“Il mare brucia”, Cinzia Colazzo: presentazione da Mondolibro il 1° febbraio
Giovedì 1° febbraio, alle ore 19.30, presso la libreria Mondolibro, a Berlino (Torstraße 159, 10115), si terrà la presentazione del libro “Il mare brucia” di Cinzia Colazzo, raccolta di 56 poesie, “istantanee” del punto di vista dell’autrice sull’amore, il contrappunto femminile/maschile, la natura alle prese con iperboli climatiche, lo spazio del mare, la spinta dell’identità di poeta rispetto agli argini editoriali. L’evento sarà moderato da Barbara Basile. Potete trovare qui ulteriori informazioni di dettaglio.
Cinzia Colazzo ha pubblicato i primi brani in prosa e in versi nella raccolta “Risplendi forte!” (Raum Italic, Berlino, 2015), sue poesie in italiano e in tedesco sono apparse su minima&moralia.
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Volevo fare una torta, invece ho scritto una poesia
di Cinzia Colazzo
Questa affermazione cita e inverte il titolo di una raccolta poetica di Grace Paley, “Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta” (“House: Some Instructions”, nella versione originale), che riprende un verso della poesia “La sporadica alternativa” della poetessa. Grace Paley voleva scrivere una poesia, ma “la torta aveva già un suo pubblico vociante e capriolante tra camioncini e un’autobotte dei pompieri sul pavimento della cucina, una schiera di voraci avventori, che dà immediata soddisfazione, al contrario del pubblico del poeta che chissà se si presenterà a chiedere una poesia”.
Il processo che mi riguarda e che voglio raccontare è invertito: volevo fare una torta, invece ho scritto una poesia. Infatti, dopo anni che cucino per tre figli, per un pubblico stabile che non sempre è soddisfatto, nel momento in cui mi accingo a una prestazione culinaria più laboriosa, mi fermo con il mestolo a mezz’aria e sondo: voglio davvero impiegare tutto questo tempo a sfornare una vivanda che poi mangerò io per tre giorni? Sempre più spesso butto qualcosa in pentola e mi sistemo accanto ai fornelli a leggere poesie. La silloge “Il mare brucia” che presenterò a Berlino il 1° febbraio da Mondolibro è stata scritta in cucina sul cellulare.
Perché sottolineo questo e non invento che le poesie sono nate in una scuola di scrittura creativa o in riva a un ruscello su un taccuino verde? Perché è lo spazio chiuso, ristretto e improprio di un tinello e di uno schermo il limite dentro cui la poesia ha allargato lo spazio nella mia percezione, potenziando lo strumento del fermoimmagine. L’alfabeto italiano concede 30 fonemi con cui giocare e anche questo è uno spazio ristretto, tanto che in alcune poesie ho provato a combinare fonemi italiani, tedeschi e inglesi, azzardando rime improprie ma interessanti. La lotta per lo spazio è il tema di questa mia presentazione.
Succede spesso di lavorare, pulire, sistemare, amare, viaggiare in metropolitana con il sentimento dell’azione a termine, da attraversare e finire. In taluni istanti fortunati accade invece di vedersi da fuori, come se una cinepresa si avvicinasse e costringesse a guardarsi nel vetro. Il tempo rallenta, lo sguardo transita verso la soglia, al margine dello spazio-tempo, e il sentimento si dilata. Quello che accade in queste manifestazioni di coscienza per me ha il valore di “chiamarsi”. Una bambina in un tunnel nero comincia a cantare; una donna sola a letto mette una mano nell’altra mano: si confermano, fanno una ricognizione di sé. “Dove sei?” – “Sono qui”.
La poesia che “salva” e svela ricchezze
Questo per me è stato lo spazio salvifico della poesia in un anno molto particolare, non facile e non brutto, che ha avuto una ricchezza di contenuto: la fioritura delle poesie. L’accettazione dello spazio ristretto e la ricognizione di sé non sono le uniche premesse della poesia. Anche l’autoisolamento è necessario. Salvifico è permanere in una sospensione spazio-temporale, anche se ridotta allo schermo del cellulare, e considerare solo la poesia a cui si sta lavorando, solo il verso che non gira. È una fissazione che bisogna nutrire. Ho chiamato questa attività “un salto di corda per ore”. In realtà la mia stesura è rapida e facile, la poesia sgorga quasi pronta da una fonte che sinora non si è esaurita e che sto molto attenta a non tappare. Gli aggiustamenti invece sono un gingillo lungo, potenzialmente infinito, ad alta frequenza oraria di questo recondito accesso.
La poesia va sollecitata: più si gratta, più rivela smeraldi (ma vanno bene anche pietre minori). Questo non è comunque paragonabile al tempo che un letterato accademico o di mestiere passa alla sua scrivania. Il mio salto con la corda, in confronto al lavoro sul tomo-colosso, è il richiamo di un orologio a cucù. Sempre Grace Paley ha scritto che “l’arte è lunga e la vita troppo breve”, citando Ippocrate: per lei non aveva senso chiudersi in una stanza per scrivere, tagliando fuori tutto il resto. Con questo argomento la poeta giustifica una produzione limitata a racconti e poesie.
La “contrapposizione” tra generi nella lotta per il tempo da dedicare all’arte
Le forme brevi sono certamente più compatibili con casa, mariti e torte (e lotta politica, nel suo caso), ma sono anche una scelta di materiale con cui lavorare. La poesia è una istantanea, un frammento, la fissazione di una illuminazione, è rapida, immediata, talvolta tagliente (penso alle “rasoiate” di Jolanda Insana), è economica. La poesia conviene: dice tanto in poco spazio. Nella mia prima produzione risuona spesso un sottile rancore verso i letterati, maschi del dopoguerra dediti solo alle scritture, perché automaticamente mi facevano pensare all’altra metà del ménage familiare, quella che all’ombra tirava su bambini e svolgeva tutte le faccende.
Sto attenta a non scivolare in pensieri fuori fuoco e fuori contesto, però è sempre opportuno tenere conto dei “costi” ricaduti sulle persone più vicine. Anche le artiste hanno spesso difeso la propria attitudine, la necessità di lavorare alla loro arte, a discapito di amanti e figli: penso per esempio alla grande pianista Martha Argerich, che ha cresciuto le sue figlie sotto al pianoforte a coda. In generale il confronto con gli artisti più “alti” dovrebbe aiutare a lavorare umilmente, senza però incorrere in sconforto per la differenza di “misura”. Un poco di autocritica non guasta: bisogna sapere quale spazio si occupa e intanto curare quello. In una poesia scrivo:
[…]
Prelevo dal cassetto un messale:
l’opera omnia di un autore straniero,
ne leggo vita e critica in originale
e a metà mi areno.
Il copioso resoconto
di viaggi e incontri cruciali,
il lavoro in canto, in prosa,
per il teatro, per i giornali
mi inchioda al mio inutile
puerile gioco con le parole
un salto di corda per ore
in un vicolo chiuso.
Dall’intimità della scrittura alla diffusione pubblica del libro
Avvitarsi nel salto di corda in un vicolo chiuso non è sano. Ad un certo punto, bisogna “uscire”. Qualcuno deve vedere il lavoro sudato, la forma che il movimento ha fissato in una raccolta. Sono due momenti diversi. Da una parte vi è il lavoro silenzioso, ristretto, ripetitivo, ostinato, senza interazione sociale, di cui non si è mai sicuri e che ha come unica motivazione la vita dello spirito e il dialogo con se stessi; dall’altra vi è il bisogno di fissare il “prodotto” e di cercare il pubblico.
Dal giudizio di un amico che dichiara “il libro c’è” all’approvazione dell’ultima bozza comunicata alla casa editrice con il “visto si stampi”, si compie l’uscita allo scoperto. Scrivere non è niente. Pubblicare è il vero tormento: come passare dalla giovinezza all’età adulta. Se come donna in cucina ho sentito le ristrettezze del mio spazio di vita artistica, come poeta estranea a ogni circolo letterario sono stata sconcertata dalle logiche dello spazio di pubblicazione.
Qui bisogna lavorare sodo e imparare a comunicare con gli editori (nel mio caso al 99% uomini), attraversando litigi e silenzi tombali, sino al giorno in cui l’editore spedisce le due copie omaggio accompagnate dal biglietto “Il libro è molto bello”, e l’emozione è tale che le due copie restano lì chiuse per un giorno intero, perché se le “creature” sono nate sul cellulare, cresciute sul laptop e mandate in sposa a una casa editrice, a quel punto tornano indietro donne fatte, e vogliono essere viste nella loro autonomia. Questo può davvero commuovere. Ma bisogna accettare che tutto viene fatto proprio per una pulsione che spinge e scatena onde: è l’antidoto alla stasi dello spirito, e si sa che è fatto di picchi e cadute profonde.
“Se non posso cambiare le cose, le descrivo”
Perché allora tutto questo patire? Per me la poesia è una forma di controllo. Quando sono frustrata da una situazione, quando l’uomo che amo si sottrae, quando i soldi sono finiti il 20 del mese, quando non so che fare di me, quando sono bloccata nella mia casellina di “madre sola”, io scrivo. Se non posso cambiare le cose, le descrivo traslando le immagini. La Madonna portata in processione comincia a vacillare; i cedimenti psichici della donna confluiscono in un imbuto disegnato dai versi; la Sicilia è una zattera che rotea nel mare ingrossato; un trochide salmastro sta per la vita estatica al di là dell’iperattività umana; i girasoli diventano depressi; e la ricerca di un editore si fa viaggio interrail con la discesa in stazioni minori se non nella destinazione ambita.
Tre delle poesie contenute nella raccolta sono dedicate ai miei figli, e anche questa è una compensazione inefficace, ma la sola possibile. Altre poesie delle 56 sono composte per lo Scrittore, l’uomo che ha acceso la miccia e fatto esplodere fuochi d’artificio lirici: per un anno ho comunicato in modo indiretto e trasversale per mezzo dei versi e innalzato a canto notturno d’assiolo lo sforzo di tenere insieme il cuore. Vi sono anche poesie per i Paesi dove sono vissuta, con omaggi alla Germania per i solchi linguistici che ha aperto in me.
Dell’Italia piango il destino della lingua, che armava il pensiero e che è affetta da mali, con interrogativi sui pericoli della sciatteria linguistica: “queste e altre piaghe guastano/il terreno di sostanza e forma/e da qui al passato dei bastoni/o al futuro degli automi/è assai meno di un comma”.
La poesia intercetta il mondo. Dal buco da cui prende corpo apre raggi che gettano luce sulla più lontana delle mete: il senso universale dell’abitare la stessa terra. Per cui, e chiudo il cerchio, ho scelto di scrivere una poesia invece di fare una torta perché, al contrario della torta, la poesia potrà raggiungere lettrici e lettori lontani, la sera della presentazione a Berlino o fra tanti anni in una biblioteca, e questo davvero conta: fare qualcosa di duraturo.
Come in certi treni
quando verso la fine del viaggio
dopo tante ore nello stretto spazio
le persone si accomodano nel vagone
lasciandosi andare a qualche
confidenza con gli altri che non
sono scesi prima e sembrano
proprio restare sino al capolinea,
così nell’esistenza a un certo punto
si tralascia di notare il panorama
e tutto diventa la destinazione di
arrivo con i compagni di viaggio
e poi neanche più l’arrivo
ma solo il passaggio.
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