Ho visto i meme prima di vedere la notizia: capita sempre più spesso. Nello specifico, ho visto la celebre immagine di Dawson (James Van Der Beek) che piange, con la scritta “tutti i maschi tedeschi quando vedono che la nuova maglia della Germania è rosa”. Non ci ho pensato più di tanto per due ragioni. Numero uno: sono più di quarant’anni che cerco un motivo per interessarmi al calcio e più di quarant’anni che fallisco. Numero due: che la mascolinità tradizionale sia delicata come l’ultimo fiocco di neve della stagione e pronta a squagliarsi se la si guarda con troppa intensità non è una novità per nessuno, è un fatto della vita, in Germania come in qualsiasi altro luogo del mondo. Nei giorni successivi, ho rivisto la notizia e anche il video che la nazionale tedesca, in collaborazione con Adidas, ha diffuso sui social per difendere la nuova maglia dai commenti di odio. E c’è qualcosa che non mi torna, quindi ho deciso di fare un esperimento. Questo editoriale è l’esperimento.
Tanto perché sia chiaro fin dall’inizio, questo articolo non parla di calcio, ma di marketing. Di calcio vi parleranno quelli che ne sanno qualcosa e a cui interessa, non io. Qui parliamo di costume, di comunicazione e del perché certi messaggi “funzionano” o “servono”.
La nuova maglia della Germania e il video di “risposta agli hater”
Partiamo dai fatti: la settimana scorsa, il partner commerciale della nazionale tedesca, Adidas ha presentato le nuove maglie, con le quali i giocatori scenderanno in campo. Quella per le partite in casa (e quindi, si presume, per tutti gli Europei 2024) presenta la classica combinazione di colori (maglia bianca, loghi neri, colori della bandiera nazionale, rosso, nero e oro, sulla spalla). Quella per le trasferte presenta un gradiente che parte dal rosa, verso l’alto, sfumando nel viola, verso il basso. La presentazione delle due maglie è stata accompagnata da una dichiarazione, secondo la quale il nuovo kit per le trasferte si prefigge lo scopo di “rappresentare la nuova generazione di tifosi di calcio tedeschi e la diversità del Paese”.
@dfb Unser Auswärtstrikot 🫶 Aber ist das jetzt so ein TikTok Ding? @adidas
Alla presentazione di questa maglia sarebbe seguita una “pioggia” (e le virgolette hanno un senso) di commenti che criticano la scarsa “virilità” della maglia (supponiamo, con somma sorpresa dei tifosi del Palermo) e la giudicano scarsamente rappresentativa della realtà tedesca. Volendo essere cattiva e volendo dare spazio alla Miranda Priestly che immotivatamente alberga in me, potrei dire che, dando uno sguardo a una buona metà dei negozi di abbigliamento di Berlino, la scelta di abbinare due colori che riproducono la palette delle Big Babol è in realtà una rappresentazione PERFETTA del gusto estetico tedesco, ma non è questo il punto.
Il punto è che Adidas e la nazionale, prendendo esempio da tanti altri brand negli ultimi anni (si pensi al caso Budweiser), hanno creato un video di “risposta” agli hater della nuova maglia della Germania, nella quale diversi esponenti del calcio e della cultura difendono la scelta cromatica in questione. La struttura del video è facilmente intuibile: i commenti di “odio” compaiono in sovraimpressione e i protagonisti del video controbattono con elegante sarcasmo. Nel video compaiono, fra gli altri, il calciatore del Bayern Monaco Serge David Gnabry, la presentatrice televisiva e modella Lena Gercke, che definisce la maglia un “fashion statement” e perfino Rudi Völler, che controbatte al commento secondo cui la maglia non sarebbe adatta alle “leggende del calcio” con un laconico “Beh, io penso di sì”. Ovviamente non mancano i commenti, sempre in rapido movimento sullo schermo, sul fatto che, per via dei colori, si tratti di una maglia “per donne”. Risponde la calciatrice della nazionale tedesca Jule Brand: “Non lo so, non mi sembra ancora che abbia otto titoli da campione d’Europa”, sottolineando gli eccellenti risultati del calcio femminile tedesco.
Fra l’hate baiting e il pink wasking (di Adidas)
Qual è il problema? Il problema è che, se si scorrono i commenti sotto il video in questione, su TikTok, la reazione degli utenti è per lo più positiva. Certo, non mancano gli occasionali commenti omofobi, espressi con la sintassi traballante dei preadolescenti, sul fatto che la maglia rosa sia per chi preferisce la “porta di dietro” (il gioco di parole è con la porta calcistica) o qualche rilievo sul fatto che avrebbe più senso mettere la bandiera sulla maglia delle trasferte che non su quella di casa. Tuttavia, l’orda di gibboni che uno si aspetterebbe di trovare, sotto un video nel quale si parla di commenti di odio, semplicemente non c’è. Possiamo ammettere la possibilità che i commenti peggiori siano stati censurati o rimossi, certo, oppure possiamo pensare all’hate baiting.
Per chi non lo sapesse, l’hate baiting, anche detto rage farming, è una sottocategoria particolarmente delicata del clickbaiting, ovvero una tecnica promozionale con la quale si sceglie, intenzionalmente, di provocare una particolare categoria di utenti su un argomento al quale essi sono specialmente sensibili, così da garantirsi un numero di interazioni elevatissimo, che renda virale il contenuto che si vuole promuovere. Per esempio, se io intitolassi questo editoriale “I maschi insicuri hanno paura della maglia rosa”, con lo scopo preciso di attirare quei commentatori abituali che si sentono meglio con se stessi quando mi danno della “femminista coi baffi”, quello sarebbe hate baiting. E funzionerebbe benissimo, ma non lo farò, perché anche alla metacomunicazione c’è un limite.
Contrariamente al mio solito, infatti, questo è un articolo quasi ottimista. Un’analisi inevitabilmente empirica del dibattito, infatti, mi porta a pensare che i portatori sani di mascolinità così fragile da andare in pezzi di fronte a una maglia rosa siano, per una volta, davvero pochi. Non che non esistano: ci sono, si palesano davvero sotto ogni contenuto social con la maglia rosa, incarnando così perfettamente lo stereotipo della scimmia urlante, con il loro blaterare di complotti internazionali del nuovo ordine mondiale “woke”, da far pensare che possano essere account creati ad arte dal reparto comunicazione per dare a vedere di aver lanciato un messaggio “scomodo”. Però sono pochi, sono minoranza al punto tale da far sembrare eccessivo perfino l’atto di denigrarli.
Se proprio vogliamo vedere un “complotto” o una “strategia” alla base di questa operazione, viene più facile pensare a un (letterale) pink washing di Adidas, che ormai da tempo si trascina dietro aspre critiche relative alle condizioni di lavoro nelle fabbriche del sud-est asiatico, dove i capi del celebre marchio vengono confezionati. Proprio le pratiche poco rispettose dei diritti dei lavoratori sono state, fra le altre cose, oggetto di critiche alla Berlin Fashion Week dell’anno scorso.
Detto questo, cosa vogliamo fare della nuova maglia della Germania e dei video che la accompagnano? Sono utili a veicolare un’immagine non machista dello sport? Cosa vogliamo pensare dei presunti commenti di odio e del video di risposta? Sono davvero così tanti gli uomini la cui mascolinità è così disperatamente fragile da non sopportare la vista di una particolare sezione dello spettro cromatico? Si può curare la “rosafobia” come si cura la paura di prendere l’aereo? Avrei un’impressione diversa se, invece di leggere i commenti sotto gli account ufficiali della nazionale tedesca li avessi letti in una chat di un qualsiasi gruppo di calcetto di Dresda o di Jena o magari in un gruppo Facebook che sia l’equivalente tedesco di “Pastorizia never dies”? Probabilmente. Ma d’altra parte, per farsi un’idea del sentire comune su un certo tema si scandagliano in primo luogo i contesti generalisti piuttosto che quelli polarizzati.
Questo vuol dire che ci siamo liberati della mascolinità tossica e fragile? No. Proprio per questo, forse, sarebbe il caso di occuparsene dove questa realmente si manifesta e non dove i grandi brand si dedicano a giocare agli eroi, combattendo contro nemici tanto accuratamente progettati quanto innocui.
Considerazioni finali: siamo contenti che il calcio stia progressivamente diventando meno omofobo, meno transfobico, meno razzista e meno machista? Certo. Pensiamo che questo passi per il contratto di partnership miliardario a un’azienda nota per lo sfruttamento dei lavoratori nei Paesi meno sindacalizzati del mondo, in cambio di un design che non ha innovato poi molto, considerando che il rosa si associa allo sport, senza particolari problemi, già nel Giro d’Italia e nella già citata maglia del Palermo Calcio? No.
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