“C’è ancora domani” a Berlino, intervista a Paola Cortellesi: “Dobbiamo essere coscienti di quanto abbiamo subito”

Paola Cortellesi
Paola Cortellesi © Tobis

di Lucia Conti e Angela Fiore

Abbiamo intervistato Paola Cortellesi alla Soho House Berlin, il giorno della prima tedesca del suo primo film “C’è ancora domani“. In serata, salita sul palco del cinema Colosseum dopo la proiezione, ha ricevuto una standing ovation che conferma come questo film continui a coinvolgere, dopo aver battuto ogni record al botteghino.

Eppure, incontrandola di persona, l’attrice, sceneggiatrice e regista italiana non ci è apparsa minimanente “contaminata” da un successo che potrebbe far assumere a chiunque pose da “rockstar”, anche inconsapevoli. Al contrario, ci è apparsa dolce, gentile, vera. E con un fondo di purezza che è difficile descrivere, ma c’è.

Paola Cortellesi era già stata a Berlino nel 2018, durante l'”Italian film festival Berlin“, per la presentazione del film “Come un gatto in tangenziale”. Per questo, l’IFF Berlin non ha esitato a offrire il proprio supporto per la promozione di “C’è ancora domani”, vedendo in anticipo il potenziale che il film ha in seguito espresso.


vinicio marchioni

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L.C.: Il tuo film ha non solo avuto un incredibile successo, ma ha anche animato intensi dibattiti, segnando la cultura di massa in modo trasversale e transgenerazionale. Ricordo ancora una telefonata in cui mia nipote, di 17 anni, e mio nipote, di 13, mi dicevano quanto fosse loro piaciuto, “C’è ancora domani”…

Bellissimo questo. È stupendo. È una cosa commovente.

L.C.: Cosa ti ha colpito di più di questo “tsunami” che si è creato e delle reazioni delle persone al tuo film?

Mi ha colpito la voglia di parlare, la voglia di condividere che c’era alla fine. Quando si promuove il film si va in tour, all’inizio, per invitare un po’ di gente. Si annuncia “Verranno a fare i saluti i membri del cast, la regista, etc. etc.”… insomma, fai un po’ il “buttadentro. Dopo due giorni, però, c’erano già le file fuori dal cinema. Non abbiamo cancellato il tour, però ho chiesto di comparire alla fine degli spettacoli e non all’inizio, tanto non serviva. E alla fine del film trovavo le persone commosse e poi si restava per fare una chiacchierata e io ero lì a disposizione, per curiosità, domande, tutto.

Paola Cortellesi
“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

Le persone sono state il regalo più bello di questo film, al di là dei numeri e dei record… la gente aveva voglia di parlare. E allora alzavano la mano e raccontavano pezzi della loro vita, anche cose private, anche cose brutte, che erano riferite magari a un tipo di violenza. Oppure intervenivano ragazzi che avevano colto un linguaggio che non avevano vissuto bene o qualcosa che si erano “sentiti addosso” al lavoro e che riguardava questo tipo di rapporto di prevaricazione, ma ci sono stati anche storie riferite alle mamme o ai nonni. La gente, commossa, si raccontava davanti a degli estranei, perché lo volevano dire a me, ma in realtà lo volevano dire a tutti.

L.C.: Un coming out…

Paola Cortellesi: Un coming out, è vero! Su cose privatissime. E questo è stato proprio un grande regalo. È stato bellissimo.

“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

A.F.: Mi incuriosisce sapere come hai scelto gli attori che dovevano comporre questo tuo “affresco neorealista”. Sei partita con dei volti precisi già in mente, oppure c’è stato un percorso, per arrivare a decidere come incarnarli?

Diciamo che sono partita con dei talenti già in mente. E poi avevano anche, come dire, il fisico e il volto giusto. Nel senso che avevo bisogno, per esempio per il personaggio di Ivano, che l’attore fosse una persona dall’aspetto ordinario. Non avevo bisogno di un mostro, con l’aspetto di un bruto. Un uomo apparentemente “normale”, come Valerio (Mastandrea, ndr) è molto più spaventoso, perché quello che accadeva nelle case come quella di Delia accadeva per mano di uomini comuni… omuncoli, anche.

E poi, avevo bisogno di un grande attore, perché questo personaggi da una parte è spaventoso e deve essere credibile, quando ci fa paura, ma deve essere anche divertente, quando è ridicolo. E Valerio ha entrambi i registri, può passare dall’uno all’altro agilmente e abbiamo lavorato veramente di cesello per far sì che nessuno dei due registri prevaricasse l’altro. Però Valerio è un attore talmente bravo che riesce a farlo, così come Emanuela Fanelli riesce a passare attraverso qualunque tipo di registro ed essere credibile. Romana Maggiora Vergano è un volto che invece ho trovato grazie alle casting director, Laura Muccino e Sara Casani, e loro sono state straordinarie, perché mi hanno proposto questa ragazza, che è poi diventata la nostra Marcella.

Paola Cortellesi
“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

Marcella è un personaggio difficile, perché è una ragazza sempre arrabbiata, solo arrabbiata. Ha ragione, ma non empatizzi con lei, soprattutto quando ce l’ha con una donna che subisce in quel modo, a quel punto fai il tifo per la mamma. Io avevo invece la necessità che si amasse questa ragazza, che noi fossimo con lei, anche se era sempre nera, perché l’unico sorriso che Marcella fa a sua madre, alla fine di questo film, è la cosa per cui Delia fa tutto quello che fa. Lei fa tutto per avere l’approvazione della figlia, fa tutto per quel sorriso e quel sorriso alla fine arriva ed è l’ultima cosa che vediamo, prima del buio.

Paola Cortellesi
“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

Per questo avevo bisogno che questa ragazza fosse amata e Romana ha delle sfumature che fanno sì che sia credibile nell’essere arrabbiata, ma ci permettono anche di volerle bene. Ad esempio, quando dice alla madre “piuttosto di fare la fine tua, io mi ammazzo!”, la madre la blocca e le dice “ripeti un po’!”. Io ho dato indicazioni a Romana e le ho detto: “adesso, quando ti dirò così, tu hai un secondo, però, ti prego, fammi vedere che quella frase ti è scappata, ma ti sei già pentita di averla detta, però mantieni il punto”. E lei in quel secondo ci fa vedere che è pentita, ma tiene il punto, si gira e continua a discutere con la madre. Questo lo sa fare una grande attrice e lei è una giovane grande attrice.

L.C.: In generale colpisce molto la bravura di tutti gli attori in campo…

Sì, assolutamente tutti, Vinicio Marchioni, Giorgio Colangeli… che ha un ruolo che dire ingrato è dire poco ed è straordinario. È un tiranno e ci fa morire dalle risate, soprattutto quando arriva la scena del pranzo. E poi c’è Lele Vannoli, il gigante buono, un millantatore che alla fine dà il massimo nella scena della veglia funebre…

Paola Cortellesi, Mianet Tobis
“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi, Mianet Tobis

L.C.: Quella scena ha un impatto comico assoluto! “Ti voglio bene… Alva’!”

A.F.: Meravigliosa!

Paola Cortellesi ride

L.C.: A me ha colpito molto una tua intervista per Vanity Fair, in cui hai detto che “nascere donna è già far parte di un movimento”

Che tu lo voglia o no.

Paola Cortellesi
“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

L.C.: Che cosa intendevi?

È come la storia del leone e della gazzella, che appena nasce comincia a correre. Non è proprio così, non siamo braccate, però sicuramente dobbiamo fare i conti con una prevaricazione millenaria, che non possiamo far finta di non conoscere. Dobbiamo essere coscienti di quanto siamo state prevaricate, di quanto abbiamo subito. “Abbiamo” lo dico sempre, perché vale per le nostre nonne e, in misura diversa, vale anche adesso. In alcuni casi, purtroppo, parlando di femminicidio, in altri, per quella sorta di invisibilità che c’è nel mondo del lavoro. Ogni donna che si è dovuta costruire una posizione, in un ambiente di lavoro qualunque, ha dovuto faticare il doppio. Non so se voi avete esperienze di questo tipo…

L.C.: Assolutamente. Noi siamo editrici nel nostro giornale, ma la parola “editrice” non esce quasi mai. Ci hanno chiamato diverse volte “collaboratrici”. Del nostro stesso giornale.

Ho fatto un film su questo. Si chiama “Scusate se esisto” ed è un film in cui interpreto un’architetta.

A.F: Serena Bruno!

Esatto, Serena Bruno. Nasce da quello. Nessuno crede che lei sia il grande architetto. Credono che sia la sua segretaria.

A.F.: Sempre. Ci sono ancora molte situazioni in cui veniamo chiamate redattrici e a volte capita persino con persone che ci conoscono direttamente.

Ah, benissimo!

L.C. Non riescono. La parola “editrici” resta bloccata in gola.

Non esce. Io scrivevo sceneggiature per film in cui ero anche attrice protagonista e durante la promozione di “Come un gatto in tangenziale” una volta a mio marito (Riccardo Milani, uno dei quattro sceneggiatori insieme a Paola Cortellesi, Giulia Calenda e Furio Andreotti, ndr) hanno fatto una domanda e Riccardo risposto una cosa come “bisogna chiedere agli altri sceneggiatori, perché questa è una cosa che non ho scelto io. Bisogna chiedere a lei” e mi ha indicato. C’ero io, lì. E questo ragazzo, davanti alla locandina con i nomi degli sceneggiatori, tra cui il mio, ha detto: “Ah, quindi anche tu hai dato una mano?”

L.C: No!

A.F.: Hai dato una mano… che meraviglia.

 Ma io non te do ‘na mano, io te do ‘na manata! Che è ‘n’artra cosa!

L.C.: Ma infatti!

Paola Cortellesi
“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

Però è così, no? È così che viene preso il tuo lavoro. Ecco perché questa storia la conosco benissimo. “Scusate se esisto” nasce da un tavolo di autori in cui io facevo una proposta e guardavano Furio o Sergio, ma a me non rispondevano. Nasce così quel senso di invisibilità di cui parlavamo. Puoi aver fatto mille cose, aver dimostrato mille cose, aver raggiunto risultati che sono sotto gli occhi di tutti, ma comunque a un certo punto arriverà una parola che in qualche modo svilirà il tuo lavoro e la cosa grave è che non verrà detta per far male. Viene proprio spontaneo. Viene naturale.

L.C. E questa è la migliore spiegazione del perché, come dicevi a Vanity, nascendo donne “facciamo parte di un movimento, che lo vogliamo o no”. E infatti noi ci siamo capite all’istante, su questo aspetto.

Una donna lo sa, noi abbiamo le antenne. Alcune cose gli uomini non le notano e non perché siano cattivi, ma perché non le hanno mai subite. E quindi a volte dicono: “eh, madonna, ma che vai a notare!”. Anche il mio compagno di vita, per dire, mio marito, a volte mi ha detto, quando ho fatto notare questa cosa, “mamma mia come vai nello specifico, cosa vai a notare, ma no, non volevano…”. Perché lui probabilmente non l’ha subito. Sto parlando di una persona che mi vuol bene, seriamente, che mi ama, eppure non si rende conto perché non lo vede. E sto parlando di una persona che mi supporta e che è sempre solidale, nei miei confronti.

L.C: Perché è sistemico

È sistemico.

Paola Cortellesi, Mianet Tobis
“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

L.C. Ed è vero anche quando dici che spesso non c’è l’intenzione di sminuire, ma di fatto si certifica automaticamente una presunta inferiorità delle donne, per cui vengono collocate su un gradino sempre un po’ più basso.

A.F. In una stanza piena di uomini si dice “Signori” e in una stanza piena di donne spesso si dice “Ragazze”.

Esatto, “ragazze”. E troppe ce ne sono, di cose, che potremmo citare.

A.F. E questo è anche il motivo per cui diversi uomini, dopo aver visto il tuo film, hanno pensato che il personaggio di Ivano fosse poco realistico, nel senso di “troppo cattivo”. Le donne, invece, sanno che non solo il personaggio di Ivano è assolutamente realistico, ma che c’è anche di peggio. Tra l’altro volevo chiederti se hai conosciuto una Delia o un Ivano “veri”

No, un Ivano non l’avrei frequentato o lo avrei denunciato. Una Delia contemporanea l’ho incontrata proprio alla fine della proiezione del film. A Genova, una signora ha alzato la mano e ha detto: “Io sono stata Delia, ma non lo sono più”. E dopo questo film ho ricevuto lettere da parte di moltissime donne che stavano vivendo questa situazione e collaboro con l’associazione “Una Nessuna Centomila”, che ha gli strumenti per per aiutare chi ne avesse bisogno. E poi ci sono le nostre nonne e bisnonne. Anche quelle che non subivano violenza o percosse come Delia erano comunque spesso succubi dei loro mariti e si mettevano naturalmente in una posizione di inferiorità. Erano quelle che servivano a tavola e che non si sedevano o si sedevano dopo, quelle che magari avevano un marito buono e amorevole, che però comandava, ma col sorriso, e per la donna andava bene.

Paola Cortellesi
“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

Mia nonna, che ha cresciuto quattro figli ed è passata attraverso qualunque cosa, quando le chiedevo un parere mi dava consigli davvero preziosi, perché parliamo di una donna in gamba e saggia, anche se ignorante, poverina, perché era arrivata solo fino alla terza elementare. Alla fine, però, mi diceva sempre: “Ma che capisco, io…”.

L.C: L’hai inserito anche nel film. Lo dici, a un certo punto.

Sì, lo dico.

L.C.: “C’è ancora domani” sa esprimere le sfumature in modo potentissimo. Mi viene in mente, ad esempio, il sorriso malinconico di Emanuela Fanelli, mentre vede passare una donna incinta e il marito la abbraccia, e lì capisci, in un brevissimo passaggio, che probabilmente dietro c’è una storia triste. Vorrei però concludere la nostra chiacchierata con la scena per cui tutti ti hanno fatto i complimenti e cioè la scena del ballo come metafora della violenza. La mia mente ha continuato a girare su un particolare e cioè sul sangue che scende dal naso e poi risale e sui lividi alla gola, che compaiono e poi spariscono. Mi sono chiesta spesso quale fosse la logica, cosa volessi rappresentare, con questa inquietante “magia”?

Anche se quella scena è stata poi studiata nei minimi dettagli, l’idea mi è venuta istintivamente, per raccontare un rituale, una cosa che si ripete, una cosa che è l’intera vita di Delia, non solo in quel momento, in cui sappiamo che lui si sta scaldando e quindi la picchierà. Io volevo raccontare cosa le accade da sempre e questa è la logica di quei segni che vanno e vengono.

“C’è ancora domani”, Paola Cortellesi © Tobis

L.C.: Come se fosse tutta la vita in un minuto

Paola Cortellesi: Esatto. È un circolo vizioso da cui non si esce, i segni vanno e vengono e anche il sangue va e viene, perché lei subisce questa violenza e poi quasi se ne dimentica e tutto questo non ha mai fine. Non è un presente che in futuro non esisterà più, è una cosa che c’è e continua a esserci, è una cosa che non si rompe. Adesso l’ho spiegato, ma se avessi dovuto farlo prima, non avrei saputo come dirlo, quindi, mentre giravamo, ho detto soltanto: “Io voglio fare questa cosa qua, non insistete, la voglio fare!” (scherzando finge un tono imperioso, ndr). Questa è stata la mia spiegazione: “È bello così!”.

Risata collettiva

L.C.: Ed è davvero bello. Grazie di cuore, Paola.

A.F.: Grazie, grazie davvero.

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