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Il crimine organizzato prospera sulle crisi: intervista a Mauro Mondello

Venerdì 24 novembre, presso il Kunstquartier Bethanien, inizia la conferenza “Organised Crime – A Global Business”, l’ultima del corrente ciclo di eventi del Disruption Network Lab di Berlino. Per tutto il fine settimana, giornalisti d’inchiesta ed esperti di criminalità organizzata transnazionale si incontreranno, per dibattere con il pubblico delle forme che il crimine organizzato contemporaneo ha assunto e dei suoi effetti sulla società. Si tratta di una conferenza pensata per fare domande scomode e per dare voce a chi è abituato ad approfondire questioni ancora più scomode, spesso con grandi rischi personali. Fra gli organizzatori di questo evento, insieme a Tatiana Bazzichelli del Disruption Network Lab, c’è Mauro Mondello, giornalista investigativo, scrittore e documentarista freelance, che si muove fra Italia, Germania e Portogallo. Mondello ha collaborato, fra gli altri, con Repubblica, Avvenire, Radio Rai, Panorama, Rivista Studio, East e Zeit Magazine, occupandosi soprattutto di questioni legati all’area del Medio Oriente e al mondo arabo.

mafia - organised crime DNL

Negli ultimi anni, ti sei occupato soprattutto di crisi come quelle dei rifugiati e di Medio Oriente. Cosa ti ha spinto a partecipare all’organizzazione di questa particolare conferenza sul crimine organizzato?

Questa è la terza conferenza che organizzo con il Disruption Network Lab. Quindi alla base c’è sicuramente un rapporto di lunga durata con DNL e con Tatiana Bazzichelli. Quando  ci scambiamo delle idee e sembra che possano essere nelle nostre corde, ci lavoriamo volentieri insieme. Questa conferenza è particolarmente nelle mie corde, perché io mi sono occupato anche di criminalità organizzata in Sicilia. Tanti anni fa, avevo un giornale di investigazione e di inchiesta. E, in generale, mi sono trovato sempre a stretto contatto con tutte le dinamiche della criminalità organizzata, sia durante le mie corrispondenze di guerra che nei miei focus su migrazione e rifugiati. Perché comunque anche quello è un aspetto della criminalità organizzata. Ora, nello specifico non so quanto ne parleremo in questa Conferenza perché è un aspetto molto molto preciso e tecnico, però sicuramente, in generale, il traffico di esseri umani è purtroppo una parte importante del crimine organizzato contemporaneo.

Nel tuo lavoro, hai approfondito molto le crisi geopolitiche e geopolitiche che stiamo vivendo. Come riassumeresti il ruolo che il crimine organizzato ha in queste crisi? In che misura se ne interessa e le sfrutta?

Sicuramente le sfrutta. La questione è molto complessa e richiederebbe una risposta assai più lunga, ma, volendola sintetizzare, sicuramente possiamo dire che il crimine organizzato sfrutta queste crisi, perché il crimine organizzato di oggi non è più quello che immaginavamo, in maniera anche un po’ “romantica”, fino a venti trent’anni fa. Quello con il il boss del quartiere che va in giro a spadroneggiare e prende il pizzo. Oggi la criminalità organizzata è composta di vere e proprie imprese: i capi non sono più boss, sono imprenditori. Sono persone che hanno contatti ad altissimi livelli, che lavorano su base transnazionale, che operano in contesti legati anche all’alta finanza e quindi le crisi, in generale, sono dei contesti nei quali loro si muovono con maggiore profitto.

Di questo parleremo nel corso della Conferenza: il secondo giorno, ci sarà un panel dedicato alla corruzione istituzionale in senso più ampio. Il nostro ospite bielorusso, Anton Radniankou, ci spiegherà ad esempio come le sanzioni alla Bielorussia, che l’Europa considera giustamente importanti, in realtà in Bielorussia e in tanti altri Paesi post-sovietici sono state un veicolo per generare più corruzione. Questo perché nel contesto di queste sanzioni si inserisce la criminalità organizzata, che trova gli spazi per proliferare. Questo è solo un esempio, che serve a far capire come la criminalità organizzata sia forte è anche i contesti nei quali si prende un’iniziativa opportuna, come quella delle sanzioni alla Russia, se riesce a trovare lo spazio per diventare un riferimento importante.

Di recente, ti sei occupato molto della crisi dei migranti di Lampedusa: quanto pesa il crimine organizzato nel rapporto fra Italia/Europa e migranti

Sicuramente il crimine organizzato, sia in Africa che in Europa, pesa moltissimo. Nel senso che tutte le partenze dal Nord Africa sono tutte gestite dalla criminalità organizzata locale, dall’inizio alla fine. Dall’inizio di questi viaggi, che partono dal centro Africa, fino all’arrivo sulle coste europee, con la complicità delle autorità dei vari Paesi, attraverso i quali questi questi esseri umani passano. E, molto spesso, tutto questo continua anche in Europa, dalle realtà raccoglitori di pomodoro in Puglia a quelle di tantissimi lavoratori dell’agricoltura in Sicilia. E ci sono tantissime situazioni simili anche nel resto d’Europa.

Queste persone vengono utilizzate come come forza lavoro illegale dalla criminalità organizzata, con le forze dell’ordine che spesso chiudono gli occhi, in parte perché non hanno i mezzi per contrastare contrastare queste dinamiche e in parte perché in realtà è una situazione che conviene. Perché queste persone diventano lavoratori che possono arrivare a prendere uno, due, tre o quattro Euro l’ora e quindi la loro situazione non interessa a nessuno.

Detto questo, ci tengo a specificarlo, io ovviamente ovviamente sono fortemente contrario a qualunque a qualunque politica di chiusura dei porti, deportazione dei migranti illegali in Albania e tutte queste follie che di cui si sente parlare non solo dall’attuale Governo italiano, ma anche da altri Governi comunitari.

La migrazione non è un problema né un’emergenza, come continuiamo a chiamarla: è un fenomeno. Finché continueremo a trattarla come un problema, come un’emergenza, continueremo a cercare soluzioni d’emergenza a problemi d’emergenza, sia a livello nazionale che a livello comunitario. Quando finalmente capiremo che questa non è un’emergenza – perché questa situazione è in corso da più di 12 anni – ma è un fenomeno, allora potremo provare finalmente a governarlo. E quando avremo adottato questo approccio, forse riusciremo a cambiare qualcosa. Abbiamo bisogno di capire che, se davvero ci fosse quest’invasione di cui si parla, noi non saremmo in grado di controllarla. Non c’è un’invasione, c’è solo un fenomeno migratorio, che peraltro, nelle sue modalità, è identico a quello europeo dello scorso secolo, quindi non è nulla di nuovo a livello storico.


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Il crimine organizzato ha paura delle parole. Intervista a Floriana Bulfon

Concluderei con menzionando un tema che abbiamo affrontato con Floriana Bulfon, nella precedente intervista, cioè quello del giornalismo. Floriana menzionava il fatto che il crimine organizzato ha ancora paura delle parole, ma ormai non contrattacca più solo con le minacce o gli attentati, che poi portano i giornalisti a stare sotto scorta, ma molto spesso con strumenti come le querele temerarie, che possono distruggere chiunque non sia protetto da un grosso gruppo editoriale. In questo nuovo panorama, in cui è più facile mettere a tacere un giornalista, pensi che esista ancora la possibilità, per i giornalisti indipendenti, di difendersi e fare il proprio lavoro al sicuro? In questa situazione, quali sono gli strumenti con cui un giornalista può difendersi?

Sicuramente ce ne sono molti di meno e questo dipende sia dalla capacità della criminalità organizzata di difendersi dalle parole in maniera più sottile, come diceva giustamente Floriana. Rispetto al passato, adesso non c’è bisogno più di ammazzare un giornalista. Basta molto meno, basta querelarlo.

E dall’altro lato, però, questo stato di cose è anche legato alla una maggiore debolezza dei giornalisti, che una volta erano più tutelati, perché c’erano più contratti, perché c’era una struttura più solida intorno al giornalista. Oggi gran parte dei giornalisti, soprattutto quelli freelance, quelli che fanno le inchieste, non hanno tutele, quindi diventa più difficile difendersi. Gli strumenti ci sono, ma non sono tantissimi.

Soprattutto non esistono strumenti istituzionali: il giornalista si può difendere soltanto scrivendo di più, facendo più rumore, sperando che quel rumore sia più forte e riesca a creare intorno a sé una struttura, per cui diventa più difficile metterlo a tacere. Questa è l’unica difesa che ha. Ovviamente, questo pone un problema perché significa che i giornalisti più piccoli, i giornalisti che magari scrivono un articolo su una questione di mafia, in un piccolo paese siciliano, poi non avranno accesso a quella protezione. E questo è un problema, perché poi, nel 90% dei casi, vuol dire quei giornalisti quella notizia non la scriveranno, perché non ne vale la pena.

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