“Friedhof”, della band I-Taki Maki, è uscito a dicembre del 2023, ma è nato in pandemia, nella sospensione difficile e spettrale in cui siamo precipitati tutti. Si compone di otto tracce, che parlano di un mondo che non solo, nel frattempo, non è diventato migliore, ma continua a invisibilizzare gli ultimi, i fragili, gli angoli ciechi in cui non esistono giustizia, né umanità.
I-Taki Maki, “Friedhof”: un album che parla di macerie e speranza
Questo è il senso dell’album (il cui titolo, in tedesco, significa “cimitero”), nato dalla tenacia e dallo spirito ferocemente indipendente di due sole persone. Dietro all’intero progetto, infatti, ci sono Mimmi (voce, batterie, percussioni) e strAw (chitarra, voce, tastiere), italianissimi, ma residenti a Berlino dal 2015
Registrato al Pirate Studios in modalità totalmente DIY, con missaggio e mastering a cura di strAw, l’album evoca moltissimo l’attitudine abrasiva e minimalista dell’alt-rock anni novanta. Da un punto di vista tematico, le tracce accompagnano chi ascolta in un vero e proprio viaggio all’inferno, ma guidato dalla voce di un angelo: Mimmi. Nonostante il timbro morbido e le melodie spesso suadenti, infatti, gli scenari rappresentati sono scarni quanto le chitarre di strAw, che ricordano l’anarchia di Scout Niblett, ma soprattutto l’approccio graffiante della P.J. Harvey degli esordi, quella di “Rid of me”, sopratutto.
A differenza di una certa tendenza “albiniana” a sottrarre il più possibile, che caratterizzava i più puristi tra gli indie rocker della prima ondata, però, l’approccio del duo non mostra alcuna paura, quando si tratta di arricchire i brani con sfumature più morbide e diverse. Considerando che I-Taki Maki lo fanno praticamente senza mezzi, sarebbe molto interessante vederli alle prese con una produzione in grado di valorizzarli.
Melodie morbide e suoni acidi, dolcezza e pugni nello stomaco
La prima traccia, “Fleeting birds”, ha tutti i crismi di una ballad, ma in realtà l’album inizia colpendo duro. Il brano parla infatti della crisi palestinese e il dolce canto di Mimmi è quello di una donna in fuga, divisa tra la gioia di potersi costruire un futuro migliore e la tristezza di dover abbandonare tutto, per riuscirci. Gli interventi chitarristici di strAw, che stravolgono in modo acido una linea tendenzialmente blues, sono il bilanciamento perfetto di un brano che assume oggi, inaspettatamente, ulteriori e dolorose sfumature socio-politiche.
La seconda traccia, “Just Mad”, vede un’iniziale fusione tra Mimmi e strAw in una linea vocale di sapore “bowiano”, che posso immaginare facilmente cantata dal “duca bianco”. La melodia, accompagnata dalla sola chitarra, va avanti fino all’apertura, che libera sonorità che “allagano” tutto, in un’ideale rappresentazione del tema di cui parla il brano: il disastro climatico e la catastrofe naturale in arrivo, che gli uomini non riescono a impedire e a volte neanche a vedere. Intanto, la chitarra di strAw fa da contrappunto alla “voce fantasma” di Mimmi, progressivamente sommersa dai suoni e ridotta a un’eco, ma un’eco dominante, nel complesso armonico del pezzo.
“Never Ever” sfoggia un’apertura ariosa che infonde speranza anche in fondo al buco nero in cui I-Taki Maki hanno cercato di calarsi. La chitarra di StrAw tesse una base ritmica alla “Rid of Me”, evocando ancora una volta la celebre Polly Jean di Yeovil, ma la sacerdotessa dell’indie rock si ripresenta anche nella successiva “The Bank”, anche se, stavolta, parliamo di una fase diversa, quella di “Stories from the City, Stories from the Sea”.
Il ritmo è infatti incalzante, con una batteria serrata e la classica impostazione energica del rock più puro. Il brano prende spunto dalla storia della Grameen Bank, la cosiddetta “banca dei poveri”, fondata nel 1976, in Bangladesh, dall’economista e premio Nobel Muhammad Yunus, allo scopo di aiutare chi aveva perso tutto a causa dell’ennesimo disastro naturale sul territorio.
Con “El Paso Stars” tornano atmosfere più rarefatte e cupe. Lo spirare del vento anticipa e suggerisce all’ascoltatore dove si troverà a breve: di fronte al muro che divide il Messico dagli Stati Uniti, insieme a tutti coloro che hanno cercato la felicità altrove e sono stati lasciati fuori, sotto stelle indifferenti, braccati dai controlli di frontiera e dalla ferocia dei narcotrafficanti. La voce di Mimmi, accompagnata dal vibrato di strAw, ripete una ninna-nanna dark, che culla nel buio, nel freddo e nel silenzio.
In “Golden Rings” il ritmo, ipnotico e costante, che accompagna strofe molto scarne, gonfiate appena da un ricamo di synth, si arricchisce, nelle aperture, di inserti sonori che spingono in avanti la variazione vocale. È una favola nera, quella raccontata da Mimmi, che parla di una giovane donna che fugge dalla povertà di un piccolo villaggio della Thailandia, ma non ha fortuna, perché si ritrova in un giro di sfruttamento e darknet, una volta arrivata a Bangkok.
Con la traccia numero 7, I-Taki Maki tornano a casa. In “Roma”, si ritrovano nell’Italia che hanno lasciato, un’Italia che riscoprono addirittura peggiorata, in cui la libertà di parola è diventata chimera e la distopia realtà. Tanto cupa è la cornice, tanto è luminosa e pacificante l’atmosfera del pezzo, un contrasto che ricorre spesso, nell’arco dell’intero album.
“Friedhof” si chiude con “Stolen Land”, forse il pezzo più struggente dell’album anche dal punto di vista melodico. Le linee vocali e l’arrangiamento, infatti, sottolineano una sofferenza che esplode nei contrappunti chitarristici di strAw, che escono fuori dall’impasto sonoro in modo violento, quasi espressionistico, e confluiscono in un finale abrasivo, in cui urlano il dolore dei morti in mare, di tutti coloro che hanno tentato di raggiungere l’Italia su imbarcazioni di fortuna, mancando la meta. Il brano è il complemento ideale di “Deep Blue Sea” degli Uzeda: “Stolen Land” dà infatti voce, in modo dolente e catalettico, al dolore che la band catanese ha espresso in modo sincopato e convulso.
Questo è il “cimitero” di cui parlano I-Taki Maki, eredi del post-punk e dello slowcore, degli anni novanta e di un impegno civile travolto dai temi “minimal” dell’indie-pop italiano, diventato dominante una volta scavallato il primo decennio dei duemila. Forse per un caso, forse no, nel 2015 i Taki-Maki si sono trasferiti a Berlino. E a distanza di dieci anni e sei album, continuano a seguire la loro stella polare, per tutta Europa.
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