Essere poveri a Berlino – manuale di sopravvivenza. #6: la mia esperienza in un repair shop
di Emy Serabile
Nella penultima “puntata” del nostro viaggio attraverso la sublime arte di essere dei morti di fame a Berlino, vi avevo parlato di repair shop o repair cafè. Io li amo, sono fichissimi, sono un’idea meravigliosa, sono una delle migliori incarnazioni dello spirito di solidarietà e condivisione di questa città. Caso ha voluto che, giusto un paio di giorni dopo l’uscita dell’ultimo episodio, ovvero mentre questo bellissimo sito era in un bailamme di “pulizie di primavera” e prevalentemente offline, io abbia avuto bisogno di andarci, in un repair shop.
È andata male. È stato bellissimo
Spoiler: l’esperienza non si è conclusa in modo ideale, ma l’ho apprezzata lo stesso, perché da quelle due ore ho imparato moltissimo e quindi ve la racconto. Ho fatto anche qualche foto. Poche, perché io non sono portata la socialità tecnologice e quindi, se mi sto appassionando a qualcosa, mi dimentico di fotografarla. Questa scarsa attitudine all’uso della fotocamera dello smartphone mi è valsa il ritiro della patente di millennial e la retrocessione a Gen X ad honorem.
Tutta colpa delle mandorle
Partiamo dal principio: ho rotto il Minipimer. Ovvero quella cosa che solo in Italia si chiama Minipimer e che il resto del mondo chiama mixer a mano (perché è un mixer a mano). L’ho rotto perché volevo dare retta a un video su Instagram che faceva sembrare facilissima la procedura per fare il burro di mandorle. E invece le mandorle tostate si sono attaccate con ferocia alle lame del frullatore, non facendole più girare, così che ho dovuto tirare tutto fuori e ho provato a vedere se, con l’aggiunta di un po’ d’olio, non fosse possibile continuare a frullare, appunto, col mixer a mano. La risposta è NO e questo tentativo ha ucciso il mio povero elettrodomestico, la cui marca porta il suggestivo nome di “Lebenslang”, che vuol dire “Per tutta la vita”, il che è quantomeno ironico, accidenti a loro.
Ovviamente le mandorle non le ho buttate e mi sono beccata pure la mia nemesi: volevo fare il burro di mandorle e invece ho fatto il MARZAPANE. E IO ODIO IL MARZAPANE. E me lo sono mangiato lo stesso, perché dagli errori bisogna imparare attraverso la sofferenza e l’espiazione. Per esempio, io ho imparato che col frullatore di casa si possono tritare bene le nocciole, ma non le mandorle. Comunque, il risultato è che il mixer non mi funzionava più e quindi ho fatto una rapida ricerca fra i repair shop di Berlino.
Ho optato per quello del Museo della Tecnica, prima di tutto perché mi sembrava più aperto a elettrodomestici che non fossero radio, stereo e altoparlanti, e poi perché una visita al repair shop ti fa ottenere un ingresso gratuito per il museo stesso (che io non avevo mai visto e che mi ha fatto sentire vecchia, perché ci sono esposte cose che io usavo nella mia adolescenza, ma di questo parleremo in un altro articolo o forse in un reel, ci devo pensare).
Le cose sono andate più o meno così.
Dichiarazione d’amore per i volontari del Repair Shop del Museo della Tecnica di Berlino
Ho preso appuntamento con un paio di settimane di anticipo, perché il repair shop è gestito interamente da volontari, che si rendono disponibili solo la domenica. Ho dovuto indicare marca e modello dell’elettrodomestico e il tipo di guasto.
Una volta arrivata, mi sono trovata nel paradiso del fai da te: uno stanzone con grandi tavoli, ognuno dei quali era dotato di una colonnina con prese elettriche. Ogni tavolo garantiva almeno due postazioni comode, per due persone ciascuna. Al centro, un mobile a cassetti con TUTTO quello che io sogno di poter comprare: ogni tipo di cacciavite, pinza, cavo, seghetto, trapano, punta. L’uomo cis-etero dentro di me era talmente felice che per poco non mi sono spuntati i baffi alla Super Mario.
Al mio caso sono stati assegnati ben due volontari, uno esperto di apparecchi elettrici e una più focalizzata sulla gestione dei rivestimenti. Perché il problema, con gli elettrodomestici che non sono costruiti per essere riparati, ma sono pensati per essere buttati e ricomprati, è proprio la scocca: spesso è impossibile da aprire e, se anche ci si riesce, può essere impossibile rimetterla insieme, dopo.
Ci siamo messi al lavoro. E dico “ci siamo”, perché l’attitudine del mio “mentore” era quella di insegnarmi a fare le cose, piuttosto che di farle al posto mio. Inutile dire che io ero entusiasta di questo approccio. E poi, finalmente, qualcuno mi ha fatto la domanda che ogni donna desidera sentirsi rivolgere da un tedesco gentile e aitante: “Vuoi provare tu a usare questo trapano?”
Siccome sono una pippa al sugo, ho spezzato una delle punte, sottilissima, ma lui non si è arrabbiato e si è categoricamente rifiutato di permettermi di pagarla.
Entro la prima ora è stato chiaro che il circuito elettrico era talmente in fondo alla scocca e il motorino interno talmente inaccessibile, che, ammesso e non concesso che si riuscisse a capire il problema, risolverlo e rimettere insieme il mio mixer sarebbe stato impossibile. A quel punto, i miei due alleati mi hanno chiesto: vuoi comunque scoprire cos’è che non funziona? Certo. Perché la prospettiva era fantastica: imparare qualcosa e restare ancora un po’ in compagnia di due persone piacevolissime che, nel frattempo, mi avevano offerto un caffè e un mini-Snickers. Ci siamo messi a parlare di sostenibilità e microplastiche, di arte e di riciclo.
Cosa ho imparato guardando il cadavere del mio mixer sul tavolo del Repair Shop
Il problema, fra l’altro, era ovvio perfino a me che non ne capisco nulla di circuiti elettrici: a essere fuori uso era SOLO il minuscolo fusibile del circuito che aziona il motorino. SOLO quello. Lo specifico con questo CAPS LOCK da boomer perché vorrei che fosse chiara una cosa: l’azienda che ha prodotto questo oggetto lo ha fatto in modo tale che, in caso di rottura di un pezzo piccolissimo e facilissimo da sostituire, l’intero elettrodomestico non possa essere riparato neppure da una persona esperta e capace, ma debba per forza essere buttato. Per forza. Non c’è soluzione. Il motivo è che la scocca di plastica non è incastrata nella parte di metallo, ma vi è pressata, presumibilmente a caldo, motivo per cui, per arrivare al circuito, bisogna spaccarla del tutto e dopo è impossibile tenere insieme le parti che collegano il motore alle lame, facendo funzionare il mixer. E a me questa cosa fa imbestialire, perché è uno spreco colossale. Sono circa due chili di plastica, metallo, rame, gomma, tutto non riciclabile, che io devo buttare perché è saltato un fusibile di sette millimetri che si potrebbe sostituire con una spesa di pochi centesimi.
Ma l’esperienza mica è finita qui. No, a questo punto mi sono messa di buzzo buono, insieme all’esperta di rivestimenti, a smantellare tutto l’apparato pezzo per pezzo, con la gioia di quando puoi rompere le cose senza conseguenze. A forza di seghetti e trapani, di cacciaviti usati come leve e di pinze, l’abbiamo spaccato in due di netto e siamo arrivate alla parte elettrica, per confermare, appunto, che il problema era il fusibile. Dopo di che, i miei due nuovi amici si sono messi davanti al mio mixer squartato a scambiarsi pareri. “Dobbiamo imparare qualcosa da questo oggetto” mi hanno spiegato.
Io, per esempio, ho imparato che, la prossima volta che avrò i soldi per comprare un mixer, farò una ricerca sulle marche che adottano la filosofia del “right to repair”, ovvero il diritto a riparare i propri elettrodomestici. E ho imparato che non cercherò mai più di fare il burro di mandorle, perché il marzapane mi fa schifo.
Mi sono riportata a casa TUTTI i pezzi del mio mixer, pure i frammenti di plastica. Non so come, ma voglio farne un’opera d’arte. Nel frattempo, se qualcuno di voi geek là fuori vuole un motorino perfettamente funzionante e un circuito elettrico con solo un fusibile rotto, scrivetemi che ve li regalo!