per malattia, poiché molti si trovavano a contatto con patologie alle quali non erano abituati e per le quali non erano vaccinati. Molti furono stroncati dal vaiolo, dal morbillo o dalla tisi.
Carl Hagenbeck: il commerciante di esseri umani
Dietro l’organizzazione di queste “mostre etnologiche” vi era l’imprenditore Carl Hagenbeck, proprietario di uno zoo ad Amburgo e noto commerciante di animali esotici. Fu lui a creare il primo “villaggio etnologico” nel 1874, mettendo in mostra un gruppo di Sami (popolo indigeno della Lapponia) con le loro renne. L’esibizione ebbe un tale successo che, in breve tempo, Hagenbeck si specializzò nelle esposizioni di esseri umani, che gestiva allo stesso modo in cui commerciava animali, procurando “esemplari” sempre più esotici da esibire allo zoo di Berlino e in altre città europee.
Le mostre etnologiche erano una componente fondamentale della mentalità coloniale e razzista dell’epoca. Non solo servirono ad affermare una presunta superiorità della “razza bianca”, legittimando di conseguenza le politiche imperialiste e coloniali dal punto di vista politico, ma, soprattutto, diffusero nell’opinione pubblica l’idea che gli altri continenti fossero abitati non da popoli con la stessa dignità di quelli europei, con i quali trattare alla pari, ma da “fauna”, che poteva essere osservata e studiata, ma che certamente non aveva diritto a decidere per sé o a gestire le proprie nazioni autonome. La Germania, pur non avendo vaste colonie come Francia e Gran Bretagna, contribuì in modo determinante alla creazione di stereotipi e pregiudizi sugli abitanti dei territori coloniali, alimentando una visione distorta e deumanizzante e lasciando segni profondi nei Paesi che riuscì a colonizzare, come la Namibia, parti della Nuova Guinea e di quella che si chiamava “Africa orientale Tedesca”, comprendente parti del Burundi, del Mozambico, del Kenya, dell’Uganda e della Tanzania.
Va detto che il direttore dello zoo di Berlino, dell’epoca, Heinrich Bodinus, non era entusiasta all’idea di prestare il suo giardino zoologico per la realizzazione degli “spettacoli” etnografici di Hagenbeck. Quest’ultimo, però, aveva “fan” importanti, fra i quali il famoso patologo e antropologo berlinese Rudolf Virchow, al quale è ancora dedicato uno dei più importanti ospedali di berlino. Virchow chiese più volte di poter “misurare” e analizzare le persone che venivano trascinate da Hagenbeck in giro per l’Europa. Se Bodinus abbia mantenuto delle riserve non possiamo saperlo, ma è certo che lo zoo trasse enormi profitti dalle Völkerschauen, che attiravano fino a 100.000 visitatori al giorno. Theodor W. Michael li descrisse come le folle che si vedono nei concerti moderni: la stessa massa di gente, con lo stesso entusiasmo.
Un passato rimosso che ritorna
Per decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il coinvolgimento della Germania nel colonialismo e nei suoi crimini è stato rimosso dalla coscienza collettiva, relegato a un “punto cieco” della memoria storica, oltre che comprensibilmente oscurato dagli orrori del nazionalsocialismo. Solo molti decenni dopo, a partire dagli anni 2000 e in un processo che dura ancora oggi, diverse istituzioni hanno iniziato, con una certa riluttanza, a muovere qualche passo nella direzione di un’assunzione di responsabilità.
Intorno al 2020, per esempio, il consiglio comunale di Lipsia ha discusso se rimuovere il nome del fondatore del locale zoo, Ernst Pinkert, dalle strade e dalle scuole della città. Pinkert, infatti, tra il 1878 e il 1931, organizzò allo zoo di Lipsia 25 mostre etnologiche che portarono fortuna economica ma causarono indicibili sofferenze a coloro che vi furono coinvolti. Era solito “acquistare” gli esseri umani che metteva in mostra proprio da Carl Hagenbeck. Anche Berlino si è interrogata sulla figura controversa di Lutz Heck, direttore dello zoo dal 1932 al 1945 e appassionato sostenitore del nazismo, ritenuto colpevole di aver favorito l’antisemitismo nella dirigenza dell’istituzione. Il dibattito è ancora in fieri, ma la soluzione più comunemente adottata in questi casi consiste nel non rimuovere i nomi dei responsabili dei tremendi abusi delle Völkerschauen, bensì nel contestualizzare la presenza di tali nomi. Zoo e altre istituzioni tedesche hanno quindi iniziato ad aggiungere alla loro offerta esposizioni sulla storia del colonialismo, che offrono una visione il più possibile completa di tutti gli orrori perpetrati dai rispettivi fondatori.
Dal 2016, per esempio, lo Zoo di Berlino ha inaugurato una mostra permanente di storia culturale della propria istituzione. È stata la risposta alle pressanti richieste di informazioni sul destino degli azionisti ebrei dello zoo e sull’entusiasmo degli ex direttori Ludwig e Lutz Heck per il nazionalsocialismo. La mostra è stata curata dallo studioso di antisemitismo Clemens Maier-Wolthausen, che ha anche analizzato la storia delle circa 25 mostre etnologiche.