La musica segreta delle donne – intervista a Margherita Vicario
“Gloria!” è uno di quei debutti che nessuno si aspetta. Margherita Vicario la conoscevamo come attrice, più avanti come cantautrice della scena indie italiana. Dovendo scommettere su un suo esordio registico, forse sarebbe stato facile pensare a una storia contemporanea, a uno scenario urbano. E invece no, Vicario spiazza tutti e ci porta nel Veneto del XVIII secolo, fra le educande dell’istituto Sant’Ignazio. Questo luogo immaginario è ispirato ad alcune istituzioni reali, nelle quali furono educate alla musica moltissime bambine, ragazze, giovani donne. Alcune furono anche eccellenti compositrici, ma del loro lavoro ci resta pochissimo. Con un cast imprevedibile quanto la sua trama, che comprende, fra gli altri, un Paolo Rossi eccezionale, la cantante de “La Rappresentante di Lista” Veronica Lucchesi, Natalino Balasso e un cameo di Elio, il film detta le sue regole e ci fa appassionare a una storia di cui non sospettavamo l’esistenza. E lo fa prendendosi delle libertà storiche che si inseriscono meravigliosamente nella poesia della narrazione. Ne abbiamo parlato con Margherita Vicario, poco prima della proiezione del film al Freiluftkino di Friedrichshain, nel corso della rassegna “Femminile, Plurale”. “Gloria!” Aprirà il festival lunedì 8 luglio, alle 21.30.
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AF: Che cosa ti ha attratto verso la storia del sant’Ignazio e perché hai scelto di raccontarla?
MV: Il sant’Ignazio è ispirato a dei posti realmente esistiti, anche se quell’istituto in particolare me lo sono inventato, l’ho ri-immaginato. Mi ha spinto una ricerca che ho fatto sulle compositrici, perché non mi veniva in mente nessuna compositrice famosa della storia della musica ho pensato “impossibile, ce ne sarà stata qualcuna!” Quindi ho fatto una ricerca e ho scoperto che, in varie epoche, ne sono esistite tante, però hanno avuto vita un po’ più dura. E quando ho scoperto questi istituti di accoglienza per orfane – il più famoso, l’Istituto della Pietà di Venezia, era gestito da Vivaldi, che era il maestro di cappella – mi è sembrata una bellissima ambientazione, per inventarci su una storia.
AF: Nel tuo film ci sono due conflitti. Il primo è quello fra la musica delle donne, che viene ignorata e quella degli uomini, che domina anche quando non vale molto. Senza “spoiler”, possiamo dire che il finale è una rivincita e un inno al farsi ascoltare?
MV: Etimologicamente, “gloria” significa farsi ascoltare: anche per questo mi sembrava il titolo adatto. Essendo un film molto gioioso, è facile prevedere che finisca abbastanza bene e sì, possiamo dire che c’è una specie di rivincita o, meglio, un processo di liberazione, di libertà creativa che prende il sopravvento. Ma non è tanto una questione di musica delle donne e musica degli uomini – per quanto, ovviamente, il contesto storico, che è realmente esistito prevedeva questo: era inconcepibile e vietato per una musicista, per quanto potesse avere una grande formazione musicale, suonare al di fuori degli istituti. E quindi sicuramente c’è la questione della musica eseguita dalle donne, ma quella che interessava me era soprattutto quella che le donne componevano, quella che aveva a che fare con la creatività, la fantasia personale. In realtà, però, il film racconta anche della musica di quelli che non hanno il potere, è quella la musica che nel finale prende il sopravvento. E quelli che hanno il potere coincidono spesso con dei bei signori di sessant’anni, come il prete, il governatore, il nobile. Quando il film è stato presentato a Berlino, è stato detto che parlava del potere della gioventù, più che di quello femminile.
AF: In parte questo anticipa la mia prossima domanda, che riguarda il secondo conflitto, quello fra la musica “alta”, quella di Lucia, di chi ha studiato e quella “bassa”, che viene spontanea, che è incarnato da Teresa, che all’inizio tutti chiamano “la muta”. Come hai immaginato l’incontro e la riconciliazione fra questi due stili?
MV: In parte è un po’ autobiografico, nel senso che io non ho mai studiato musica e volevo esprimere tutto quello che per me la musica rappresenta, pur non avendo avuto una formazione accademica. Eppure comunico, riesco a comunicare, ho fatto dei dischi, faccio concerti, suono e riesco a comunicare anche con i musicisti che conoscono quell’alfabeto. Volevo che Lucia e Teresa fossero due facce della stessa medaglia: entrambe hanno un’esigenza e una voglia di tirare fuori la loro musica. Teresa lo fa in maniera più istintiva. La storia parla di queste ragazze, di cui in realtà non sapremo mai nulla, perché, nonostante fossero delle musiciste pazzesche, il loro destino era abbastanza segnato: potevano ambire giusto a sposarsi con un commerciante e poter suonare in casa. E visto che, di tutte loro, non potremo mai sapere nulla, ho dato alla protagonista la mia fantasia, quindi le ho attribuito le canzoni che potrei scrivere io oggi. È un po’ un patto, un gioco col pubblico, ma è anche il soggetto principale: la creatività che può essere anche molto istintiva, soprattutto nella musica e soprattutto se devi “arrampicarti” su uno strumento, come fa Teresa.
AF: Ed è anche interessante che sia uno strumento che nasceva in quel momento storico: il pianoforte.
MV: Esatto, lo strumento che, nel secolo successivo, sarà il nuovo grande protagonista, perché, con il romanticismo, si dà molto più spazio all’espressione individuale. Nel film ne ho usato uno che in realtà sarebbe arrivato sessant’anni dopo, ma fa parte della fiaba. È uno strumento che rappresenta un po’ il nuovo che arriva, la tecnologia.
AF: Parliamo del tuo cast: questo è un film molto corale, con performance molto forti, ma che si lasciano spazio a vicenda, e c’è un cast che prende dallo spettacolo italiano, ma anche dalla musica (penso a Veronica Lucchesi). Come ti sei rapportata a questo cast, nel tuo debutto da regista?
MV: Diciamo che è stata forse la cosa più facile del fare un film, nonostante sia stato tutto molto impegnativo. L’idea di prendere Veronica o Elio, che sono persone che vengono da quello che io chiamo il mondo del “pop raffinato”: sono persone che sono state capaci di farsi conoscere da un grandissimo pubblico, ma restando fedeli alla propria alla propria visione, al proprio percorso. Con Veronica, per esempio, sentivo che aveva capito esattamente perché volevo fare questo film e di che cosa parlava. Era un po’ la mia depositaria di fiducia nel senso del film, rispetto alle altre ragazze, che sono delle attrici pazzesche, ma forse non potevano sentire così dentro, nella pancia, cosa vuol dire essere una cantautrice e avere ancora a che fare con i pregiudizi. Perché, a volte, è più importante come vai vestita sul palco che non quello che canti. Sapevo che Veronica lo avrebbe capito. Mi serviva qualcuno che venisse dalla musica, anche per dare al film un tono che fosse serio, ma anche un po’ pop. Anche la scelta di Paolo Rossi è dovuta a questo. Il mio è un film pieno di archetipi e Paolo Rossi viene dal teatro. Per di più, gli ho chiesto di fare un prete… poco prete e lui ne è stato contentissimo, è una specie di eretico del teatro. Visto che il film si basa su un cortocircuito tra pop e classico, ho voluto giocare anche nel cast su questo piccolo cortocircuito, quindi per esempio c’è Elio che recita, ma non canta e interpreta il ruolo di un buono, con poca ironia – che invece è la sua arma quotidiana.
AF: In effetti, in questo film Elio fa l’attore-attore…
MV: Esatto, era un modo di dargli una nuova veste.
AF: Che differenza c’è, nella tua esperienza, fra comunicare con la musica e comunicare con un film?
MV: In un progetto musicale sono la punta dell’iceberg, ma anche la rappresentante. Quando fai un concerto o un disco, il rapporto con il pubblico è tutto nelle tue mani, in come scegli di comunicare. Allo stesso modo, lo è totalmente anche nel film, specialmente se è un film che hai scritto e concepito. Però ci vogliano grosse doti comunicative anche per relazionarsi a tutti quelli che realizzano il film insieme a te. Credo che le mie esperienze sul palco mi siano servite anche per empatizzare con tutti quelli che lavorano sul set, dalle maestranze agli attori. Bisogna un po’ anche recitare la parte del regista. Specialmente se non l’hai mai fatto, devi un po’ scoprirlo facendolo. Ma la cosa che più mi ha reso felice, di questo film, è che in ogni attore, in ogni scelta, in ogni dettaglio, nelle musiche che ho scritto c’è tantissimo di me, più che in una canzone che dura 3 minuti, più che in un disco che ne dura 45. C’è tanto di me in ogni dettaglio. Mi sembra proprio un film da cantautrice.