L'”Ospedale delle bambole” di Roma: amato anche da Dario Argento
Per questo nostro “speciale di ferragosto”, giorno in cui molti di voi sono in vacanza in Italia, anche noi abbiamo scelto una meta italiana: Roma. Nella capitale, e precisamente in via di Ripetta 29, abbiamo infatti scoperto un suggestivo laboratorio di restauro in attività dal 1953, conosciuto anche come “L’ospedale delle bambole“. Amando molto il fascino di questo tipo di professione, siamo stati sul posto e abbiamo intervistato Federico Squatriti di “Squatriti Restauri“, che oltre alle bambole ripara anche ceramiche e porcellane. Le foto sono a cura di Luca Giorietto.
Il vostro laboratorio di restauri artistici, anche noto come “Ospedale delle bambole”, ha attirato moltissimi curiosi. Qual è il segreto di questa questa magia?
Il fatto di lavorare con passione e di aver mantenuto la bottega come quando l’ha aperta la nonna, quindi praticamente non ha subito trasformazioni dovuta a cambi di proprietà. Dalla nonna è infatti passata a mio padre, da mio zio è passata anche alle mie cugine e zie e la mamma e io ne abbiamo sempre mantenuto l’identità. Abbiamo la stessa porta della nonna, di 70 anni fa, gli stessi mobili, lo stesso modo di lavorare e quasi gli stessi strumenti… nel senso che sono nuovi, ma comunque affini a quelli che c’erano all’epoca.
Come nasce la passione della tua famiglia per questo tipo di attività?
Non nasce dalla passione. Mio nonno era un attore di teatro napoletano e durante la guerra non mangiava, perché praticamente non c’erano rappresentazioni teatrali e quindi c’era poco lavoro. Mia nonna, che aveva due figli piccoli, diceva “E ora cosa gli faccio fare?”, perché anche quando è finita la guerra non è che ci fosse proprio “l’oro che calava dagli alberi”. Così lo ha mandato in una bottega, da un uomo che riparava oggetti, come spesso si usava fare. Ecco, le cose sono andate così e mia nonna, che era un’imprenditrice, si è detta: “Caspita, abbiamo gli strumenti per aprire un’attività”. Forse all’epoca integrava anche con piccole vendite, però, piano piano, il nostro è diventato esclusivamente un negozio di restauro.
Puoi raccontarci qualche aneddoto legato a questo luogo e all’attività svolta dalla tua famiglia?
Noi abitavamo praticamente nell’appartamento sopra il laboratorio di restauro e ricordo che la mamma, la mattina, prima che andassimo a scuola, ci faceva fare qui i compiti. Ricordo lei, col camice, che riparava gli oggetti, dava il colore e poi diceva “No, lì devi fare la moltiplicazioni!”… queste sono piccole cose che non sono legate strettamente all’attività. Con i clienti, invece, nel corso del tempo è capitato di tutto: sono passati ministri, generali, di tutto e di più, lo dico senza vantarmi. I miei giochi erano qua dentro, io giocavo qui, scherzavo qui e i dipendenti, quelli che erano i “ragazzi di bottega”, mi portavano ai giardinetti. Erano i baby-sitter dell’epoca e questi sono i ricordi che mi fanno più piacere.
Ti è capitato di essere contattato da curiosi che hanno chiesto semplicemente di visitare il tuo laboratorio ?
Devo dire che, più che contattarmi, le persone si fermano direttamente. Il più delle volte sono stranieri e quindi non ci sono grandi conversazioni. Altre volte, invece, si crea un’intesa con persone che vengono qui e rimangono un po’, guardano, fanno delle foto. Si fermano perché a un certo punto si rendono conto che fino alla soglia del laboratorio si trovano nel 2024, poi entrano e sembrano entrati in un’altra epoca, nonostante l’iPad e il cellulare che vedi al momento su questo tavolo.
I colori sono a smalto e le terre, le tempere, gli strumenti che usiamo, le carte vetrate e persino il modo in cui ci vestiamo sembrano appartenere a un altro mondo. In quella foto in alto, in cui mia nonna è con mio padre, che è del 1955, sono davanti allo scaffale che tu stai vedendo adesso, che è quello laggiù, identico. Quindi è vero che questo posto sembra quasi la famosa “macchina del tempo”. È come se vedessi una fotografia antica, ma in movimento.
Le bambole attirano anche perché in qualche modo “spaventano” e questo tipo di fascino è stato molto enfatizzato dal cinema. Tu che ne pensi?
Assolutamente, il cinema ha dato l'”imprinting” alle persone, per quanto riguarda la paura delle bambole e la stessa cosa è successa con i pagliacci nei film americani… il che è assurdo, perché secondo me i pagliacci fanno un po’ di tenerezza, per via delle lacrime dipinte, ma non paura. Totò ha lavorato nel film “Il più comico spettacolo del mondo”, dove c’è la poesia del clown, che è una delle più belle che esistano al mondo, che dice: “Dio, manda qualcuno che faccia ridere me come io faccio ridere il pubblico”. Invece gli americani, e in generale la massa, hanno il terrore dei clown.
La stessa cosa vale per le bambole. In passato avevo una vetrina piena di bambole esposte, la mamma e il papà l’hanno sempre lasciata così. L’ho modificata perché mi ero stancato di sentir dire che era qualcosa di “creepy”. Qui c’è una mano artistica, perché comunque gli occhi sono fatti a mano, le fattezze di alcune sono disegnate e questa dote andrebbe riconosciuta. Dario Argento ha usato una delle nostre bambole per “Profondo Rosso” e hanno girato qui da noi anche lo spot per “Annabelle“… la versione italiana naturalmente. Mi chiamò la Warner Bros, dicendo che stavano girando per l’Italia con la bambola originale del film, anche se nel film è sicuramente stato usato più di un esemplare. Comunque, ormai a me non importa più se una bambola spaventa. Ci si adegua, perché sto vivendo di lavoro.
Hai mai avuto più contatti con Dario Argento?
Beh, è nostro cliente, lo è sempre stato, come anche Daria Nicolodi. Se vivi in centro, puoi essere nobile o appartenere a un ceto alto, ma ti rechi presso l’attività più vicina, non dall’altra parte della città, per riparare una cosa. Qui ci abitavano Gassman, la Vitti, tutte persone che venivano per far riparare oggetti. Vederli passare era la norma, allora. Dopo c’è stata questa esasperazione dei personaggi e quindi è diventato più difficile intercettare. casualmente i grandi nomi. Il divismo, qui, era a via Veneto, con la “dolce vita”. Lì c’erano artisti internazionali. Ad esempio ricordo che, quando ero piccolo, mia madre un giorno mi disse: “Oh, guarda, ti ha salutato!” ed era Kabir Bedi. Un’altra volta passò Primo Carnera, insomma, vedevamo questo tipo di persone. La mamma lo racconta come qualcosa di normale e abituale. Un’altra volta stavo fumando una sigaretta ed è entrato Gianni Agnelli. Parliamo di persone che hanno costruito un mondo, era quell’Italia.
Qual è l’eredità che ti ha tramandato la tua famiglia in questo campo?
Praticamente sono cresciuto all’interno della bottega e quindi tutto quello che ho appreso deriva dalla bottega stessa in generale, non da mio padre, da mia madre o da mia nonna. Ho imparato qui il rispetto per il cliente, perché se tu fai questo lavoro è il cliente che ti fa vivere. Devi essere onesto e dire e fare quello che hai promesso e non promettere più di quello che potrai fare, insomma, creare un rapporto chiaro. Quella persona sta spendendo dei soldi e li sta dando a te, quindi devi spiegare come li sta spendendo, come verrà effettuato il lavoro e in quanto tempo.
In altri tempi la bottega era piena di persone che si facevano restaurare oggetti di antiquariato, perché all’epoca invitare persone a casa e mostrare loro cose antiche e pregiate, significava in qualche modo far vedere anche che si era colti. Se ad esempio esibivi un vaso del 1700, si pensava che avessi una mente aperta e raffinata. Oggi non c’è più questo approccio, in compenso chi compra oggetti da antiquariato è un vero intenditore, che conosce gli oggetti in suo possesso e quando li affida a qualcuno per un restauro pretende un tipo di perfezione che una volta, invece, non era così richiesta.
Questa intervista sarà pubblicata sul magazine “Berlin based” Il Mitte. Poco fa mi accennavi al tuo rapporto con la Germania. Ti va di parlacene?
Allora, innanzitutto consideriamo che le più belle porcellane al mondo sono state create a Meissen, accanto a Dresda, e già qui, per noi, la Germania è un punto di riferimento, perché fino al 1700 le porcellane erano solo cinesi. Tutto quello che viene dopo il 1700 hanno iniziato a crearlo i tedeschi. Personalmente, quando ho avuto la possibilità di farlo, sono partito e ho fatto un tour con la moto a Dresda, Monaco e Berlino e quando vai a Berlino ti rendi conto quanti popoli e quante comunità diverse convivano, nella capitale tedesca. In questo senso, nonostante Roma sia il comune più grande d’Europa, Berlino dà l’idea della grandezza della Germania.
Ricordo poi la prima volta lungo il fiume Sprea, quando durante il percorso ho avuto modo di contemplare tutta Berlino. La cosa che mi ha fatto innamorare è stato osservare tutti i suoi simboli più importanti a breve distanza, possibilità che a Roma non c’è più. Forse c’era 2.000 anni fa, quando si andava in barca sul Tevere e tutti i principali monumenti sfilavano davanti agli occhi, a portata di mano. Ecco, Berlino mi dà la stessa sensazione.
Una cosa che non ho mai raccontato e non racconto mai a nessuno è che la mia famiglia, per metà, è toscana, e durante il passaggio del fronte una compagnia tedesca era stabilmente nello stesso paese dove sono nati i miei nonni, dove è nata mia madre e dove sono nato io. Un giovane ufficiale veniva spesso e restava a chiacchierare, fece amicizia con la mia famiglia e abbiamo tante foto con lui, in casa nostra.
Quando è finita la guerra, dopo tanto tempo, è tornato a rivedere i luoghi dove era passato e riconoscendo una ciminiera ha identificato casa nostra, ha bussato e gli ha aperto mia nonna. È tornato tutti gli anni, fino alla sua scomparsa. Aveva aperto una grande concessionaria Volkswagen, in Germania, e ogni anno veniva in Italia con i figli e i nipoti, perché voleva far conoscere loro i suoi amici italiani. Abbiamo tante foto di tutti noi insieme. È come se, da sempre, ci fosse una connessione con la Germania e anche con l’Austria, perché la Toscana è stata governata dai Lorena, che erano austriaci. C’è un legame da sempre. Mi si apre il cuore quando vado in Germania.