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Essere neri sotto il nazismo: la storia di Theodor Wonja Michael

Generazioni di storici e ricercatori hanno documentato e analizzato le condizioni atroci nelle quali si sono trovate a vivere – e a morire – le minoranze sotto il regime nazista tedesco. Per motivi numerici, ovviamente, si è parlato soprattutto del destino degli ebrei e, più recentemente, di quello delle persone Roma e Sinti, così come delle persone queer, dei disabili e degli oppositori politici. Di una minoranza, però, non si parla praticamente mai: le persone nere. E non perché non ci fossero persone di discendenza africana nella Germania di quegli anni, ma perché il loro destino fu diverso. Uno degli ultimi uomini neri vissuti sotto il nazismo a raccontare la sua storia fu Theodor Wonja Michael, scomparso nel 2019 all’età di 94 anni.

La storia di Theodor Wonja Michael

Theodor nacque a Berlino nel 1925 in una famiglia che all’epoca era decisamente poco comune in Germania. Suo padre, Theophilus, era un immigrato coloniale camerunense e sua madre era una donna della Prussia orientale. Theodor si sentiva tedesco e, per i primi anni della sua vita, dichiarava di non essere stato completamente consapevole di essere “diverso” dai suoi coetanei, nonostante le possibilità accordate alla sua famiglia fossero decisamente limitate. Per esempio, sia Theophilus che il piccolo Theodor, all’inizio, erano costretti a esibirsi nei circhi e negli spettacoli di varietà, indossando gonnellini di paglia e mettendo in scena l’idea di Africa che gli europei bianchi amavano coltivare nel XIX secolo. Per le poche persone nere che vivevano in Europa, non solo in Germania, poteva essere molto difficile guadagnarsi da vivere al di fuori di quel contesto.

Quando il regime nazista andò al potere, Theodor era un bambino e non aveva la minima idea di quali fossero le idee di chi era al potere. Sapeva solo che tutti i suoi compagni di scuola si erano iscritti nella Hitlerjugend, che facevano parte dello Jungvolk. Era normale, per lui, avere quel desiderio: come ogni bambino, desiderava fare ciò che facevano i suoi amici. Per lui fu sconvolgente sentirsi dire che lui non poteva fare parte dello Junkvolk, perché non faceva neppure parte del “Volk”, del popolo. Non importa che fosse nato in Germania, che parlasse solo tedesco, che si sentisse tedesco: non era considerato razzialmente tedesco. Peggio, era il frutto di una contaminazione razziale, che, agli occhi dei nazisti, era quanto di peggio potesse accadere. I suoi tratti somatici non erano tedeschi, il resto non contava niente: questo dettava il nazismo.

Bambini della Gioventù hitleriana, Jungvolk tedesco con bandiera Jungbann. Foto: Bundesarchiv, Bild 133-149 / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 DE, via Wikimedia Commons

E naturalmente, se non poteva fare parte di un’organizzazione giovanile, men che mai poteva sperare di realizzare il suo sogno di andare all’università e diventare uno scienziato.

Alla fine della sua vita, Theodor Wonja Michael descriveva ancora quell’episodio come il primo nel quale si era sentito “altro”, ma ammetteva anche di aver capito che ci fosse qualcosa di sinistro nel nazismo appena salito al potere e nei suoi sgherri armati che tiranneggiavano la popolazione. Aveva preso l’abitudine, raccontava, di cambiare lato della strada quando, andando a scuola, si trovava passare davanti a un pub solitamente frequentato dalle SA: aveva paura di quegli uomini, anche se era troppo giovane per capire esattamente perché facesse bene a temerli.

Vivere da invisibile

Durante il regime nazista, Theodor sfuggì miracolosamente alla sterilizzazione forzata e alla deportazione, due destini che toccarono a molte altre persone di origine mista o non ariana. Le persone nere, essendo anche in numero inferiore rispetto a ebrei, Sinti e Rom e non essendo quasi mai parte di ampie comunità, ma solitamente individui singoli legati alle colonie dell’Impero, non erano perseguitate con la stessa ferocia delle altre minoranze. Semplicemente, non erano desiderabili ed era per loro estremamente difficile trovare un posto nella società.  Per sopravvivere, Theodor accettò qualsiasi lavoro disponibile, compresi i ruoli di comparsa “esotica” nei film di propaganda nazista. Fece anche il facchino in un hotel frequentato dalle SS e riuscì sempre a mantenersi al sicuro passando inosservato: essere nero lo rendeva invisibile ed essere invisibile, nella Germania nazista, era comunque meglio che essere visibile per i motivi sbagliati.

La fine della Seconda guerra mondiale non portò i cambiamenti radicali che molti avevano sperato. Il razzismo e il fascismo, dichiarò Theodor Wonja Michael in una intervista rilasciata negli ultimi anni di vita, non scomparvero affatto dalla società tedesca con la caduta del Terzo Reich l’8 maggio 1945. Tutt’altro: arrivarono sani e forti fino al XXI secolo. Nella Germania del dopoguerra, Theodor dovette lottare instancabilmente per ritagliarsi uno spazio in una società ancora resistente alla diversità. Riuscì a ricominciare il suo percorso formativo solo nel 1960, quando poté studiare economia e sociologia a Parigi grazie a una borsa di studio. In seguito lavorò come giornalista, anche per Deutsche Welle, divenne caporedattore dell’Afrika-Bulletin e, grazie alle sue competenze sull’Africa, divenne infine funzionario del Servizio federale di intelligence (BND) nel 1972.

Imperterrito, Theodor passò la sua vita a lottare per il pieno riconoscimento della sua condizione di tedesco nero. Negli anni, seppe ricomporre i tasselli della sua storia, andando a ritroso fino alle speranza infrante di suo padre, che, pur essendo nato in Camerun, si era sentito tedesco e aveva sperato di poter studiare nella “madrepatria”, ma aveva finito per essere esibito nei circhi come un animale esotico. E d’altra parte questo facevano, allora, le potenze coloniali come la Germania, ben prima del nazismo: si impadronivano delle loro risorse e disprezzavano le loro popolazioni, sterminandole nei territori colonizzati ed emarginandole in patria.

Per tutta la vita, Wonja Michael aspirò a essere un’apripista per la popolazione afrotedesca. Più avanti, dichiarò di aver avvertito molto più razzismo nella Germania unita del post-1989, che non in quella dell’Ovest, dove visse dopo la fine della guerra. Alla fine della sua vita dichiarò che la Germania era rimasta per lui, comunque, una patria “difficile”. Nonostante questo, scelse sempre di incoraggiare i più giovani a non disperare di fronte ai rigurgiti nazifascisti della modernità e a impegnarsi per combattere questi fenomeni abominevoli.

Theodor Wonja Michael ha raccontato la sua vita movimentata nell’autobiografia: “Deutsch sein und schwarz dazu. Erinnerungen eines Afro-Deutschen”, del 2014.

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